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Scott Page and the 3D laser scanner - Beyond the visibile

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It must have been an incredible feeling for Joseph Nicéphore Niépce and Louis Jacques Mandé Daguerre when, between 1820 and 1840, they successfully developed the correct chemical process to reproduce an image seen through their own eyes onto a metallic plate. This had to be a feeling comparable to the big bang; not only an emotional explosion, but a social explosion as well. This analog extension of vision put freehand visual art, created through sketching or painting, at risk; it revolutionized arts, literature, visual information, and communication; as well as developing into cinema, television, and video.

For decades, other scientists have been developing the next evolution of those first chemical experiments, such as the 3D laser scanner. The American designer, Scott Page, is one of the pioneers of the use of this technology. With his 24 lb. laser scanner, he scanned various buildings in San Francisco. 




… a proposito di Design 101, The funambulist pamphlets e The Proactive Revolution in Architecture ...

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di Salvatore D'Agostino

… a proposito di Design 101,

vi ricordate la non scuola Whoami del duo Stefano Mirti (Id-lab) e Lucia Giuliano (Abadir)?

Mentre sperimentavano Whoami,1 hanno partecipato al concorso indetto da Iversity,2 un’università libera e gratuita online sul modello MOOC (Massive Open Online Course), ideata in Germania e finanziata da: governo tedesco, Unione Europea, investitori privati (media) e libere donazioni. 


Il bando prevedeva l’assegnazione delle prime dieci cattedre di Iversity, con un premio di venticinque mila euro per ogni aula virtuale vincitrice. Per qualche mese, centomila potenziali studenti hanno scelto il loro corso attraverso una votazione online; infine, una giuria, sulla base dei riscontri Web, ha selezionato i migliori dieci corsi.


Per Iversity, Stefano Mirti, Giovanni Pasca Raymondi e Lucia Giuliano si sono immaginati DESIGN 101 (or Design Basics), delle lezioni che consentono di esplorare, giocosamente, le teorie della progettazione attraverso la pratica, implementando il processo educativo tramite l’uso delle tecnologie e dei social networks. Per promuoverlo hanno ideato questo video:


Tra le 250 candidature provenienti da 20 nazioni,3 il progetto DESIGN 101 si è aggiudicato una delle dieci cattedre. Il corso inizierà il prossimo ottobre.

Dopo la non scuola, Id-lab + Abadir, hanno creato la prima aula, dall'animo italiano ma in lingua inglese, del cyberspazio (parola obsoleta che mi piace riesumare), nonché la prima cattedra MOOC italiana di design.

Si può fare.

The funambulist pamphlets,


Léopold Lambertè un architetto francese, ha vissuto a Parigi, Hong Kong, Mumbai e attualmente abita a New York. Dal 2010 cura il blog The Funambulist con un’intensità quasi inumana e con rara qualità di contenuti. Dopo aver, di recente,  pubblicato Weaponized Architecture,4 grazie alla casa editrice newyorkese Punctum books, pubblicherà una serie di dodici opuscoli tratti dal suo blog. Rieditati in un inglese più corretto da Anna Kłosowska e Eileen Joyin.

Nel pieno rispetto della logica blogger 'accesso aperto alla conoscenza' i pamphlets saranno scaricabili gratuitamente in formato PDF sul sito e acquistabili su richiesta in formato cartaceo attraverso la casa editrice.
Libero accesso.

The Proactive Revolution in Architecture...

Qualche giorno fa Antonino Saggio ha annunciato, sulla sua pagina facebook, una nuova collana di libri di architettura:
«Cari Amici di Face Book, è nata da pochi minuti la nuova collana "The Proactive Revolution in Architecture" Abbiamo deciso di lasciare il FREE DOWNLOAD per alcuni giorni del bel libro di Gaetano De francesco "Foreste Urbane".»

Riporto il primo post della pagina facebook di The Proactive Revolution in Architecture, per conoscere la linea editoriale.

«E' nata oggi, giovedì 4 luglio 2013, la nuova collana diretta da Antonino Saggio “The ProActive Revolution in Architecture. Sistemi, modelli, idee“.

Nel maggio del 1998 era nata "La rivoluzione informatica", nel dicembre del 1999 "the IT Revolution in Architecture" nel 2000 la serie "gli Architetti" (Edilstampa, Marsilio, Testo&Immagine, Birkhäuser gli editori più di cento volumi pubblicati in varie lingue...)

La Nuova collana rappresenta un cambio di punto di vista negli studi di architettura e urbanistica. Invece di partire da una “soluzione”, si parte da una “crisi”. 


Ciascun volume si articola attorno ad una tematica generale, dai rifiuti urbani alle nuove energie, dalle cave agli inquinamenti da veleni, dai temi delle nuove migrazioni alla mobilità. Le analisi economiche, sociali e statistiche forniscono il quadro di riferimento e sono riassunte ed evidenziate con mappe e grafici redatti ad hoc.
Alle possibili indicazioni propositive della crisi in esame è dedicato il centro di ciascun volume con particolare attenzione alle componenti metodologiche e tecnologiche e all'individuazione di esempi nazionali ed internazionali di riferimento.

