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0024 [CITTA’] Fabrizio Gallanti | Recuperare il progetto dello spazio pubblico tra polis e urbs

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di Fabrizio Gallanti

L’intenso processo di urbanizzazione che ha caratterizzato la modernità e che continua a essere alla base dello sviluppo mondiale attuale ha visto una sostanziale modifica degli attori coinvolti. Nel corso della storia dell’umanità, la forma concreta delle città è stata la conseguenza delle azioni delle comunità che le abitavano. A diverse organizzazioni della sovranità e delle forme di governo sono coincisi diversi tipi di urbanità. Per gli storici della città è sempre stato complesso costruire delle letture che potessero districare tra il peso dell’iniziativa spontanea individuale, l’azione di corpi strutturati quali le gerarchie religiose o le consorterie produttive, l’intenzione simbolica degli interventi dettati dai poteri di governo (l’Imperatore, il Re, il Comune, la Repubblica), le condizioni geografiche e climatiche, le preoccupazioni di efficienza e igiene pubblica, l’attenzione alle questioni di strategia militare, le tradizioni costruttive e artigianali. Lo sviluppo capitalista e l’espansione della rendita fondiaria hanno modificato lo scenario complessivo dello sviluppo urbano, accompagnato da un rafforzamento dello stato come regolatore principale del controllo sul territorio e sulle sue trasformazioni. In Europa e nelle colonie la crescita spontanea e auto-regolata delle città, è stata sostituita, già a partire del XVII secolo, da una gestione affidata a specialisti, inquadrati e diretti dalle strutture di governo (stati e municipi). Alla fine del XIX secolo l’apparizione di una nuova disciplina, l’urbanistica, sancisce definitivamente il fatto che la città diventa un progetto.

Come già in passato la città contemporanea è il riflesso delle condizioni di potere. L’indebolimento progressivo del settore pubblico e il trasferimento di responsabilità e ruoli che gli erano propri verso i privati hanno determinato una nuova costellazione di soggetti che agiscono sul corpo della città  Inoltre la circolazione internazionale dei capitali e la conversione della città in una risorsa economica, hanno scardinato le relazioni locali che avevano caratterizzato la storia urbana per secoli: nuovi sviluppi residenziali a Vancouver o Seattle sono la conseguenza di investimenti immobiliari cinesi, gigantesche infrastrutture logistiche, industriali o portuali seguono flussi finanziari generati a Londra, New York o Hong Kong, sterminate superfici agricole in Africa o America Latina sono di proprietà di fondi sovrani arabi o asiatici.

Il progetto della città moderna si colloca alla convergenza dell’economia e della politica. L’urbanistica e la pianificazione del territorio ad una scala vasta e l’architettura ad una scala più minuta sono gli strumenti della sua esecuzione. Se ci si immerge nel vasto settore culturale che accompagna l’architettura, composto di riviste specializzate, libri, mostre ed eventi, simposi, biennali e festival, premi, blog e siti internet e intrecciato con il mondo dell’accademia e delle pratiche cosiddette creative si possono riconoscere alcune tendenze ricorrenti. Appare evidente come, soprattutto nei paesi industrializzati l’architettura sia sempre meno messa al servizio del bene comune: la dotazione di infrastrutture pubbliche (scuole, ospedali, stazioni ferroviarie, parchi, tribunali, musei) soddisfa, grosso modo, la domanda collettiva già da diversi decenni. L’ambito di azione degli architetti si è quindi spostato verso gli interventi speculativi di natura immobiliare o terziaria o verso la realizzazione di edifici ‘iconici’, che fanno spesso parte delle strategie di marketing urbano, concertate tra poteri pubblici e interessi privati.

Se si pensa a esempi oramai classici come il centro Pompidou a Parigi di Richard Rogers e Renzo Piano, il museo Guggenheim a Bilbao disegnato da Frank Gehry sino al MAXXI di Roma progettato da Zaha Hadid si riconosce una linea comune che utilizza le capacità di progettisti innovativi per creare oggetti autonomi, che si stagliano contro lo sfondo della città e che ne assorbono spesso la vitalità, all'interno di logiche di consumo culturale.








Raramente oggi, sfogliando una rivista patinata o trascinandosi stancamente per una biennale d’architettura si incoccia in nuovi progetti immaginati per lo spazio pubblico, che ne reinventino i modi d’uso e la rilevanza per i cittadini contemporanei. E in generale le sempre più scarse politiche di residenza sociale o di dotazione scolastica o sanitaria agiscono prevalentemente sulle quantità con l’obbiettivo del contenimento dei costi, senza perpetuare l’idea, che aveva sostenuto l’architettura moderna nel corso del ventesimo secolo, che attraverso nuove forme, tecnologie innovative e un nuovo uso dello spazio si possa garantire il benessere e lo sviluppo sociale.

Se si allarga però lo sguardo oltre il Giappone, l’Europa e gli Stati Uniti, e pure tra le pieghe meno frequentate di questi luoghi, si possono cogliere i lineamenti di una comprensione dell’architettura ancora sostenuto da una vocazione al comune. La prima tendenza vede il progetto di architettura come il catalizzatore in grado di sostenere la trasformazione dei quartieri poveri delle grandi megalopoli, offrendo strumenti per l’emersione dall'arretratezza  Di questo impiego strategico dell’architettura se ne registrano diversi esempi, prevalentemente in America Latina. All'interno di questa condizione appaiono due approcci complementari.

Il primo consiste nella realizzazione di opere pubbliche all'interno delle favelas, che non solamente rispondono a necessità primarie di accesso all'educazione e alla salute ma che diventano dei poli di aggregazione e di incontro per le comunità, spesso generando una risposta a condizioni di degrado e violenza. Inoltre, in quanto espressione di un linguaggio architettonico di avanguardia, che di solito era riservato alle élite locali, diventano oggetti simbolici che esprimono una diversa partecipazione dei cittadini alla vita democratica. Questa politica ha caratterizzato numerose trasformazioni in Colombia, attraverso un sistema trasparente ed efficace di concorsi pubblici, che ha visto inoltre l’affermazione sulla scena internazionale di una nuova generazione di progettisti. Le scuole e biblioteche di Mazzanti Arquitectos e Plan B a Medellin, Bogotá e Cartagena, le infrastrutture per lo sport di Paisajes Emergentes sempre a Medellin sono alcuni degli esempi più celebrati, analoghi alla campagna di dotazione di complessi scolastici nelle periferie di San Paolo in Brasile o alle “palestre verticali” (cosi chiamate perché impilano all’interno di un solo edificio numerose attività sportive) collocate nei quartieri più pericolosi di Caracas in Venezuela.


Si tratta di un’ipotesi di agopuntura, che interviene su punti sensibili, inserendo architetture che come dichiara Giancarlo Mazzanti, fanno molte cose allo stesso tempo (il cortile della scuola diventa un mercato il fine settimana, le aule sono luoghi per le riunioni delle associazioni di quartiere, la cucina della mensa può essere usata per le attività pubbliche).

Il secondo approccio riconosce nella maniera con cui si è sviluppata la città informale in America Latina una pratica dal basso di costruzione dell’urbanità dalla quale desumere delle indicazioni e delle linee guida che possono essere accompagnate da azioni di risanamento e di messa in sicurezza ma che forniscono anche un possibile codice genetico per i nuovi interventi, in grado di mantenere la ricchezza delle relazioni sociali che esistono attualmente. 

Gli architetti agiscono di concerto con antropologi, sociologi, operatori locali, agenzie non governative per sviluppare processi di cambiamento, dove la forma architettonica diventa quindi secondaria. I progetti di edilizia residenziale di Elemental in Cile, in grado di mantenere nei siti originari le comunità minacciate di espulsione, gli interventi di riqualificazione degli spazi pubblici e dei servizi delle favelas condotti dagli assessorati alla casa di San Paolo e Rio de Janeiro in Brasile, le infrastrutture di mercato progettate da Mauricio Rocha a Città del Messico, ispirate dal commercio informale, testimoniano di un’attitudine nella quale gli architetti forniscono il proprio sapere e conoscenza tecnica all'interno di meccanismi complessi di gestione del territorio.

Una seconda tendenza appare essere quasi anacronistica. Nonostante la crisi, le amministrazioni pubbliche in Spagna continuano a realizzare ogni anno un numero immenso di spazi pubblici: piazze, passeggiate che costeggiano il mare o fiumi, parchi, interventi talvolta minuscoli per dotare uno spiazzo ritagliato in periferia di alberi, panchine e giochi per bambini manifestano una forma di permanenza dell’ipotesi che la città sia costituita dall'interazione sociale degli abitanti al di fuori delle sfere del consumo. I migliori architetti spagnoli e internazionali continuano a ricevere committenze pubbliche per questi luoghi, vere e proprie sacche di resistenza contro la speculazione immobiliare scatenata che è stata alla base della situazione economica attuale. A Siviglia, Metropol Parasol, un paesaggio di tettoie di legno lamellare, che paiono sbucare da un film di fantascienza degli ani ’50, progettate dall'architetto berlinese Jurgen H. Mayer copre un grande spazio aperto, che era abbandonato da anni, che in poco tempo è diventato un nodo cruciale della vita dei cittadini.



Paradossalmente rispetto ai preconcetti correnti, negli Stati Uniti si registrano diversi sommovimenti, che suggeriscono una deviazione dai modi con i quali la città si è sviluppata e che rappresentano alcuni tra gli esempi più stimolanti. Innanzitutto una serie di progetti di natura anche molto diversa suggerisce l’ipotesi che la città e non più il suburbio sia il luogo dove investire risorse, dove ricondurre gli abitanti e dove immaginare nuove forme di convivenza. Rispetto a una spinta orientata alla segregazione e alla separazione per linee di classe sociale, razza e censo, questi progetti sono porosi nel senso che riconquistano una dimensione di inclusione delle differenze: la ferrovia dismessa convertita in parco sopraelevato della High Line a New York, progettata da James Corner Field Operations e Diller Scofidio + Renfro, il parco di Playa Vista a Los Angeles di Michael Maltzan o l’Olympic Sculpture Park di Weiss Manfredi a Seattle sono esempi di una progettazione dello spazio pubblico collettivo, di nuovo in grado di sostenere la imprevedibilità e ricchezza della vita urbana.