La presentazione di un progetto, collocato in un contesto geografico specifico e in cui la crisi viene affrontata dal punto di vista urbanistico, architettonico e costruttivo, è inserita nella parte finale del libro. Il progetto, redatto dall'autore del volume e supervisionato dal direttore di collana è, in questo quadro, non tanto una sperimentazione culturale, ma una proposta per il dibattito sociale e politico. Architetti e designer, amministratori e imprenditori, cittadini di tutto il mondo sanno che le opere di architettura e urbanistica sono sempre più motivate da una moltitudine di fattori strettamente interagenti, ma sanno anche che le soluzioni derivano da un’imprevedibile combinazione dei dati di fatto che solo uno sforzo intellettuale e creativo può permettere di generare: la rivoluzione Pro-Attiva dell’architettura vuole fornire idee da discutere molto concretamente e un metodo di lavoro e di ricerca per i nuovi progettisti.»

In bocca al lupo.

11 luglio 2013
Intersezioni --->...a proposito di...
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Note:

1 Whoami, come sottolineava Stefano Mirti, non è «una scuola tradizionale ma non è neanche un MOOC».
2 In collaborazione con Stifterverband fuer die Deutsche Wissenschaft, vedi il video esplicativo di Iversity.
3 Tra i candidati, c’erano molti progetti pensati all'interno di alcune università italiane da Trieste in giù (qui l’elenco).
4 Ne avevo parlato qui, un libro ibrido pensato non solo per la classica lettura cartacea e statica, ma anche per una lettura interattiva che, grazie all'uso della tecnologia Aurasma, apre link, video e audio.

Design 101, Funambulist Pamphlets and The Proactive Revolution In Architecture

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Design 101

Do you remember the Whoami non-schoolcreated by Stefano Mirti (of interactiondesignlab) and Lucia Giuliano (of Abadir)?


[...] Following the success of their non-school, interactiondesignlab and Abadir have thus created the first chair - Italian-inspired but in English - in cyberspace (an obsolete word, but one I like to dust off), as well as the first Italian MOOC chair in design. 
So you see, it can be done.

The Funambulist pamphlets

Léopold Lambert [...] following his recent book Weaponized Architecture, brought out by the New York publisher Punctum Books, he will publish a series of 12 short works drawn from the material on is blog, edited into more standard English by Anna Kłosowska and Eileen Joyin.

In keeping with the blogger's ethic of free access to knowledge, the pamphlets will be downloadable free of charge as PDFs, as well as being printable on demand through the publisher. Open access in other words.

The Proactive Revolution in Architecture

A few days ago Antonino Saggio announced the arrival of a new series of books on architecture, writing on his Facebook page:
"Dear Facebook friends, a few minutes ago a new series, The Proactive Revolution in Architecture, was born. We have decided that Gaetano De Francesco's fine book Foreste Urbane ('Urban Forests') should remain free to download (in Italian) for a few days".

0025 [CITTÀ] Antonino Saggio | La città e la rivoluzione informatica

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di Salvatore D'Agostino

Per il geografo Franco Farinelli una città è costituita non da cose separate l’una dall'altra, ma da “cose che stanno l'una dentro l'altra”. Una città concepita per separazioni di funzioni oggi appare asfittica, incapace di dialogare con le pulsioni sociali innescate dall'invenzione del web. Non tener conto di questi impulsi, secondo Antonino Saggio, significa non avere gli strumenti necessari per progettare la città contemporanea.

Sul rapporto città e rivoluzione informatica, con il consenso dell'autore Antonino Saggio, pubblico un articolo scritto per la rivista italianieuropei, n.8/2012.*

Senza parole: tautologica immagine di copertina della rivista.









La città e la rivoluzione informatica
di Antonino Saggio

Parliamo di rivoluzione informatica. Non vi è quindi da stupirsi se le differenze tra una città della “seconda ondata” – come direbbe Alvin Toffl e una della “terza ondata” o dell’“informazione” sono molto grandi. Infatti, la città è la più grande e complessa forma di artefatto creato dall'umanità quale sistema di accelerazione delle proprie capacità produttive. Di conseguenza, il passaggio da una struttura urbana basata sull'industria manifatturiera a una basata sull'organizzazione, diffusione e formalizzazione dell’informazione comporta differenze sostanziali.

RETE

La città industriale incorporava nella propria logica formativa quella dell’organizzazione tayloristica del lavoro. Una logica che si traduceva in scelte dal punto di vista sia organizzativo che fisico.

Lo zoning, come noto, è il principio urbanistico attraverso il quale lo spazio veniva concepito, organizzato, regolato e progettato. Ogni zona della città industriale o “moderna” (come la chiamavano gli architetti dei congressi internazionali di architettura moderna) era organizzata attraverso specifici standard, densità e tipi edilizi e, soprattutto, attraverso una specifica funzione: ora residenziale, ora industriale, ora terziaria o direzionale. Ogni zona veniva messa “in serie” – come l’anello di una catena – con un’altra funzionalmente distinta, in maniera da ottimizzare la produttività generale. Se la casa è una macchina per abitare, come diceva Le Corbusier, la città è una macchina per produrre!

Ma, se ora ci domandassimo se nella civiltà dell’informazione sia ancora la catena di montaggio il modello della produzione, risponderemmo con facilità che sono oggi subentrati alla catena di montaggio la rete come strumento principe della produzione e all'automobile il computer come oggetto catalizzante. Ecco allora che da questi assunti, come fossero due molecole di DNA, tutto cambia. Se noi sostituiamo alla catena di montaggio la rete, scopriamo che i processi produttivi non sono più lineari, ma, come è del tutto ovvio, interconnessi, interrelati e interattivi, coerentemente con i modelli informatici che ne sono alla base. Anche il tempo cambia. Al tempo ciclico ruotante con gli stessi ingranaggi delle ruote dentate (ora produttivo, ora ludico, ora di riposo) la città dell’informazione tende a sostituire un intreccio che sovrappone i tempi e rende tutto disponibile, sempre e ovunque. Possiamo lavorare in ogni momento, perché questo ci permettono i nostri cordoni ombelicali informatici, possiamo al contempo lavorare e trascorrere il tempo libero, produrre e consumare e, tra non molto, potremo anche dormire e apprendere insieme. Se l’auto era lo strumento per spostarsi nelle diverse zone, il computer ci permette di essere quasi ubiqui. Non solo lavorare ovunque, ma anche trovarci ovunque ci interessi essere. Spazio e tempo si riconfigurano completamente nel nuovo sistema produttivo.