Questo desiderio di socialità libera si ritrova anche all'interno di quello che forse è uno dei progetti più “politici” dell’architettura recente: la biblioteca di Seattle di Rem Koolhaas. L’assoluta facilità di accesso a questo edificio iconico, non regolata da controlli e filtri, lo ha convertita in un centro fondamentale nella vita urbana, dove, per esempio, i senza casa della città trovano rifugio e accesso a una cultura troppo spesso negata.



Questa breve carrellata di esempi, provenienti da diversi luoghi e circostanze, con modelli di gestione spesso estremamente distanti tra loro, dimostra il desiderio da parte degli architetti e dei progettisti di recuperare una voce e una rilevanza all'interno della crescita delle città. Si tratta, anche, dell’intenzione di recuperare per l’architettura una dimensione politica, se non ci si dimentica il senso ancestrale del rapporto tra polis e urbs.

14 febbraio 2013
Intersezioni ---> CITTA'
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Note:
quest'articolo è la versione integrale di un testo pubblicato su Alfabeta, n° 22, settembre 2012:  'La nuova architettura degli spazi pubblici'. Link



0051 [SPECULAZIONE] Raffaele Cutillo | Parole sparse, per un Visionario del nostro Tempo: Beniamino Servino

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di Raffaele Cutillo
«La più nobile specie di bellezza è quella che non trascina a un tratto, che non scatena assalti tempestosi e inebrianti (una tale bellezza suscita facilmente nausea), ma che s’insinua lentamente, che quasi inavvertitamente si porta via con sé e che un giorno ci si ritrova davanti in sogno, ma che alla fine, dopo aver a lungo con modestia giaciuto nel nostro cuore, si impossessa completamente di noi e ci riempie gli occhi di lacrime e il cuore di nostalgia.» (Friedrich Wilhelm Nietzsche)* 
Come Vitruvio, Francesco di Giorgio, Filarete

L'ultimo libro di Beniamino Servino non è una raccolta di disegni ma un Trattato di Architettura e, per molti versi, biblico nella sua strutturazione fisica e teorica.

Attraverso una scrittura densa e stringata (che si fa aforisma) e la potenza visiva di 402 disegni_immagine (tutti maniacalmente sostenuti dal fermo controllo della Geometria, necessità genetica del Progetto) supera la manualistica consolidata, definitiva e normalmente conclusa in sé, per aprire e dilatare lo sguardo verso le frammentate incertezze del Contemporaneo.

La necessità monumentale risiede in questa Complessità e nell'invito generoso, apparentemente provocatorio, a indagarne il senso attraverso l'Architettura facendo conoscere/ri_conoscere l'intimità della Composizione e la bellezza catartica del suo essere Forma.

Le singole pagine, fatte di fatica e disciplina, sono strati su strati: materici, policromi, tematici, linguistici, concatenati o divergenti, osmotici o ludicamente sfuggenti. Tutte insieme restituiscono un pensiero concreto che si distacca dallo stato onirico del disegno approdando, infine, alla Rivelazione.

Ma solo attraverso la piena e totale Conoscenza dei campi del Sapere, l’Architettura si rende tale, proprio come avviene qui.

Rinascimentale.

Arte e scrittura, teatro e gioco, sociale e poesia, cinema e tecnica, comico e tragedia, musica e danza, sono solo alcune delle Muse (della Grecia e di questo tempo) che lasciano dischiudere la loro verginità nel candore della copertina.



La leggerezza del Monumento

Il Monumento è qui, sulla mia scrivania, dal 23 ottobre 2012 quando Beniamino me ne ha fatto dono, tra i primi, in un pomeriggio di comune emozione e chirurgica attenzione al manufatto: dettaglio del filo, verifica della morbidezza tattile, deciso spaginare, strizzare dell’occhio sull'opacità della superficie, resa perfetta del colore, incommensurabilità dei pixels per i ponderosi files di stampa, allineamento o controllatissimi slittamenti e, infine, lo scorrere morbido delle dita sul titolo, suggerito in un momentaneo stato di cecità per lasciarne penetrare nel corpo il tridimensionale senso intrinseco. Come toccare un’impalpabile Architettura, quella che si sarebbe svelata oltre il bianco luminoso della copertina.

E dentro Ordine e Materia, ciò che solo il disegnare può restituire. Disegno che qui è sostanza delle cose.

Dei mille e alterati significati che vengono conferiti al monumento preferisco quello che rimanda all'opera della Memoria. Servino va oltre. Supera il Ricordo e il suo monumentare diventa reinterpretazione del Contemporaneo. Aggressivo e greve, didattico e avvolgente, esplicativo e dirompente.

Resta, in tutto il fluire tra le pagine, netto e leggerissimo.



Un libro con l’Anima

Con i libri mi confronto al pari delle persone. Vanno resi vivi. Un libro di Segni, poi, lo è forse ancora di più, laddove l’anima è diretta restituzione del graffio.

Ci guardiamo tutti i giorni, io al computer mentre lui (sì, lui), sulla scrivania al mio fianco, si fa originale e re_umanizzata Architettura, interpretata da Servino attraverso il progetto continuo.

Mi spruzza il colore da una torre o si distende rigidamente come una stecca frankfurtiana, mi racconta dei sacrifici di un tempio azteco o rimodella sapientemente le strutture di basamenti corbusiani, si dipana nel graticcio fittissimo dell’angolo di una quadra o si aggrappa lungo i tornanti in calcestruzzo di un colle conico, svirgola nel cielo della stanza con una pennata o sfoglia impudicamente se stesso al vento (quando tento di chiuderlo) al pari di una dispettosa strip-teaseuse, declama invettive all'ipocrisia di questo tempo in_sostenibile o lascia spuntare dalla raffinata brossura cucita a mano un aguzzo peduncolo, e poi uno, e un altro ancora, nonostante io li recida tutti, all'istante.

Gorgone impertinente.

Ormai sono continue sfide, un sornione rintuzzare che si manifesta però, inaspettatamente e quotidianamente, sempre con pagine diverse.

Sono 439 + XXII, e allora la lotta può durare ancora un anno.

Di questo scambio adoro il manifestarsi di una casualità che supera quel rigore fortemente presente nel libro (Beniamino è intellettuale di Esattezza calviniana) e del quale io, invece, faccio spesso a meno.

Nell'intreccio tra foglio, sguardo e gesto, il renderlo dis_ordine diventa mia unica e divertita arma di difesa.



Il Gioco e il suo compimento

Il disegno della libera mano è l’infanzia che manifesta se stessa al mondo: istinto da maturare per renderlo Ragione in fieri, scomposizione/ricomposizione in graduale conquista della Dimensione, aggregazione di forme ancestrali, mélange di colori, linee scabre e tratto morbido che sembrano rimandare al sogno.

Il disegno d’Architettura è, di contro, scientifico per definizione e linguaggio della perfezione, commensurabile per rendere l’idea tangibile materia.

Qui Servino si muove, liberamente, tra questa tecnica restrittiva e quella libertà innocente dell’anima.

Dei due stadi, opposti e contrari, ne fa sposalizio anticipando quello che verrà. È Profetico ben prima del fare e non rende più necessario il Costruire per la determinazione al mondo dell’Architettura rigeneratrice.

Ho cercato di individuare, leggendo e guardando, l’origine di tale capacità dell’Immaginare catartico. E l’ho ritrovata nascosta nel saggio ricorso al Gioco, e al suo controllo, al suo dominare. Al riscatto nei confronti dell’inutile seriosità dilagante.

Servino misuratore, come Piero

La Flagellazione di Piero della Francesca è la summa della Pittura, lì dove il flagello misura lo Spazio della città.

Così Servino, con il suo San Sebastiano centrale all'incompiuto costruttivo, nella reinterpretazione di uno scatto di Mario Ferrara al quale sottrae l’angoscia del vuoto, umanizzandone l’inquietudine.

È detta, appunto, Nuovo Umanesimo, sintesi dell’attenzione teorica e progettuale all'Abbandono  all'indifferenza materica dell’Approssimazione, madre delle nostre terre di margine.

Matematicamente aureo, proprio come Piero, va al di là e ne fa linea, prospettiva, strumenti generatori della Composizione. Di pittorico resta solo il primo guardare. Subito dopo l’incanto, è il tracciato regolatore, in apparenza accennato, a dominare prepotentemente la scena rivelandone l’essenza attraverso la Geometria.

E ora, finalmente, anche di quel margine si può dire. Anche su quell'indifferenza può innestarsi la speranza.

Ambedue, lui e Piero, ci dicono però che è essa raggiungibile solo attraverso il dolore, denunciato dal Martirio e corrispondente alla dura fatica del pensiero disegnato.

Quelle case che lasciano trasudare trascuratezza, crudezza della terracotta, nudità della struttura, possono conquistare nuova e inaspettata bellezza, dopo il Sacrificio.

È un generoso guizzo ispiratore per chi può e sa donare dignità a ciò che sta per implodere.

Riscatto della Miseria attraverso l’Architettura. E ritorna il De Divina Proportione.

Il culto sapiente dello Strato

È sacerdotale lo stratificare di Servino. Ogni disegno e ogni parola si sovrappongono ad altro segno di_segnato ed altra parola ri_scritta.

Anche nell’assolutezza della forma primaria, come per un cilindro o un parallelepipedo, esalta e ricompone le infinite parti volumetriche in essa contenute o affiancate, in una ricerca senza fine. È archeologo della Forma che lentamente scava, strato su strato, nel sublime affanno dell’Origine. È pianista instancabile che suona per ore alla disperata conquista della nota primaria, introvabile. E geme come Glenn Gould nelle affannose Variazioni di Bach, rilascia grida soffocate come Keith Jarrett nel Köln Concert.

È il tormento dell’Arte, luogo senza limiti.

Ancora più esasperata è questa Esperienza applicata alla Superficie, da lui stesso definita Sirena del pensiero architettonico. Irretito dal Piano.

Qui si fa evidente la saggia scelleratezza dell’infilare, aggiustare, montare, sottrarre, implementare, scarnificare, bucare, o riempire attraverso i mille parametri materici e compositivi dell’Architettura. Sempre sostenuto dal Rigore.

È l’analoga disinvoltura dei frati muratori delle cattedrali medioevali: prendere una colonna greca o romana, sottrarla al suo luogo e farne nuova e necessaria centralità strutturale. Il Dio sommo "abbisuogna" dell’Ecclesia per l’Orazione e l’Adorazione necessaria all'espiazione del Peccato. E tutto si fa ammissibile per la Lode al divino.

È la stessa spudoratezza degli uomini del Rinascimento: sommare a un bruno muro medioevale il biancore lapideo di una scena urbana e miscelare agli occhi una bellezza inaspettata. La città_teatro come palcoscenico di una vita avvertita, finalmente, in continua evoluzione.

La Storia ha reso sempre giustizia a questa dolce follia dello Strato così come, di contro, ha raramente lodato il gesto del volgare rimuovere.

In questi anni che perseguono il riqualificare chirurgicamente spazi e paesaggio o la reinterpretazione di quanto è, Servino si mostra uomo rispettoso a piene mani del nostro Tempo.


La necessaria Coscienza sociale del fare Architettura

Altro è, ancora, la Coscienza, pur se dirompente, del fare Architettura.

In alcune immagini di spiazzante potenza si provoca la certezza e l’ipocrisia.

Esplodono dogmi consolidati e l’immaginario collettivo giunge alla deflagrazione.

Tra le tante, è la composizione dell’Occupazione Proletaria dei Monumenti il vero manifesto di tale etica tensione.

Le finestre della Reggia vanvitelliana vengono serrate nell'abecedario della Materia ritrovata, riciclata, povera e provvisoria, mentre un fumo denso sale lungo la facciata. Una riscossa proletaria che rifugge dall'ideologia per rivendicare, invece, una giustizia sociale assoluta.

Una durezza immane, quella stessa che merita questo tempo di palpabile superficialità. Servino lo fa alla sua maniera e con lo strumento di sempre, la mano armata di china e colore.


Disvelamento

La Rete è un bombardamento d’immagini. Ad un occhio languido e ingenuo tutto sembra uguale, forme e colori si appiattiscono in una disarmante omogeneità.

Servino costruisce proprio su questa apparenza.

Lascia disvelare nuova occasione di progetto dai segni della Terra e del Cielo, delle città sconfinate e del pullulare angosciante e ripetitivo di case tutte uguali del deserto arabo o del paesaggio nordamericano.

Spezza quell'assenza di ritmo e sovrappone o affianca parti di nuova vita urbana. È un esercizio utile dove il distacco della distanza gli permette la disinvoltura della Visione. Le forme dei campi o il reticolo delle strade diventano suggestione urbana che supera lo svirgolante Piano Obus di Algeri o la perfetta ortogonalità di Ippodamo da Mileto. Con uno scarto in più, uno slittamento, un innalzamento o una depressione, per addivenire, testardamente, a una città “differente”.


Del dolce antidoto

Come nella migliore letteratura questo libro è un viaggio senza mèta e non pretende risoluzione. Il ritmo incessante che ha sostenuto la quotidiana iniezione di disegni nella Rete (saggiando umori e impressioni con la stessa gioiosa bizzarria delle Foto da un finestrino di Ettore Sottsass) si manifesta nobile atto di generosità. E Monumental Need è la loro sistematica raccolta, racchiusa in un pensiero teorico complesso.

È dei veri uomini di cultura il donare la propria fatica al mondo, senza timore di sottrazione. Di contro il suo costante lancio di guizzi creativi ha generato una diffusa e sana emulazione verso la necessità del disegno, da anni abbandonato al solo istinto. Magistrale educazione.

Dolce antidoto alla Bruttezza.


Finale

Monumental Need è fatto di Anticipazione, Superamento, Profezia e Visione.

All'interno, caro lettore, trovi "Disegni per l'Eternità"

Ma noi, fiduciosi, restiamo in attesa del loro compimento terreno.



Post Scriptum
Ringrazio pubblicamente l’autore.

Mi ha dato l’occasione di ripensare all’/l’Architettura e scriverne pur se con poche e sparse parole che rendono minima giustizia alla complessità e ai rimandi molteplici del volume.

Ma questo stesso verbo conserva in nuce la ferma volontà del continuare a descrivere. Questo libro e quelli che verranno.


18 febbraio 2013

Intersezioni ---> SPECULAZIONE
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Note:
* Friedrich Wilhelm Nietzsche, in “Umano, troppo umano” (paragrafo 149, “Il lento dardo della bellezza”)

Tutti i disegni sono di Beniamino Servino, ad esclusione di: Flagellazione di Cristo_Piero della Francesca (tempera su tavola cm 58,4 x 81,5 - data incerta: forse tra il 1444 e il 1470) Galleria Nazionale delle Marche, Urbino.


0016 [POINTS DE VUE] Jon Rafman | I nove occhi di Google Street View

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di Christian Caujolle

Le immagini a cui abbiamo accesso grazie alla rete sono miliardi. Non è strano che ci si chieda se sia ancora il caso di produrne di nuove. Ci sono talmente tante immagini che il mondo può essere sostituito dalla sua rappresentazione. In ogni caso siamo obbligati a classificarle e organizzarle per capirci qualcosa. Siamo entrati in un’epoca, l’era delle immagini, in cui chi le sceglie è altrettanto importante, se non più, di chi le produce. L’era del re photo editor.

Joan Fontcuberta aveva inaugurato quest’epoca selezionando, con il senso dell’umorismo che tutti gli riconosciamo, gli autoritratti postati su Facebook e quindi accessibili a tutti. Oggi rendiamo omaggio al canadese Jon Rafman che deve avere male agli occhi a forza di cercare scene sconvolgenti su Google Street View.

Scene che pongono più di un problema. Si rimane allibiti di fronte alle scene assurde raccolte nel libro che ha appena pubblicato per le edizioni Jean Boîte. Arresti, fughe, prostitute, bambini che scalano improbabili ostacoli, scene di  strada di ogni genere. All'inizio si ride, ma poi con il tempo si diventa sempre più inquieti. È evidente che all'occhio multiplo di Google Street View non sfugge nulla. Nessuna intimità è davvero protetta. Il mondo diventa trasparente.

Può sembrare una nuova forma di reportage, ma è anche voyeurismo e possibilità di controllo, su ogni cosa.






1 marzo 2013
Intersezioni ---> POINTS DE VUE
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Note: 
L'articolo è stato pubblicato su Internazionale, n° 989, 1/7 marzo 2013, p. 90: L'epoca della selezione. Le foto sono tratte dal sito di Jon Rafman.

Calendario

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di Salvatore D'Agostino

«Ma perché, insisto, - scrive Gillo Dorfles nel trascrivere una faticosa intervista fatta a Andy Warhol qualche anno prima della sua morte - questa sua maschera di impermeabilità?
“Preferisco restare un mistero. Non mi piace mai parlare del mio retroscena (background) e comunque lo cambio ogni volta che mi viene chiesto. Non è che faccia parte della mia immagine di non raccontare tutto. Soltanto dimentico quello che ho detto il giorno prima e mi tocca ricostruire ogni volta tutto da capo”.»1

Andy Warhol forse era affetto di un disturbo della memoria a breve termine, come Leonard Shelby il personaggio del film ’Memento’ di Christopher Nolan che è costretto a fidarsi dei suoi appunti scritti su post-it, ai bordi delle foto polaroid o sul proprio corpo per vendicarsi di John G., presunto stupratore della moglie e artefice dell’incidente che ha provocato il suo disturbo. Una disperata folle ricostruzione quotidiana della propria vita che lo porterà ad essere manipolato da chi pensa lo stia aiutando e ad uccidere le persone sbagliate e che, in un attimo di lucida disperazione, pensa: «Come posso guarire se non riesco a sentire il tempo?»

Perdere la memoria significa perdere il senso del tempo. Geoff Manaugh definisce la mancanza di nozione storica ‘ciclo di amnesia’: «Inoltre, se diamo uno sguardo rapido a qualche blog di architettura, un elemento tipico che troviamo dappertutto è rappresentato da quei gruppi di lettori ingenui che non hanno alcun senso della storia e continuano a riscoprire l’acqua calda, promuovendo con entusiasmo concetti o idee che sono state pensate, discusse e rigettate per buone ragioni decenni e decenni fa. La cosa peggiore in questi cicli di amnesia è che si ha la sensazione che il pensiero architettonico non possa mai progredire, ma che sia condannato a ripetere se stesso perpetuamente.»

I cicli di amnesia, nelle vicende del pensiero dell’architettura, hanno un duplice aspetto: il primo è l’ingenuità, di cui parla Manaugh; il secondo comprende scritti, architetture, disegni trascurati dalla cultura generalista sia accademica che di settore.
Per recuperare qualche smemoratezza, ho deciso di aprire una nuova intersezione che si chiamerà ‘Calendario’ dove rieditare in digitale alcuni pensieri che, o per amnesia ingenua o culturale, abbiamo trascurato.