Il modello stesso di città che ne scaturisce è diverso. Se l’architettura del passato voleva essere essa stessa costruzione regolata di un tempo meccanicamente ripetitivo, la città di oggi, più che costruire, ha la tendenza ad annullare il tempo attraverso il battito del bit che ricrea continuamente informazioni e immagini sullo schermo. 

Il tempo della città contemporanea somiglia sempre più a quello che viviamo su uno schermo e sembra esistere solo nell'istantaneità. A una forma mentis lineare (prima e dopo, causa ed effetto, if and then), legata alla produzione seriale e meccanizzata, si sostituisce oggi quella della simultaneità dei processi, della ramificazione dei cicli, della compresenza delle alternative; insomma, vince il principio dell’ipotesi, del “what if”, ovvero del “che cosa succederà se modifico questo parametro o questa variabile?”. E alle linee parallele della catena di montaggio si sostituisce il triangolo ramificato della rete – che è certo internet, ma anche moltissimo altro: una rete che diffonde, interrela, interconnette e rende globale e locale lo sviluppo dei processi.

D'altronde, la spinta del sistema produttivo non è più l’uniformità e omogeneità dell’esito finale e dello standard, ma esattamente l’inverso: la personalizzazione del prodotto, sulla base di un’attivazione, ogni volta diversa, di alcune connessioni della rete informativa e produttiva.

MIXITÉ

Tutti questi fattori si traducono, dal punto di vista fisico e nel contesto della città dell’informazione, nella perdita di centralità delle idee di zoning e di omogeneità funzionale, perché la città dell’informazione tende a riaggregare, combinare, sovrapporre e intrecciare le funzioni. Uno degli aspetti fondamentali di questo cambiamento è l’affermarsi del fenomeno della mixité, per cui le parti di città, e con esse i progetti, invece di aderire a una sola funzione – la zona residenziale, la zona terziaria, la fabbrica, la scuola – come nel vecchio zoning, tendono a essere ogni volta una combinazione, un mix appunto, delle diverse attività.

I progetti mirano sempre di più ad aderire a grandi nebulose di usi diversi che, prendendo a prestito la terminologia inglese, che permette l’idea dinamica dell’espansione, possiamo chiamare dell’inhabiting (la sfera del risiedere), dell’exchanging (la sfera del commercio), del creating (la sfera dell’attività produttiva), dell’infrastracturing (la sfera delle infrastrutture) e del rebuilding nature (la sfera della nuova naturalità). Nella città dell’informazione ogni progetto presenta tendenzialmente una combinazione di questi diversi usi sia alla grande scala che alla scala dell’edificio. Basti guardare al grado di mixité che hanno oggi le stazioni o gli aeroporti, ma anche i musei o i centri commerciali o i campus universitari o gli stadi (lo stadio monofunzionale è un residuo del passato e rappresenta una perdita economica: una struttura per funzionare oggi deve servire a tanti scopi diversi).

D'altronde, il multitasking non è caratteristica saliente dei nostri pc? La città di oggi tende a somigliare ai nostri computer e a operare con le loro modalità esattamente come la città dell’industria non solo era fatta per l’automobile, ma tendenzialmente era anche basata sugli stessi processi produttivi (la catena di montaggio), sulla stessa idea di standard (la Ford nera o la Seicento per tutti!), sugli stessi principi logici e, nei casi più estremi, sugli stessi principi formali (si pensi a quanto ideato dalle avanguardie artistiche di futurismo, costruttivismo, neoplasticismo, purismo).

Ma la chiave della mixité non è solo la pura e semplice compresenza multitasking delle funzioni, quanto la capacità dell’insieme di avere la forza di una “comunicazione narrativa”, affinché l’esito sia dotato di senso, di immagine e di storia e si possa inserire nei nuovi parametri produttivi e comunicativi della civiltà dell’informazione: si tratta di una driving force ed è la caratterizzazione trainante di un progetto, tanto alla scala di un singolo oggetto di design quanto di una parte di città. La driving force deve sia essere radicata in profonde ragioni sostanziali, contestuali ed economiche che proporsi con coraggio nuove ipotesi.

In un caso la mixité si struttura attorno alla driving force di un campus per lo studio del territorio, in un altro in nuovi centri di produzione cinematografica, in un altro sviluppa la valorizzazione ambientale o dei percorsi storici, in un altro ancora affronta il tema del cibo o dell’automobile. agorà, nuovi forum pubblici in cui la “narrazione” del primato meccanico si traduce in mille declinazioni. Alcune di queste opere, come quella della Mercedes Benz a Stoccarda, sono anche capolavori dell’architettura di oggi, ma questo è un altro discorso. Quando il sistema funziona, la mano pubblica orienta i principi generali e negozia i massimi vantaggi per la collettività; il privato realizza, gestisce, dà occupazione e trae reddito. In Germania la grande cultura dell’automobile ha generato nuovi grandi progetti, che non sono affatto musei della Mercedes, dell’Audi, della Porsche o della BMW, ma vere e proprie agorà, nuovi forum pubblici in cui la “narrazione” del primato meccanico si traduce in mille declinazioni. Alcune di queste opere, come quella della Mercedes Benz a Stoccarda, sono anche capolavori dell’architettura di oggi, ma questo è un altro discorso. Quando il sistema funziona, la mano pubblica orienta i principi generali e negozia i massimi vantaggi per la collettività; il privato realizza, gestisce, dà occupazione e trae reddito.