Calendario ospiterà citazioni di pensieri, disegni o architetture trascurate, dimenticate, difficili da reperire o per indole naturale di questo blog idee e utopie distanti dal mio o nostro punto di vista. Le intersezioni non avranno titolo ma di volta riporteranno la data dello scritto. Rileggere i pensieri, soprattutto quelli dimenticati, ci aiuta ad osservare meglio la realtà evitando di parlare a vuoto di intuizioni già analizzate da altri; ci fa riconoscere la paternità d’idee che utilizziamo spesso inconsapevolmente; ci permette di elaborare connessioni; ci evita di non creare confusioni e soprattutto di non idealizzare un passato mai vissuto o mitizzare architetture mai abitate.

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1 Gillo Dorfles, La moda della moda, costa&nolan, Ancona-Milano, 1984, p. 90

Overspeed di Salvatore Gozzo | Un involontario monumento del nostro tempo

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di Salvatore D’Agostino

Dopo un anno dall’overspeed - fuori giri - della petroliera Gelso M, la nave resta a Siracusa, incagliata sugli scogli di Capo Santa Panagia.

In occasione dellʼinaugurazione del nuovo Pekstudio, l’associazione culturale Pekstudio Foundation presenta il progetto fotografico Overspeed di Salvatore Gozzo, curato da Salvatore D’Agostino e pubblicato in anteprima nella rubrica points de vue di Wilfing Architettura.








Visto dall’alto, il Capo Santa Panagia appare come un grosso sasso che separa la città degli uomini, posta a sud, dalla città dei fumi del petrolchimico, posta a nord. Un promontorio di pietra bianca che è stato spettatore in questi anni della veloce trasformazione di una città semplice in città industriale. Grazie ad un overspeed economico, guidato da abili industriali e contingenze politiche, Siracusa è riuscita ad attrarre, dagli anni ’60 ai ’70, ingenti capitali favorendo un notevole sviluppo economico. Un incremento che successivamente ha seguito le leggi del ciclo economico: crescita, stagnazione negli anni ‘70-’90 e recessione dalla fine dei ‘90 ad oggi, passando dalla frenetica prosperità, che ha sfruttato i guadagni a breve tempo, al lento e continuo decadimento sempre più in balia di provvedimenti emergenziali messi in atto dai politici e dalle politiche nazionali e locali.

Salvatore Gozzo ha ritratto la Gelso M intorno a Capo Santa Panagia, lì dove l’arenarsi della nave e la causa dell’incidente sembrano condensare la storia di un territorio e della sua gente. Lì dove, dopo un anno, la petroliera sembra assumere le forme di un involontario monumento del nostro tempo. 

19 marzo 2013

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In mostra dal 25 marzo al 26 aprile 2013 
Inaugurazione sabato 23 marzo, ore 19.00 
Visite su appuntamento +39 0931 948972 
Pekstudio, Via Floridiani di Hartford, 31/33 – Floridia, Siracusa
mail@pekstudio.it

Non-Skools Whoami and Tam Tam

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According to The New York Times, 2012 was the year of the MOOC (massive open online course), the free and open online university. Compared to earlier incarnations of e-learning, MOOCs have elevated their range of educational offerings by recruiting some of best professors at traditional universities and improving the online format by incorporating applications similar to social media that allow direct contact between teachers and students.


The history of distance learning, as The Technology Reviews's Nicholas Carr observes, goes back nearly a hundred years. It began in 1920, made possible by the efficiency of the new postal system. Today, Carr notes, major promotional efforts and significant investments in MOOCs such as Udacity, Cousera, and edX are forcing university administrators to rethink the form and meaning of teaching itself. “For better or worse, the Net’s disruptive forces have arrived at the gates of academia.”


Salvatore Gozzo | Overspeed

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Overspeed caused the grounding of the Italian oil tanker Gelso M. on March 10, 2012, when its captain, grappling with rough seas stirred by unusually high winds, over-throttled the propeller engine, forcing it to cut out. Without engine power, the storm carried the ship aground against the whitened rocks of Syracuse’s coastline, near Capo Santa Panagia. Overspeed means pushing too hard on the throttle, trying to push an engine beyond its maximum rated power.

Overspeed is the pace of today’s frenetically overheated global economy, straining to deliver the goods required by the unbounded demands of commerce. Every day, across all corners of the globe, we attend as captains of our economy take leave of the shore, preparing to brave the headwinds of an avoidable storm and run the chances of a shipwreck.

Troppo fragili

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di Salvatore D'Agostino

Il Giornale dell’architettura, che in questi giorni è in edicola con il suo ultimo numero, pubblica un’inchiesta sulla fragilità idrogeologica del nostro territorio curata da Cristiana Chiorino. Tra i vari contribuiti, c’è un mio articolo dove, in estrema sintesi, sostengo che non possiamo più descrivere il mondo come se fosse tutto uguale poiché San Sperato, Monticello Conte Otto, Caserta, la statale 18, l’agro Pontino, la Bovisa, l’Irpinia, Strongoli, Cassinetta di Lugagnano, C.E.P. village di Bari, a guardali bene, escono fuori dai luoghi comuni per rientrare nei luoghi intesi come ‘territorio’ e comuni come ‘città’ perché non esistono ‘luoghi comuni’ identici. E, nel caso dei possibili interventi a scala territoriale, ogni luogo, esige un progetto specifico con un auspicabile interesse verso la prevenzione che non si fermi all'emergenza.

Tra le righe, vi è una sintesi del convegno tenutosi lo scorso novembre alla biennale di Venezia sul tema ‘Territori fragili: Architettura, emergenza e ricostruzioni’.

Il torrente Longano esondato tra Barcellona Pozzo di Gotto e Saponara, novembre 2012,
foto Salvatore Gozzo

L’inchiesta offre approfondimenti su alcuni progetti internazionali, rileva le opportunità e le controversie della nuova legge Clini e si completa con una panoramica su alcuni progetti e leggi regionali, integrata da un corollario legislativo regione per regione.

Nella prefazione, il direttore Carlo Olmo invita allo sviluppo di una cultura della prevenzione rispetto ad un’agire emergenziale mirato alla soluzione di un momentaneo problema.

Manuela Martorelli ricorda le sfide progettuali legate all'acqua da parte dell’Olanda e la costante revisione delle misure di sicurezza in materia d’inondazione sollecitate da ingenti investimenti economici.

Julie Iovine parla dell’esperienza della città newyorchese costretta a dover trovare, nei prossimi anni, delle soluzioni a causa del costante aumento delle acque costiere. Si sta pensando a dei progetti in sinergia con la natura, anche se gli imprenditori e la politica newyorchese auspicano la costruzione di megastrutture.

Francesca De Filippi rilancia l’idea di architecture for Humanity che, dopo il funesto passaggio dell’uragano Sandy del 2012, contando su un contributo di oltre centomila dollari, sta formando architetti, ingegneri e urbanisti locali per sviluppare soluzioni a lungo tempo attraverso costruzioni ‘resilienti’ attente agli effetti dei cambiamenti climatici. Un’educazione locale, per non vedersi imporre i classici modelli post eventi catastrofici di carattere globale.

Paolo Panetto scrive del progetto Veneto 2100, redatto da Latitude ‘Platform for Urban Research and Design’, che prevede di ampliare, dove è possibile, l’alveo del fiume in modo che l’acqua possa trovare spazio in caso di ondate eccezionali. Una semplice soluzione che non collima con la miriade di attività antropiche che, in questi anni, hanno sempre più sfruttato e ritratto gli alvei dei fiumi.

L’articolo di Irene Cremonini va letto poiché traccia i nodi problematici del Piano Clini in relazione con le considerazioni di Pierluigi Claps - Presidente del GII (Gruppo Italiano di Idraulica) – che evidenzia come in Italia ci sia da affrontare una doppia sfida tra la prevenzione dei disastri ambientali, i disastri causati dai tecnici ignoranti e la burocrazia. Auspica una commissione con ampia rappresentanza di competenze.

L’inchiesta si completa con una rassegna regionale:

SICILIA
Silvia Mazza inizia con un monito: «I terremoti non si possono prevedere, il dissesto idrogeologico sì» e finisce con una proposta di legge del neo governatore della Sicilia Rosario Crocetta che presenterà al Parlamento, dove equipara le vittime dell’alluvione a quelle di mafia: «Perché non c’è forse la mano della mafia nello scempio del territorio e nel dissesto idrogeologico?».

VENETO
Julian W. Adda denota l’incoerenza sociale che, di fronte ad un territorio fragilissimo, non smette di pensare in termini di cemento. Con il paradosso che, i proprietari di uno dei pochi lembi di territorio rimasto libero dalla cementificazione, rifiutano la servitù di allagamento perché, sostengono, è meglio essere espropriati.

LIGURIA
Emanuele Piccardo evidenzia la forte contraddizione dei politici delle cinque terre che, prima delle alluvioni del 2011, promuovevano la costruzione di porticcioli turistici che avrebbero cementificato le coste e che adesso si trovano a tutelare, o meglio ripristinare, le stesse dai danni causati dalla cementificazione del passato.

CAMPANIA
Diego Lama ricorda che, tra i tanti progetti avviati dopo l’alluvione di Sarno e Quindici del maggio 1998, merita attenzione l’intervento dell’ingegnere Fulvio Campagnuolo: un’opera d’ingegneria naturale che utilizza paletti di castagno infissi a 1,5 metri di distanza tra di loro, trasportati a dorso di mulo, con la successiva piantumazione di piante autoctone seminate a spaglio per costruire argini naturali.

TOSCANA
Cristina Donati fa un dettagliato elenco provincia per provincia degli interventi della regione.

Buona lettura.


Calendar - Preventing architectural amnesia

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“But why, indeed,” writes Gillo Dorfles, transcribing a grueling interview with Andy Warhol given a few years before his death, “did he wear this mask of impermeability?”

“I'd prefer to remain a mystery. I never give my background, and, anyway, I make it all up different every time I'm asked. It's not just that it's part of my image not to tell everything, it's just that I forget what I said the day before, and I have to make it all up over again.” **
Warhol, perhaps, suffered from a short-term memory disorder like that of Leonard Shelby, the character in the film Memento by Christopher Nolan, who must rely on messages scribbled on Post-It notes, at the margins of Polaroid photos, or even tattooed on his own body in order to exact revenge on John G., the man who supposedly raped and murdered his wife and engineered the incident that left him with his condition. His desperate efforts to piece together his life anew each day only cause him to be manipulated by someone he believes is helping him, ultimately leading him to kill the wrong people. In a moment of lucid despair, he wonders, “How can I heal if I can’t feel time?”
** Gillo Dorfles, La moda della moda, costa&nolan, Ancona-Milano, 1984, p. 90

overspeed by Salvatore Gozzo: an involuntary monument to our times

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One year since the overspeed accident that caused the grounding of the oil tanker Gelso M, the ship remains stranded on the rocks of Capo Santa Panagia.
To celebrate the opening of the new Pekstudio, the cultural association Pekstudio Foundation will host an exhibition of Salvatore Gozzo’s photography project Overspeed, curated by Salvatore D’Agostino and originally published here in the “points of view” section of Wilfing Architettura.
Seen from above, Capo Santa Panagia resembles a large crag separating the city of men, to the south, from the city of petrochemical fumes, to the north. This promontory of whitened rock has been witness in recent decades to the rapid transformation of a simple town into an industrial center. Thanks to economic “overspeed” directed by astute industrialists and favored by political circumstances, Syracuse managed to attract large amounts of capital in the ‘60s and ‘70s, decades of significant economic development.

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Far too fragile: architecture and the environment

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traduzione di: Troppo fragili

The most recent quarterly issue of Il Giornale dell’Architettura includes a collection of reports edited by Cristiana Chiorino and organized around the theme of hydrogeological fragility in Italy. Among the various pieces is one I contributed, in which, basically, I argue for the need to move beyond over-reliance on generic terms to describe the world.

San Sperato, Monticello Conte Otto, Caserta, Southern Italy’s Highway 18, the Pontine Marshes, the Bovisa district of Milan, Irpinia, Strongoli, Cassinetta di Lugagnano and C.E.P. Village in Bari are examples that, understood correctly, should challenge the “commonplace” assumptions inherent in describing places generically as a “region” or lumping numerous communities together as a “city.” “Common places” do not exist. With respect to environmental restoration projects on a regional scale, each place requires a specific project with (hopefully) an interest in preventing, if not turning back the progress of disaster.

In the vein of these observations, the article includes a summary of the conference held last November at the Venice Biennale, entitled “Fragile Territories: Architecture, Disaster and Reconstruction.”



0060 [MONDOBLOG] Parole di bit

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di Salvatore D’Agostino

Riprendendo gli appunti mondoblog, sul rapporto tra scrittura web e architettura, non è stato difficile constatare come in questi anni in Italia non si è compreso il cambiamento della scrittura che offre la pagina digitale. Scrivere per una pagina web significa avere la consapevolezza di trovare sul nostro tavolo di lavoro digitale una nuova gamma di strumenti comunicativi: link, immagini, audio, video, mappe. I link permettono che le citazioni si trasformino in un dito che invita subito ad approfondire, mentre l’utilizzo d’immagini, audio, video e mappe mutano le parole in osservazione, ascolto e percorsi geografici sempre più dettagliati. In pratica, un foglio web non si nutre di sole parole.

Un esempio interessante di narrazione digitale è il lavoro di Orsola Puecher che, su Nazione Indiana, sperimenta l’ampia tavolozza espressiva della grammatica digitale, «mentre gli altri scrivono, Orsola crea», osserva il commentatore NC riprendendo un commento di Sparzani o Biondillo.




La pagina web - constata Puecher - ci spinge verso un salto creativo della scrittura che si fa blob di parole, immagini, video, suoni, mappe-territorio.


I blogger di architettura ad attuare questo salto creativo sono: Lebbeus Woods, Ai Weiwei e Léopold Lambert.

Lebbeus Woods, durante il suo breve blogging tra il settembre del 2011 e l’agosto del 2012,1 attraverso l’uso di immagini, disegni, sbobinature d’interviste, report di viaggi, screenshot di mappe e il continuo dialogo con «lettori brillanti ed energici» - così definiti nel suo ultimo preveggente post GOODBYE [sort of]– scopre, facendolo, di non dover più dipendere dal sistema dei media per comunicare.
Altro esempio è il disordinato e civico blogging di Ai Weiwei,2 in cui le parole, le immagini, i video diventano quotidiano esercizio di disegno creativo: «No, faccio il blog. – come afferma ad Hans Ulrich Obrist - Il blog per me è come il disegno».
Infine, il blogger francese Léopold Lambert, autore di The funambulist, trasforma l’idea stessa di libro, come fa nel suo libro Weaponized Architecture, ideato in collaborazione con Ethel Baraona Pohl e César Reyes Nájera,3 dove traspone la scrittura digitale. Il libro, infatti, non è pensato solo per la classica lettura statica cartacea, ma, grazie alla tecnologia Aurasma che permette la visione delle immagini o dei link attraverso l’uso di smartphone (realtà aumentata/ augmented reality), si apre ad una lettura ibrida.


Il libro diventa digitale, ideato da autori digitali, per lettori digitali abituati a leggere seguendo link, vedere video e ascoltare audio.

Se ritorniamo alle vicende italiane delle scritture web di architettura non è difficile affermare che fino ad oggi abbiamo sempre scritto e pensato come se la pagina web fosse un foglio di carta. Fa eccezione Parole ideato dal gruppo A12, Udo Noll e Peter Scupelli, un’esperienza iniziata sui banchi universitari da alcuni membri del gruppo A12 nel 1995 e maturata all'interno della Biennale di architettura curata da Massimiliano Fuksas nel 2000. L’ideazione grafica pensata per il web curata da Udo Noll e l’aggiornamento continuo delle pagine scritte fa di Parole il primo, e forse l’unico, in Italia spazio digitale ideato e pensato per il web. Non solo, ma attraverso le mostre di Venezia, Stuttgart, Saint Etienne e New York (MOMA PS1) si è tentato un dialogo ibrido tra spazi digitali e reali.

Questa nota, come di consueto, premette il prossimo dialogo, in questo caso doppio, con Andrea Balestrero e Fabrizio Gallanti, tra gli ideatori di Parole.

Di seguito, un’anticipazione di Andrea Balestrero su com'è nata Parole.

di Andrea Balestrero


Il nucleo iniziale di Parole è nato come un glossario, faceva parte della nostra tesi di laurea incentrata sugli strumenti di descrizione della città contemporanea, che risaliva al 1995. Non partiva con un intento teorico di organizzazione del sapere,4 ma di ogni parola erano comunque presenti almeno una definizione ed i riferimenti bibliografici. Quando abbiamo deciso di trasferire il progetto online abbiamo mantenuto una struttura che permettesse di organizzare informazioni di quel tipo, ma senza vincolare la presenza del termine nell'archivio alla completezza dei dati, che potevano essere integrati e modificati successivamente, anche grazie a contributi esterni. Insistevamo molto sul fatto che l'archivio fosse "dinamico".






In realtà, il sito non è mai stato veramente "aperto" ai contributi diretti di chi non faceva parte del gruppo di autori (non era cioè possibile a chiunque accedere all'archivio come autore iscrivendosi ed effettuando un log-in, a meno di non essere invitato), ma i contributi potevano solo essere suggeriti per essere poi inseriti da noi. Udo Noll, che ha ideato il sito dal punto di vista della programmazione e della grafica, aveva insistito particolarmente sulla necessità di interporre un "filtro" per poter tenere i contenuti sotto controllo, evitando lo spam. Ma questa era una limitazione solo nella prassi, dettata dalla volontà di mantenere l'accuratezza dei contenuti senza dover investire risorse eccessive in un'attività di controllo su quanto pubblicato da sconosciuti, non tecnica né concettuale. Anche l'interfaccia creata da Udo per caricare i contenuti era molto simile a quella a cui oggi chiunque abbia un blog è abituato. Vi era poi un altro aspetto che allora per noi era importante: come progetto artistico Parole viveva non solo della sua presenza on line, ma anche delle varie installazioni realizzate negli spazi espositivi che lo hanno ospitato e che erano concepite come occasioni ambivalenti per l'esposizione e la raccolta dei contenuti. Avevamo già sperimentato in altre occasioni questa modalità di creare un ponte tra il mondo virtuale della rete e la realtà fisica e da architetti ci era sembrato un campo di sperimentazione interessante.










Vale la pena di ricordare che l'uscita pubblica ufficiale di Parole risale al 2000 (in occasione della biennale di Architettura), un anno prima che nascesse Wikipedia e qualche anno prima che si iniziasse a parlare di web 2.0. Oggi siamo molto più abituati all'idea di un sito internet come qualcosa in grado di raccogliere informazioni e non solo fornirle, ma allora non era poi così scontato e per noi era l'aspetto più interessante. Molto più che la completezza delle informazioni o una qualunque forma di ordine teorico. Anche dal punto di vista visivo l'assenza quasi totale di gerarchia è un aspetto che rende il sito vitale a dispetto della sua semplicità.

23 aprile 2013
Intersezioni ---> MONDOBLOG
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Note:
1 Qualche mese prima di morire il 30 ottobre 2012.
2 Tra il gennaio del 2006 e il maggio 2009 data della chiusura coatta operata dai censori cinesi.
3 Coautori del blog DPR-Barcelona.
4 Un vocabolario in effetti non è molto di più di uno specchio della lingua, nel nostro caso dei termini incontrati nel corso della ricerca.