Se volessimo sintetizzare alcune differenze tra città dell’informazione e città dell’industria, diremmo allora: reti contro catena di montaggio, mixité contro zoning, computer contro macchina e narrazione contro monofunzionalità. Questi cambiamenti comportano ulteriori e rilevanti conseguenze, alcune delle quali indichiamo qui di seguito.

BROWN AREAS E OLTRE

Il più macroscopico effetto riguarda la dismissione di enormi aree – le cosiddette brown areas– del vecchio modello della produzione industriale.

Che cosa fare, come dare a queste aree un’indicazione che sia propulsiva e coerente con l’idea di città dell’informazione è una sfida grande e interessante. Solo chi ha studiato come il mondo è cambiato può formulare ipotesi con possibilità di successo. Vi sono molti casi eclatanti di nuove possibilità legate alla dismissione delle ex aree industriali. Il più grandioso è forse rappresentato dalla città di Seul, la capitale della Corea del Sud, che ha tolto per molti chilometri l’autostrada che circondava il centro, ha fatto riemergere un canale interrato e ha creato un parco tematico sul fiume ritrovato per tutta la città. Immensi capitali si sono rivitalizzati e la città attrae sempre più lavoratori qualificati dell’informazione.

Un altro esempio molto importante è, naturalmente, la High Line a New York. Anche in questo caso un’infrastruttura industriale dismessa è stata rivitalizzata grazie all'azione dei cittadini e oggi genera ingenti aumenti di occupazione, oltre che di valore immobiliare. Alla scala degli edifici, i progetti sono numerosissimi e, per fortuna, riguardano anche l’Italia (si pensi al Lingotto di Torino), anche se il capostipite è il Museo Guggenheim a Bilbao, il quale è stato appunto creato in un’area industriale dismessa che è divenuta oggi un luogo di pellegrinaggio culturale per milioni di cittadini. Invece, per quanto riguarda gli interventi in intere parti di città, il primo esempio su larga scala in Europa è Potsdamer Platz a Berlino.

La presenza delle aree dismesse indica, tra l’altro, che invece di prefigurare una espansione infinita della città forse vale la pena infittire e intessere nuove relazioni operando all'interno. Il sottoutilizzo dei suoli e delle aree abbandonate dentro la città e il parallelo spreco di terreno agricolo all'esterno sono prassi che si continuano a perseguire per inerzia.

All'idea di far-west, cioè della conquista infinita di un territorio dove corrono inesorabili i binari paralleli della ferrovia o dell’autostrada, la città dell’informazione deve sostituire quella dell’in-between, cioè dell’operare “tra” e “nelle” cose.

Infine, qualcosa sui processi decisionali. La città razionale, industriale, meccanica e modernista si basava su un processo decisionale dall'alto verso il basso. Una ristretta élite stabiliva le linee ideologiche del nuovo approccio urbanistico (e questo, nel campo dell’architettura, avveniva principalmente nei Congressi internazionali di architettura moderna). Stabiliti i principi, seguivano le tecniche e le regole (ad esempio, la Carta d’Atene fu il documento cardine della città funzionalista e industriale). Ma la città dell’informazione può “anche” puntare alla presenza di un approccio che si muova al contrario rispetto a una ideologia imposta dall'alto, cioè dal basso, aggregando forze, ipotesi e potenzialità, in una modalità a rete e partecipativa.

È opportuno sottolineare che quando si studiano le città di maggior successo, si vedono in atto scelte strategiche e grandi indicazioni di direzione e di disegno, ma sono appunto grandi principi-quadro e non la descrizione di una situazione del tutto ipotetica che probabilmente non si realizzerà mai. Planning by doing, d'altronde, non vuol dire fare quello che capita, ma stabilire i principi e le direzioni cardine dello sviluppo e valutare le soluzioni caso per caso, non dogmaticamente, all'interno della direzione intrapresa.

Sono, questi, modi di lavorare in atto ormai da decenni nei paesi nordici e che si sono sviluppati negli ultimi anni anche con una pratica grass root (e ancora una volta ne è un esempio la High Line a New York). In una società in cui le nuove generazioni si aggregano via Facebook è possibile pensare a questi processi dal basso verso l’alto, catalizzati e sviluppati dalla rete, anche nel caso dell’architettura e della città.

INFITTIRE, INTESSERE E RICUCIRE I VUOTI URBANI

Abbiamo sin qui individuato alcune caratteristiche e differenze tra la città industriale e quella dell’informazione, ma come possiamo fare per operare concretamente? Ebbene, la risposta è tautologica: sostituendo alla catena la rete, cioè sostituendo a una maniera lineare e assemblatoria di operare una maniera olistica o, se si vuole, sistemica.

Come sappiamo, l’idea di crescita infinita legata al modello industriale comporta un progressivo depauperamento del pianeta. La città non può crescere all'infinito, non può produrre costantemente beni che poi diventano scarti. Il processo, in una parola, non può essere “input-output” ma deve essere “input-output-input”.

Le sfide della città dell’informazione risiedono, innanzitutto, nel suo avvicinamento alla scienza e alla tecnologia contemporanee. Nonostante la crisi economica degli ultimi anni, l’accelerazione delle scoperte scientifiche nel campo dei nuovi materiali, sempre più interattivi, intelligenti, depuranti ecc., o delle tecnologie delle componenti energetiche sia attive (cioè che catturano con apparati fisici energia e la trasformano) che passive (cioè che studiano le conformazioni più adatte della città e degli edifici) è impetuosa. Intere città si riconfigurano su questi principi e si muovono su queste linee.

La città di Freiburg in Germania, vincitrice di numerosi premi, dovrebbe essere meta ricorrente dei nostri amministratori. Tuttavia, anche in Italia alcune cose si muovono: basti pensare, ad esempio, alle esperienze della città di Pisa. Insomma, la scienza contemporanea deve entrare in misura preponderante in qualunque idea di città della rivoluzione informatica.

Non bisogna necessariamente cambiare tutto d’un colpo, ma mettere a sistema le situazioni. [...] Guardiamo ogni tanto all'estero, a quello che succede in tante città, da Rotterdam a Freiburg, da Lione a Copenhagen, e vediamo come idee sistemiche che legano una nuova comprensione della città dell’informazione e dell’informatica attraggono finanziamenti europei, convogliano risposte e, soprattutto, a loro volta incentivano e sviluppano la produzione.

Perché, come si diceva, la città è il più grande artefatto creato dall'umanità quale sistema di accelerazione delle proprie capacità produttive e oggi saperla capire e progettare determina valore.



24 luglio 2013
Intersezioni ---> CITTA'
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Note:
*Nell'approfondimento ‘Lo sviluppo delle città’ si possono leggere gli scritti di Roberto Della Seta, Franco Purini, Paolo Desideri, Paolo Urbani, Livio Sacchi, Alessio D’Auria, Margherita Petranzan, Paolo Marconi, Anna Lazzarini, Chiara Sebastiani, Riccardo Conti, Giovanni Caudo, Stefano Stanghellini e Vittorio Gregotti. Di quest’ultimo riporto un brano, poiché il suo dolce incanto verso una città ‘disegnata’, da barbaro mi ha commosso: 
“Certamente, nonostante tutti parlino di accelerazione nei processi di mutamento, il tempo di questa fase sembra ancora disperatamente breve per costituirsi come solido terreno di fondazione di nuove interpretazioni critiche della realtà capaci di produrre le basi di nuovi modi di essere e di nuove possibilità delle pratiche artistiche, dotate di senso della necessita. Pur entusiasmandoci sovente per i nuovi mezzi, siamo lontani dall'aver maturato non solamente processi di mitizzazione tipici delle incertezze dei barbari nei confronti del nuovo, ma persino distanze critiche capaci di proporre nuove verità e possibilità di costituzione di processi civili migliori. E in questa contesto che le difficoltà delle arti contemporanee diventano pienamente evidenti e si spiegano, anche per l'architettura, le predilezioni per la provvisorietà e le calligrafie mutevoli come valori, il ritiro da ogni dialogo con il disegno della città e della sua storia e la proposta dell'esibizione competitiva contro l'uso.  Contro ogni tentativo di costruire un disegno di paesaggio come bene comune.”
Il numero è acquistabile su iTunes, amazon o richiedere le copie attraverso mail


0019 [POINTS DE VUE] Luca Parmitano | Sovraumana serenità

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di Salvatore D’Agostino

Nel 1858 Nadar, pseudonimo di Gaspard-Félix Tournachon, scattò per la prima volta delle fotografie aeree. Nel suo libro di memorie,1 ricorda le sensazioni del suo primo viaggio aerostatico munito di macchina fotografica progettata di proposito per la missione:

«Come il corso dei tempi passati, l’altezza che lo allontana riporta ogni cosa a proporzioni relative: alla Verità. In questa sovraumana serenità, lo spasmo dell’ineffabile sensazione libera l’anima dalla materia, dimentica di sé come se non esistesse più, sublimata essa stessa in pura essenza. Tutto è lontano, preoccupazioni, amarezze, il disprezzo, l’oblio, e persino il perdono…»
Le fotografie aree, per lo scaltro Nadar, dovevano aprire il campo per diversi scopi sia strategici militari che scientifici. Nadar, da pioniere della fotografia, nonché abile sperimentatore,2 non riesce a nascondere la commozione che la terra vista dall’alto provoca. Tra le nuvole, i pensieri appaiano relativi e diventano pura emozione.

Fotografie di pura emozione sono anche quelle che in questi giorni sta pubblicando sulla sua pagina facebook l’astronauta Luca Parmitano. Partito il 28 maggio dal cosmodromo di Baikonur in Kazakistan per la missione Expedition 36,3 il rientro è previsto a novembre, Parmitano si trova quattrocento chilometri più in alto del pallone aerostatico di Nadar. Durante le pause da un angolo di oblò, chiamato cupola, e da lui definito ‘La finestra sul mondo’ scatta delle fotografie che condivide agli amici dilatati dell’era di facebook, arricchendoli con brevi didascalie.