Words and bytes

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I’ve been going back over some of my observations about the relationship between writing about architecture and writing online. Here in Italy, it’s evident that we’ve failed to appreciate the changes that the digital format entails for the act of writing. Writing online, in fact, implies a new range of communicative tools: links, images, audio, video, maps. Links immediately enlarge the field of discourse by means of images, audio, video and maps can supplement the experience of reading with that of seeing and hearing and tracing ever more detailed geographic perambulations. In a practical sense, then, websites do not consist of words alone.

One interesting example of digital storytelling is the work of Orsola Puecher (in Italian), whose posts for the website Nazione Indiana make use of digital grammar’s extensive palette of expressive forms. “Others write; Orsola creates,” posted a commentator named NC, echoing a comment by either Sparzani or Biondillo.

The webpage, as Puecher has it, pushes writing towards a creative leap in which it becomes a ‘blob’ of words, images, video, sounds, map and territory.

Three architecture bloggers who have taken this creative leap are Lebbeus Woods, Ai Weiwei and Léopold Lambert.


0061 [MONDOBLOG] Parole

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di Salvatore D'Agostino


«Parole - scriveva Gabriele Mastrigli - può soltanto essere un immenso testo/territorio che rinuncia a “mettere le cose al loro posto”.»1 
Parole resta ancora un’eccezione nel panorama del web di architettura che insiste a scrivere sulla pagina digitale come se fosse un foglio di carta. Ne ho parlato con Andrea Balestrero e Fabrizio Gallanti tra gli autori di Parole.




Salvatore D’Agostino «Gli uomini non hanno mai abitato il mondo, - osservava nel 1991 Umberto Galimberti2– ma sempre e solo la descrizione che di volta in volta la religione, la filosofia, la scienza hanno dato del mondo» prospettando nel suo libro ‘Parole nomadi’ un cambiamento dell’etica delle parole, non più specchio di un io legato al territorio o alla proprietà, ma di un io costretto a confrontarsi con la differenza e la diversità di un nuovo paesaggio etico senza più confini.
«Anche queste parole si sono fatte nomadi, non più mete dell’intenzione dell’azione umana, ma doni del paesaggio che ha reso l’uomo viandante senza meta, perché è il paesaggio stesso la meta, basta percepirlo, sentirlo, accoglierlo nell'assenza spaesante del suo senza-confine.»3

Parole inizia da questa premessa?

Andrea Balestrero Non ne conosco il contesto, ma mi sembra che in questo pensiero di Galimberti così estrapolato ci sia qualche contraddizione. Francamente lo trovo un po' confuso.

Personalmente tendo a pensare religione, filosofia e scienza come invenzioni, fatte di parole, che gli uomini associano ad una realtà che comunque in qualche modo esiste, anche se certamente non è concepibile e men che meno comunicabile se non attraverso il filtro del linguaggio. Le parole sono uno strumento per il dominio del mondo e degli altri uomini, non una necessità vitale. Già il fatto stesso di parlare della realtà fisica in termini di "paesaggio" mi sembra un atteggiamento foriero di disastri.
In ogni caso la costruzione di Parole nasceva come parte di una ricerca sugli strumenti di descrizione della città in ambito architettonico/urbanistico, molto poco filosofica. Eravamo interessati a mettere in discussione il repertorio piuttosto ristretto di strumenti disciplinari che ci era stato insegnato all'università.4 A quei tempi nell'insegnamento la tradizione italiana dell'analisi urbana era ancora piuttosto presente. Tra i corridoi della facoltà di Genova addirittura la faceva da padrone il pensiero di Saverio Muratori… sembra passato un secolo!

Quindi se le frasi che citi vogliono intendere che rispetto ad uno schema fatto di pochi concetti e dogmi, oggi l'interpretazione del mondo è un sistema più complesso e sfaccettato, beh sì! Parole parte da questa premessa.

Fabrizio Gallanti Come scrive Andrea l'origine del progetto era in qualche modo di tipo linguistico. La sensazione allora (parliamo di un periodo tra 1995 e 2000) era che le trasformazioni accelerate della città fossero tali da determinare una rincorsa da parte di varie discipline che si lanciavano a coniare neologismi per tentare di descrivere il cambiamento. Vecchie categorie e termini erano obsoleti in poco tempo, per cui lo slang, i linguaggi tecnici, le terminologie professionali ci sembravano un campo di analisi interessante. Piuttosto che descrivere la città, volevamo descrivere le descrizioni della città. L'idea del dizionario derivava dalla sensazione, inoltre, che architettura e urbanistica fossero più lente di fotografia, geografia, antropologia e sociologia a guardare i nuovi territori delle metropoli mondiali. Soprattutto in Italia si parlava, sull'onda delle letture rossiane e grassiane (quando di qualità, perlomeno) o seguendo stanchi emuli di quelle teorie, ancora di tipologie, città storiche, contesto, piazze, mentre tutto ciò che si trovava al di là di un tessuto ottocentesco era invisibile agli occhi degli architetti e dei teorici. A rileggerle adesso, ipotesi come quelle di Marco Romano fanno quasi tenerezza nel loro tentativo donchisciottesco di pensare che un ritorno alla storia possa essere un futuro percorribile.

In questo senso l'obiettivo era di moltiplicare gli approcci alla città, attraverso uno strumento per sua natura in espansione come un dizionario aperto. Vale la pena sottolineare che parole arrivava prima di wikipedia, nel 2000, come versione digitale di una collezione di termini già iniziata nel 1995. Il progetto potrebbe sussistere e continuare a crescere, se ci fossero state le risorse per farlo, e in ogni caso negli ultimi anni sono stati pubblicati diversi dizionari analoghi al nostro, in Francia soprattutto,5 forse più robusti dal punto accademico ma talvolta meno inclusivi.

La frase di Galimberti, in qualche modo riflette la nostra attitudine, anche se questa si voleva più materialista e concreta e meno esoterica.

Nel suo ultimo saggio ‘Senza Architettura’, Pippo Ciorra, in un capitolo dedicato allo ‘spazio pubblico’, si auspica una maturazione di alcune esperienze italiane di confine tra arte relazionale e spazio urbano - citando voi come A12, Stalker, Studio azzurro e i recenti lavori di Alterazione video - per non rimanere esclusi dal dibattito internazionale e rispondere alla recente critica di ‘Gregotti & Co.’ di un impoverimento del linguaggio dell’architettura dovuto all'approccio interdisciplinare che spesso sconfina con l’arte.
«Installazione, partecipazione, evento, interazione, scambio, azione, programma, dialogo – sostiene Pippo Ciorra - sono quindi i nuovi vocaboli di un linguaggio politico dello spazio pubblico dentro il quale i termini architettonici tradizionali – piazza, strada, monumento ecc. – sembrano occupare uno spazio operativo sempre minore.»6

AB Discorsi come questo, guarda caso portati avanti da autori e critici di area diciamo "progressista", a me preoccupano sempre un po'. A parte il fatto che si mescolano in un gran calderone approcci molto diversi nelle modalità espressive e negli obiettivi, c'è sempre il rischio che lo spostamento dell'attenzione ai margini della disciplina aiuti a legittimare progetti senza qualità (tanto quel che conta è la partecipazione, l'animazione, la temporaneità...) quando non la totale assenza di progetto, assecondando le logiche speculative più bieche. Non stiamo parlando di arte pubblica in contesti anglosassoni o nord europei e in Italia abbiamo parecchi esempi recenti al riguardo. Da questo punto di vista, per come sono andate le cose, non vorrei che alla fine (a parole) Gregotti un po' di ragione ce l'avesse.

Per parte sua A12 ha sempre perseguito, certo anche attraverso interventi che esulano dai canoni tradizionali della disciplina, la qualità dello spazio fisico. Abbiamo cercato di ampliare e arricchire il linguaggio dell'architettura, spesso ripartendo dai suoi archetipi, non di sostituirlo con qualcos'altro.
D'altra parte è abbastanza evidente che se in Italia il dibattito sull'architettura continua ruotare intorno a questioni come rispondere (ancora) ad una critica mossa da Gregotti l'esclusione dal dibattito internazionale è automatica. Le esperienze citate da Ciorra fanno riferimento soprattutto ad un periodo a cavallo del cambio di millennio in cui si affrontavano problemi che oggi, quanto ad urgenza, sono superati da altro. I soldi per allestimenti e installazioni sono sempre meno e molto presto è probabile che si tornerà a concentrarsi sui bisogni essenziali per la sopravvivenza e a dover lottare perché lo spazio pubblico resti tale.

FG  Il problema della lettura di Ciorra, che in realtà mi ha fatto molto piacere, perché inattesa, è che utilizza il presente invece che il passato. Se si osserva con attenzione al panorama italiano esiste una traiettoria che inizia alla fine degli anni '60 con gruppi come Superstudio, Archizoom, Ufo o individui come Ugo La Pietra o Gianni Pettena, solo per citare i più immediati, che si è in qualche modo riaccesa nei primi anni '90, quando si assisteva ancora agli ultimi singhiozzi dei movimenti studenteschi (la Pantera è del '92) e che forse oggi è alla base anche delle attività di raggruppamenti come Baukuh o Salottobuono, che non nascono come studi professionali. Gli approcci, i contenuti e i risultati sono estremamente differenti e come sostiene Andrea non possono essere liquidati in poche righe. I nuovi vocaboli ai quali si riferisce Ciorra sono stati messi in circolazione già quarant'anni anni fa, mentre il lavoro a cavallo del 2000 di gruppo A12, Stalker, Cliostraat andrebbe analizzato nella precisa situazione della loro emersione. Riferendomi a gruppo A12, che conosco meglio avendone fatto parte sino al 2004, la traiettoria del collettivo credo sia esemplare di almeno due particolarità: la prima quella di appartenere al contesto culturale italiano, la seconda quella di lavorare a cavallo tra le discipline. Ma prima di affrontare la questione due parole su Gregotti: le colpe sono collettive. Le sue analisi sono spesso molto stimolanti ma si sottraggono sempre alla identificazione delle responsabilità delle quali lui e la sua generazione sono stati protagonisti. Ogni suo articolo o intervento identifica sempre un nemico esterno, causa di tutti i mali, ma mi chiedo come sia possibile che chi abbia diretto uno studio professionale prestigioso, insegnato per decenni allo IUAV e diretto riviste come Casabella e Rassegna (non a caso una accumulazione di cariche unica al mondo) non sia capace di costruire una disamina critica che includa anche il proprio ruolo. Il tono delle sue invettive è poi lesivo della stessa intelligenza dei contenuti: non ricordo un articolo positivo da parte sua negli ultimi dieci anni. Mi chiedo se non esista un certo cinismo da parte dei giornali che lo pubblicano, alla caccia della polemica a effetto, e se Gregotti non meriterebbe di essere consigliato meglio da chi lo circonda.