Fotografie di sovraumana serenità che ho deciso di selezionare e ordinare in ordine cronologico inverso, aggiornando questo post, fino al rientro della sua missione.

lunedì 5 agosto 2013
Le dune rosa delle Namibia




lunedì 5 agosto 2013
La Luna sorge all'orizzonte, circondata da nubi mesosferiche




sabato 3 agosto 2013
I primi raggi del sole incendiano di luce le nubi mesosferiche in un’alba orbitale




giovedì 1 agosto 2013
Come un dipinto di Escher, le dune del deserto sembrano riproporre all'infinito la stessa forma

















martedì 30 luglio 2013
Il Mediterraneo, le Pleiadi e un temporale all'orizzonte




lunedì 29 luglio 2013
Non smetterò mai di stupirmi alle visioni che offre il mare: al largo della Turchia, correnti evidenziate dal riflesso del sole 


domenica 28 luglio 2013
Un’isola a sud delle Comoros mi ricorda i riflessi della madreperla


domenica 28 luglio 2013
L’unica cosa visibile da sotto le nubi, il Kilimanjaro è una visione maestosa


sabato 27 luglio 2013
Un foto fatta da 400 km o da 4 metri?


sabato 20 luglio 2013
Londra? Molta difficoltà a identificarla!


venerdì 19 luglio 2013
Una nave da crociera, con km di scia dietro. 


giovedì 11 luglio 2013
Il migliore autoscatto che abbia fatto finora


mercoledì 3 luglio 2013
Moore Island


venerdì 28 giugno 2013
Un oceano di sabbia, con le sue onde e le sue coste... ‪#‎Volare‬


venerdì 28 giugno 2013
La prova finale che la Terra è tonda…


giovedì 27 giugno 2013
Come un quadro di Mondrian, i campi del Kansas, USA


giovedì 27 giugno 2013
Alla vista di questo magnifico posto, sai di essere in Mauritania…


lunedì 24 giugno 2013
Incendi in Messico, vicino Sonora 


lunedì 24 giugno 2013
Come piscine nel mezzo del Pacifico, gli atolli della Polinesia Francese


domenica 23 giugno 2013
Sud Pakistan: la simmetria di questa immagine mi ha colpito...

Quelle che sembrano colate laviche sono evidenti in questo vulcano in Nigeria ‪#‎Volare‬


Questo “occhio” sembra guardare noi! ‪#‎Volare‬

venerdì 21 giugno 2013
L’occhio di Mordor? Non è la Terra di Mezzo, ma semplicemente la Terra…


giovedì 20 giugno 2013
Le incredibili, fragili, bellissime Maldive.


mercoledì 19 giugno 2013
Tutta l’Italia. Stavolta vista da sud.



martedì 18 giugno 2013
Una montagna innevata vicino La Paz, mi ricorda una stella di Natale!


giovedì 13 giugno 2013
La nostra finestra sul mondo


mercoledì 12 giugno 2013
Sorprende che un posto che noi pensiamo “morto” possa avere così tanta vitalità...



domenica 9 giugno 2013
Questa immagine mi ha colto di sorpresa… mi sono girato, ed era lì.

Ciao dalla ISS. Sto galleggiando senza peso, come dimostra la mia collanina!



2 agosto 2013
Intersezioni ---> POINTS DE VUE
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Note:
1 Nadar, Quando ero fotografo, Editori riuniti, Roma, 1982, p. 54
2 a lui si devono le prime fotografie sotterranee e l’uso dei primi rudimentali flash (luce artificiale)
3 raccontata anche per i non esperti sul suo blog

agosto 2011 | Ludovico Corrao: Una città non si ricostruisce con un disegno

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di Salvatore D'Agostino

Due anni fa moriva, in modo violento, Ludovico Corrao ideatore e infaticabile promotore della rifondazione di Gibellina, distrutta dal terremoto nel 1968. Il paese, per motivi di sicurezza, secondo un decreto del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, non poteva essere ricostruito sulle proprie macerie, ma andava rifondato altrove. Ludovico Corrao, allora sindaco di Gibellina, pensò che fosse venuto il momento del riscatto di un popolo da secoli povero e vessato dai potenti affiancando alla costruzione della nuova città progetti d’arte contemporanea. L’arte a Gibellina nuova doveva essere non più espressione del potere dominante ma a servizio di tutti i cittadini. Mentre gli edifici seguivano il percorso, spesso non facile, dei finanziamenti statali, le opere d’arte furono sovvenzionate con i soldi degli stessi abitanti.

Fu così che alcuni artigiani della nuova Gibellina come Carlo La Monica, Luigi e Girolamo Ippolito, Antonio Renda, Giuseppe Barbera, Egisto Artale, Alfonso Terranova, Damiano Arcilesi, Cristoforo e Vito Evola, Pippo Ferrara, Franco Cassarà Ignazio Giacone, Maria Capo, Franca Ippolito, Angela Casciola, aiutarono e costruirono le opere di artisti come Scialoja, Paladino, Burri, Consagra, Pomodoro, Cascella, Franchina, Mirko, Uncini, Staccioli, Schifano, Beuys, Xenakis, Kokkos, Isgrò, Colla, Cucchi, Briggs, Accardi, Noetti, Ciussi e tanti altri.

Questi artigiani, in un libro inchiesta di Davide Camarrone ‘I maestri di Gibellina’, raccontano con orgoglio la straordinaria opportunità che ebbero nel cooperare con artisti provenienti da tutto il mondo, affrontando le sfide che si volta in volta gli proponevano. Sfide che uscivano fuori dalle consuete mansioni quotidiane e che innescarono un dialogo creativo, come ricorda il fabbro Carlo La Monica: «Lui (ndr Corrao) diceva sempre: “La musica la scrivono loro però i musicanti li mettiamo noi.»