Ritornando a come io vedo il caso esemplare di gruppo A12, si può considerare sempre una lettura duplice, fatta di vantaggi e svantaggi. Aver operato in Italia e dall'Italia ha comportato dei vantaggi: innanzitutto l'università di massa prima delle riforme aveva permesso la costruzione di strumenti propri di lettura del reale, se non di vera e propria sopravvivenza, dove si mescolavano appunto contributi disciplinari molto diversi. Questi strumenti erano spesso antagonisti a ciò che la docenza forniva. Si assisteva allora a veri e propri processi di auto-educazione. Il fatto che ci si potesse laureare senza un progetto di architettura, che per molti è considerato un difetto, rappresentava una ricchezza perché ha formato generazioni di intellettuali piuttosto flessibili, che hanno poi operato a diverse scale e in diversi contesti. Paola Antonelli, la curatrice del design al MoMA coincide con questa lettura. Gruppo A12 accoppiava agli interessi specifici dell'architettura alla scala del dettaglio costruttivo (alcuni di noi avevano fatto il loro Erasmus o a Porto o a Barcellona) quelli di un approccio urbano e territoriale. Non va poi sottovalutato che tra i docenti a Genova c'erano personalità del calibro di Giancarlo De Carlo, Francesco Venezia e Stefano Boeri, al suo primo incarico di docenza e che per molti membri del gruppo è stato una controparte fondamentale. E figure come quelle di Edoardo Benvenuto o Ennio Poleggi permettevano di cogliere la varietà di approcci alla disciplina, assai meno monolitica che in altre scuole.

Essere in Italia pero ha anche voluto dire mancare di un supporto e di una risposta. In tutti questi anni sono mancati critici e studiosi con i quali dialogare e immaginare una diffusione internazionale, come invece è avvenuto in Olanda con Hans Ibelings, Bart Lootsma, Ole Bouman o in Inghilterra grazie al ruolo attivo di un giornalismo intelligente sui quotidiani a larga diffusione. Soprattutto sono mancate istituzioni in grado di fornire un quadro di riferimento e di sostegno. L’università non ha mai neppure considerato l'ipotesi che la ricchezza di esperienze di questi gruppi potesse costituire materia di insegnamento e ricerca racchiusa com’è nel suo inesorabile declino che difende i membri di una casta. Non a caso A12 come gruppo ha insegnato a NABA, fuori dal circuito tradizionale, mentre i suoi membri o quelli di Stalker hanno ottenuto incarichi di docenza, ma a titolo personale. Musei, amministrazioni pubbliche, ministeri hanno offerto solamente occasioni sporadiche. Le riviste specializzate sarebbero pronte adesso a presentare il lavoro di quei gruppi (solo Abitare con Italo Lupi come direttore lo fece nel 2000, pubblicando un lungo dossier firmato da Boeri) ma allora vivevano delle code di un discorso già obsoleto. Oggi pubblicano Raumlabor, Exyzt, Ecosistema Urbano, Rotor, AAA che di quelle esperienze possiedono molti elementi comuni, ma che a causa di una storia che deve ancora essere scritta non possono essere letti all'interno di scenari più ampi.
Il vantaggio della condizione italiana si è tradotto in una pratica a cavallo tra discipline: l'attenzione alla condizione urbana e territoriale è stata alla base di numerose ricerche e progetti, che hanno destato l'interesse del mondo dell'arte. Questi non erano immaginati come opere d'arte in sé, ma come frammenti di un tentativo di descrizione e progetto della città contemporanea (parole è anche questo) ma le metodologie di studio e di espressione erano in sintonia con tendenze e traiettorie che in campo artistico erano in forte emersione nello stesso periodo. Intorno al 2000 gruppo A12 ha raggiunto una presenza ragguardevole, con mostre e realizzazioni un po' ovunque, Germania, Francia, Stati Uniti, Giappone, Cina, Olanda o Corea. È interessante come la partecipazione alla manifesta di Lubiana nel 2000 fosse dovuta a un curatore d'arte, Francesco Bonami e non a quello di architettura, Ole Bouman.

Questa oscillazione, un elemento ovviamente speciale ha contenuto anche i germi di una condizione paradossale: se gruppo A12 avesse deciso di migrare completamente nel campo dell'arte, avrebbe potuto installarsi altrove a Berlino o a New York, come hanno fatto, con successo molti artisti italiani.

 

Parole al PS1 di New York

Ma volendo operare a partire dall'architettura, questo poteva essere fatto solamente con un forte radicamento locale (Rem Koolhaas ha deciso di aprire OMA a Rotterdam ed Herzog & de Meuron non si sono mossi da Basilea, per fare due esempi che chiariscono questo punto).

Più che di maturazione, che era già raggiunta dieci anni fa e che non a caso destava e continua a generare interesse credo che ci sia bisogno di una fase di studio storico e di analisi precisa di quelle traiettorie, per verificare quali possano essere ulteriormente sviluppate e arricchite. E senz'altro esisteva un’attitudine politica che andrebbe riletta: si trattava di misurare come e quando agire attraverso l’architettura per evitare che questa venisse appropriata per interessi particolari. Agire in maniera effimera e temporanea pareva allora una soluzione. Ma il capitalismo è rapido e spietato, e quelle che allora sembravano pratiche di resistenza, marginali, oggi sono diventate talvolta operazioni commerciali.

Perché Parole non viene più aggiornato?


AB Parole era nato come un esperimento7, non con l'intento programmatico di creare uno strumento web sviluppabile per applicazioni concrete, cosa che avrebbe anche potuto essere. Forse non essere stati capaci di trasformare l'esperimento in qualcosa di più solido è stata un'occasione perduta. Sicuramente in un contesto come quello italiano creare le condizioni per farlo, ovvero riuscire a coinvolgere l'università o qualche altro istituto di ricerca, trovare finanziamenti ecc. non sarebbe stato facile. In ogni caso piano piano l'interesse per il progetto è stato soppiantato da altre cose.


FG Credo che semplicemente l’afflato volontaristico di riempire i campi del dizionario non potesse essere sostenibile su un periodo lungo. Sarebbe stato un ottimo progetto da mantenere attraverso qualche forma di ‘istituzionalizzazione’ con alcune risorse, umane ed economiche. Per molti aspetti è comunque rilevante, se qualcuno volesse riprenderlo, ne saremmo entusiasti.


8 maggio 2013


Intersezioni ---> MONDOBLOG


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Note:
1 Gabriele Mastrigli, Parole d'amore, arch’it, 18 maggio 2011. Link
2 Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 9
3 op. cit., Umberto Galimberti, p. 10
4 Parole è frutto di un lavoro di ricerca collettivo di 7 membri di A12, tutti in tesi, a Genova, con Stefano Boeri come relatore. Laurea nel 1995.
5 C. Topalov, L. Coudroy de Ville, J-C. Depaule, B. Marin, L'aventure des mots de la ville à travers le temps, les langues, les sociétés, Robert Laffont, 2010. Qui per approfondire. Thierry Paquot , Denise Pumain , Richard Kleinschmager, Dictionnaire. La ville et l'urbain, Anthropos-Economica, 2006. Qui per approfondire.
6 Pippo Ciorra, Senza architettura, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 1127 Il sito del 2000 era la nostra partecipazione alla biennale di architettura diretta da Massimiliano Fuksas, che aveva invitato Stalker e noi, senza neanche sapere bene cosa facessimo. Nasce nel web nel gennaio 2001.

Parole

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“Words,” wrote Gabriele Mastrigli, “can only be an immense text/territory… that refuses to ‘put things in their places.’”



Parole (“words”) remains an exception to the prevailing norm in web-based architecture writing that insists on writing for the digital page as if it were a sheet of paper. I recently had a discussion with two of the site’s creators, Andrea Balestrero and Fabrizio Gallanti.



30 settembre 1953 | Maurizio Sacripanti | Il disegno puro e il disegno dell’architettura

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di Salvatore D'Agostino


Calendario inizia pubblicando il finale del piccolo saggio Il disegno puro e il disegno dell’architettura, scritto da Maurizio Sacripanti nel 1953. In questo pamphlet, attraverso un’attenta analisi storica, l’architetto romano mise per la prima volta in relazione l’evolversi della «perizia disegnativa» con il pensiero dell’architettura.
«Il disegno nell'architettura – dice Maurizio Sacripanti – è un mezzo tecnico attraverso il quale descrivere un pensiero che già a priori è “costruttivo” e che nella sua fase realizzativa si definirà concretamente.»
Da rileggere due analisi sul disegno moderno (ricordo scritto nel 1953):

la «perizia disegnativa» del moderno diventa strumento di comunicazione, cambia linguaggio secondo il referente; 
i disegni di «fantasia architettonica» fanno parte della grammatica di base per un architetto come il disegno dal vero-rilievo e di progetto.


estratto dal libro di Maurizio Sacripanti, Il disegno puro e il disegno dell’architettura, Fratelli Palombi editore, Roma, 1953, pp. 90-92.