A seguire, pubblico l’introduzione che Ludovico Corrao scrisse per questo libro che, per una strana coincidenza, è stato pubblicato lo stesso mese della sua morte. Questo testo, appare come un inconsapevole testamento di chi consegna un’opera appena abbozzata: «Una città non si ricostruisce - ricorda Corrao - con un disegno e una bacchetta magica, imponendo uno stile su un altro. Una città si ricostruisce negli anni, nei secoli.»

Quasi come un monito pieno di speranza conclude: «Questo, per Gibellina, è solo l'inizio di un cammino.»




Fotografia di Mimmo Jodice

Ludovico Corrao

Nella notte fra il 14 e il 15 gennaio del 1968, un terremoto distrusse decine di centri della Valle del Belìce, tra i quali Gibellina.

Il primo problema che si pose, innanzi a chi era corresponsabile della rinascita di questa città, fu quello di restituire la forza della speranza a gente che fuggiva per ogni parte del mondo temendo di non più tornare.

Il Governo offriva le navi per andare in Australia o in Venezuela. Si negava ogni possibile ricostruzione. Il Genio Civile aveva affidato alle ruspe il compito di distruggere tutto quel che il terremoto aveva lasciato in piedi.

Nel corso dei secoli, il popolo contadino di Gibelli­na aveva conosciuto altre gravi sciagure: la violenza del padronato feudale, le guerre criminali e mafiose, le epidemie, i disastri dell'agricoltura. Masse enormi di contadini erano emigrate per sfuggire al destino che le condannava a una difficile esistenza e alla tragedia delle guerre, alle quali erano riservati i soli frammenti d'arte: i monumenti ai caduti.

In quella notte di un inverno eccezionalmente rigido, con la neve che copriva le colline, la gente fuggì in ogni direzione. Nessuno le indicava dove andare. La spinta che la muoveva era quella del non ritorno. Chi, dopo qualche giorno, tornò tra le macerie della città, lo fece per ritrovare i suoi pochi tesori: le foto della nonna, del matrimonio, del battesimo dei figli: ultime reliquie di un'antica storia.

La sfida era resistere a Gibellina contro ogni speranza. Si capiva benissimo, infatti, dalla condotta del Governo di quei tempi, che alle promesse non sarebbero seguiti i fatti. Le navi, come ho ricordato, imbarcavano migliaia e migliaia di cittadini della Valle del Belìce per l'Australia. Oggi, le città siciliane più importanti del Belìce sorgono a migliaia di chilometri dalla Sicilia. A Poggioreale, abitano mille persone. In una cittadina nei pressi di Sidney, invece, abitano cinquemila poggiorealesi: paradosso, questo, che vale per l'America, per la Francia, per la Germania, per il Venezuela. Non fu un nomadismo del commercio e degli affari, il loro, ma un nomadismo della morte. Un destino tragico.

Ridare la speranza era dunque fondamentale per resistere. Occorreva ridestare la natura del tenace concetto - direbbe Leonardo Sciascia - dei contadini siciliani: l'attaccamento alla terra e non alla sola memoria della terra: bisognava raccoglierli, farli tornare lentamente indietro. La ricostruzione poteva riguardare la memoria del futuro e non la memoria del passato.

Per il suo Cretto, Burri parla di un'archeologia del futuro e non di un'archeologia del passato.

Il cretto di Burri visto da google map

Serviva una ricostruzione che facesse ricongiungere i fili della storia di un piccolo centro di contadini, servi della gleba, ai grandi centri culturali che nel passato s'erano insediati in quel territorio e avevano lasciato traccia del loro passaggio. E che cosa, se non l'arte  la cultura, la musica e la poesia potevano tessere le trame della rinascita?

Non dimentichiamo che era il 1968, l'epoca delle grandi utopie.

Insieme ai tantissimi giovani giunti da volontari per aiutare i contadini della Valle del Belìce, vi furono anche dei comitati di riflessione sui movimenti della liberazione dell'uomo, in generale, sui movimenti della liberazione della donna. Ricordo le esperienze di Don Mazzi, di Don Riboldi e di tanti rappresentanti di culture diverse. Cominciammo a scavare non più nelle sole macerie del passato, della memoria, ma nelle radici della nostra storia complessiva: non soltanto dunque nella storia di Gibellina e del Belìce, ma nella storia della Sicilia, del Mediterraneo. E solo da questa scavo poteva riemergere un germe fecondo per un nuovo albero e una nuova vita.

II terremoto sanciva anche il fallimento di un'altra tragica esperienza: la riforma agraria siciliana, la rottura del feudo.

Per molti secoli, Gibellina era stata un piccolo villaggio al servizio di un feudatario che disponeva di una torre e un palazzetto d'avvistamento sulle campagne. Alle tre di notte, i contadini dovevano svegliarsi e andare in campagna, giù nelle valli, a coltivare i terreni del feudatario. Tra il Settecento e i primi del Novecento, vi erano state continue rivolte per conquistare la terra. Le insurrezioni erano state domate con il sangue e la galera. Basti ricordare gli episodi dei Fa­sci Siciliani di Gibellina e Castelvetrano: dal campanile della chiesa di Gibellina, l'esercito sparava sulle donne e sui bambini in rivolta per abolire il dazio, la dogana e gli usi feudali.

Dovevamo trarre alimento dalla storia per la resistenza e la riconquista del territorio e della casa, per la costruzione di un futuro migliore.

La cultura, l'arte, i fermenti della vita, potevano ri­dar speranza e forza agli uomini e alle donne. La loro tenacia fu encomiabile. Ricordo i primi giorni dopo il terremoto, quando mancavano i collegamenti. I contadini andavano a piedi nelle loro campagne per vigilare sulle coltivazioni e le donne li accompagnavano per aiutarli e recuperare così il tempo perduto.