II disegno nell'architettura, valido quale mezzo di scrittura trasformò la concretezza originalmente utilitaria della casa, mero ricovero per riparare e contenere, attraverso l'esigenza poetica in espressione architettonica. Perché dunque apparisse nella storia il disegno nell'architettura, fu necessaria il manifestarsi di una iniziativa di trasformare il concetto di casa-riparo, dal piano di una realtà obiettiva quale, la funzione utilitaria ad un concetto soggettivo quale interpretazione poetica.

II soggetto «architettonico» non è sufficiente a far sì che lo stesso aggettivo definisca ogni rappresentazione grafica di quello. Occorse il costituirsi di una forma mentis, che si manifestò nella coscienza del soggetto trattato, poi nella comprensione di ciò che nel soggetto era necessaria rappresentare o mettere in evidenza, nella necessità d'invenzione di un metodo di rappresentazione ed infine nella tecnica di esecuzione per conferire al disegno il carattere architettonico e distinguerlo dal disegno pittorico a soggetto architettonico o dal disegno scenografico. Il disegno architettonico si apparenta con il disegno in genere, ma si distingue nettamente dai disegni tecnici o più propriamente industriali, perché il disegno nell'architettura parte sempre da una emotività, mentre il disegno industriale è sempre ed esclusivo prodotto di puro ragionamento.

Nel disegno architettonico, prescindendo dalle considerazioni artistiche, l'evoluzione della sua funzionalità espressiva si è proposta di mettere il soggetto nel più stretto rapporto con la costruzione usando opportuni metodi di rappresentazione e tecniche grafiche. La mentalità architettonica rivolgendosi contemporaneamente all'arte e alla tecnica, assunse nelle sue forme espressive affinità tanto con il linguaggio artistico che con quello tecnico. La evoluzione della conoscenza e dell'uso della tecnica nella storia dell’architettura ha definito necessaria l'elaborazione di grafici riflettenti sempre maggior precisione, chiarezza, esattezza geometrica e sensibilità costruttiva.

Nell'elaborazione di un progetto architettonico della età moderna l'architetto appare usando vari linguaggi, secondo che si rivolga, con un disegno di massima, a se stesso o al committente, o con disegni tecnici ad altri tecnici; e così il linguaggio grafico del disegno nell'architettura varierà secondo a chi è diretto; però l'unità dello spirito, risultante dell'intelligenza e cultura singola dell'architetto determinerà caratteri comuni.

Questi si possono classificare in disegni espressivi e disegni tecnici; a secondo che in essi l'architetto reagisca da artista o agisca da tecnico. Si capisce che i disegni di un architetto saranno sempre qualcosa di differente dal disegno di un puro pittore, perché questo guarda la realtà in modo emotivo, e reagendo sensibilmente dinanzi ad essa la rimuta in arte, mentre l’architetto muovendosi da un'idea sensibile ma soggettiva costruisce una realtà esterna e perciò, anche nei suoi disegni più espressivi, dovendo concretizzare attraverso varie materie un'idea, conserverà sempre qualcosa di tecnico corrispondente al proprio ordine mentale di costruttore.

Infatti sia l’architetto antico che l'architetto moderno usarono sempre espressioni tecniche e grafiche per precisare in progetto le parti esterne ed interne delle loro opere, secondo un concetto sempre totale che li porta di continuo all'introspezione tecnica e funzionale, non arrestandoli nel· disegno dell'architettura considerazioni parziali o puramente emotive.

Così gli elaborati grafici di un progetto architettonico, inteso con tecnica e rappresentazione moderna, sono molteplici e si distinguono in studi dal vero e rilievo della zona, disegni di progetto, fantasie architettoniche.

17 maggio 2013

Intersezione ---> Calendario

Pure drawing and architectural drawing | Maurizio Sacripanti | September 30, 1953

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Calendar launches this week, publishing the final part of Maurizio Sacripanti’s short 1953 monograph, Pure Drawing and Architectural Drawing (Il disegno puro e il disegno dell’architettura). Proceeding through a careful historical analysis, the Roman architect considers the evolution of drawing as an architectural instrument and its relationship to architectural thought.
“Architectural drawing,” writes Sacripanti, “is a technical medium for describing a thought that is a priori ‘constructive’ and that in its execution phase will be defined concretely.”
It’s worth rereading these two analyses of modern architectural drawing (written, remember, in 1953):
Drawing as an architectural instrument in the modern sense has become a means of communication, changing its language according to the referent;
‘Architectural fantasy’ drawings constitute a part of an architect’s basic grammar, alongside survey/record drawings and working drawings.


0017 [POINTS DE VUE] Yao Lu | Paesaggi cinesi

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di Salvatore D’Agostino

Chi ha attraversato la Cina in questi ultimi anni si è trovato di fronte un territorio in rapidissima trasformazione a seguito della forte spinta economica. La Cina, è diventata un compulsivo enorme cantiere, che sta cambiando la millenaria immagine statica del paesaggio cinese.

Un contesto senza cantieri significa che quel territorio è fuori dal ciclo propulsivo economico; per paradosso, è senza futuro, destinato alla povertà. Una metamorfosi del territorio che ha portato non solo nuovi modi di pensare, abitare, agire ma anche nuovi materiali e strumenti per fare arte.

L’artista Yao Lu, si è immerso in questa conversione trovando nei dustproof, i teli antipolvere di colore verde o nero che coprono i materiali edili o gli scarti da costruzione, una sintesi per raccontare il paesaggio della Cina contemporanea. I dustproof, per Yao Lu, sono il segnale del mutamento, momentanee coperte artificiali che segnano il passaggio tra ciò che è stato e ciò che ci sarà. 

Osservando le fotografie di Yao Lu, a un primo sguardo, abbiamo la sensazione di esaminare una riproduzione dei dipinti della dinastia Sung ricchi di vedute di dirupi rocciosi, punteggiati da cascate, con piccoli gruppi di figure di uomini, bambini, uccelli, fiori, animali domestici ricoperti da vapori e nubi, tipici della scuola Ma-Xia, che conferiscono ai dipinti stessi una qualità lieve ed eterea, però, guardando con maggiore attenzione, ci accorgiamo che i paesaggi non appartengono alla Cina medievale ma sono fotografie delle colline provvisorie formate dai teli antipolvere di oggi.

Yao Lu, ha fotografato le coltri dei dustproof con attenta perizia da banco ottico e in seguito le ha trasformate ridisegnando sopra, con abile tecnica digitale, le trasformazioni attuali utilizzando l’estetica dei minuziosi dipinti della dinastia Sung: gli uomini, gli animali, i fumi, le nebbie rappresentate non appartengono al passato ma alla Cina di oggi. Uno sguardo del reale che nelle opere di Yao Lu è espresso con l’estetica della tradizione. Le sue opere creano l’illusione della bellezza con la bruttezza, trasferendo alla bruttezza un obiettivo estetico.

Questa tensione dei teli antipolvere tra occultamento ed esposizione, per Yao Lu, è la realtà attuale della Cina. Osservare con attenzione i cumuli dei dustproof significa svelare il paesaggio cinese contemporaneo.





3 giugno 2013
Intersezioni ---> POINTS DE VUE

Modern chinese landscapes by Yao Lu

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Anyone who’s traveled across China in recent years will have come face to face with a place that’s changing very rapidly, as a result of strong economic growth. The country has become a huge, compulsive building site, which is transforming the age-old static image of China’s landscape.
Any area that lacks building sites is an area that is outside the sphere of economic growth – and therefore without a future, and doomed to poverty. The country’s metamorphosis has brought not only new ways of thinking, living, and behaving, but also new tools and materials with which to produce art.
The artist Yao Lu has immersed himself in this transformation, finding a metaphor for telling the story of the contemporary Chinese landscape in the green or black dustproof sheets that cover building materials or waste. For Yao Lu, these dustproof sheets are signs of change – temporary, artificial coverings that mark the passage from what was to what will be.

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0018 [POINTS DE VUE] Scott Page | Oltre il visibile

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di Salvatore D'Agostino

Sicuramente dovettero provare un’emozione immensa Joseph Nicéphore Niépce e Louis Jacques Mandé Daguerre, quando tra il 1820 e il 1840, misero a punto la giusta alchimia chimica per riprodurre, su un supporto, un’immagine vista attraverso gli occhi. Un’emozione paragonabile al big bang, un'esplosione non solo emotiva ma sociale. L’estensione analogica della vista mise in crisi la riproduzione figurativa eseguita a mano libera, attraverso il disegno o la pittura. Cambiando in profondità arte, letteratura, informazione e comunicazione visiva; sviluppandosi in cinema, televisione e video.

Da diversi decenni, altri scienziati, stanno mettendo a punto un’evoluzione di quei primi esperimenti alchemici: il laser scanner 3D. Il designer statunitense Scott Pageè tra i pionieri dell’uso di questa tecnologia. Con il suo laser scanner, di undici chili, ha scansionato diversi edifici di San Francisco, attraverso un processo di acquisizione lento, ogni rilevazione richiede cinque minuti, passa all’elaborazione digitale della nuvola di punti che sviluppa un’immagine laser 3D. Il risultato, come nota lo stesso Scott Page, è simile alle prime foto sgranate sui tetti di Saint Loup de Varennes fatte dalla stanza da letto del fratello da Niépce (1826-1827) o all’esposizione di dieci minuti su Boulevard du Temple eseguita da Daguerre (1838). Le immagini laser ci rilevano lo stato delle cose che va oltre il visibile, entrando all’interno degli spazi, svelandoci nuove potenzialità di rivelazione attraverso la luce. Anche se l’intento di Scott Page, resta l’analisi scientifica dello stato di salute degli edifici, le immagini aprono nuovi orizzonti visivi ed espressivi.

È indubbio che queste primitive foto scanner, già ci fanno guardare il nostro intorno spaziale in modo diverso, spingendoci ad immaginare nuovi scenari artistici, oltre il visibile.


























2 luglio 2013
Intersezioni ---> POINTS DE VUE

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