I contadini, dispersi dopo le fughe forzate nei paesi limitrofi e in luoghi ben più lontani, volevano riconquistare un loro spazio e ricostituire le loro famiglie. Un dato faceva riflettere. Un dato catastale. Quasi tutte le case erano intestate alle donne. Non ci stupimmo dunque di veder sempre le donne alla testa del drappello che saliva dalle pianure verso le colline per riconquistare il diritto alla ricostruzione delle loro abitazioni, per insediare le famiglie e far germogliare nuovamente la vita.

Non solo le case. Bisognava ricostruire le ragioni di una vita degna di questo nome.






Renato Guttuso, Studio per la notte di Gibellina, 1970
Olio su tela, Archivio Museo Civico di Gibellina (TP)

Da qui, l'appello degli artisti e degli uomini di cultura italiani guidati da Leonardo Sciascia, Carlo Levi, Cesare Zavattini, Renato Guttuso, perché si ponesse rimedio alla tragedia del dopo terremoto: la tragedia delle baracche, dove per il freddo e per il caldo morivano decine e decine di persone. Non era bastato il lutto delle migliaia rimaste sotto le macerie. La morte continuava nelle baracche.

Si leva forte l'appello per evitare il genocidio di quelle popolazioni. A dare speranza e forza a questa volontà tenace di restare sul territorio, furono gli artisti. Essi risposero all'appello: non per realizzare un bell'arredo urbano, non per donare le proprie opere o venderle per costruire le case, ma per impegnarsi insieme agli uomini e alle donne di Gibellina a costruire le case della gente.

Le assemblee fatte ogni sera nelle baracche avevano un solo tema: disegnare la casa di domani.

La casa di domani che non era, non poteva essere, la casa di ieri.

Quando si parla di una ricostruzione di Gibellina e dei paesi della Valle del Belìce lontana o contrapposta alla tradizione del mondo contadino - la casetta, il vicinato, la donna che stava in mezzo alla strada e cucinava e parlava con la donna di fronte - si dimentica troppo facilmente che quelle case avevano una superficie massima di trenta o trentacinque metri quadri, e all'interno, con adulti e bambini, tra gli attrezzi di lavoro, vivevano anche l'asino e il mulo. Evocare nostalgicamente una replica della città antica significava condannare quel mondo a rivivere le condizioni di un tempo: per appagare l'estetica della decadenza, per rivedere l'antica città contadina e dimenticare quel che era stata: un luogo di dolore e disperazione. In quel dolore ed in quella disperazione, è vero, i sentimenti umani divenivano più forti, ma si trattava pur sempre di gabbie capaci di bloccare ogni forza di rinnovamento.

Vi era un altro problema: il tentativo di gestire la ricostruzione con il metodo dei grandi appalti, affidando a grandi ditte il compito di ricostruire intere zone della città nuova.

A questo disegno governativo opponemmo il diritto dei cittadini di Gibellina e della Valle del Belìce d'essere imprenditori di se stessi, costruttori delle loro case e dei loro destini. Significava trasformare i contadini in questo che non erano mai stati: fabbri, muratori e artigiani di tutte le arti e i mestieri necessari alla ricostruzione

Fu ammirevole il modo in cui trasfusero i loro piccoli saperi di contadini braccianti non qualificati - la loro non era un'agricoltura avanzata: solo turni di grano e di maggese - nei nuovi mestieri di muratori, falegnami et cetera. Era in quel processo di reinvenzione che s'innestava l'opera dell'artista, per creare segni forti e nuove forme.

Le opere d'arte sono il frutto della creatività degli artisti e della manualità degli uomini e delle donne di Gibellina. Furono riscoperte antiche abilità, come quelle del ricamo e della tessitura. S'innescò un processo di rinascita delle identità. Non una lira pubblica fu distolta dalla ricostruzione e destinata alle opere d'arte: a pagarle, furono i cittadini.

Quando si fa il confronto fra fa ricostruzione della Valle del Belìce e fa ricostruzione del Val di Noto, si dimentica che nel Val di Noto, dove splende il barocco, c'era fa volontà di un despota che poteva dominare e disporre di capitali, artisti e architetti, per attuare un progetto unico, con una sua originalità ideologica.

Nel 1968, quest'unicità non era più possibile. Non vi erano più punti di riferimento certi né nelle arti né nell'architettura. Tutto era rimesso in discussione. Non si poteva quindi creare una città con una sua immagine precisa, ma solo accogliere l'esperienza del tempo: scavare nelle profondità della storia per trarre ispirazione dal nomadismo, dal multiculturalismo e dalla molteplicità dei linguaggi; accettare tutte le contraddizioni che si creavano e si creano tuttora tra un modello e l'altro, per superarle nella prospettiva di future stratificazioni. Quando si parla dell'identità di un popolo al quale per secoli era stata negata la proprietà della terra, ci si dimentica infatti che di comunità nomadi si parla.

La morfologia urbana di Gibellina è stata definita in alcuni momenti storici: l’epoca degli Elimi - che costruirono il loro villaggio alle pendici della collina dove oggi sorge Gibellina -, l'epoca dei Sicani, l'epoca bizantina, l'epoca degli Arabi, l'epoca feudale. In ognuno di questi momenti, la città venne costruita in luoghi e situazioni differenti. La storia della gente di Gibellina era storia di cammino, di emigrazioni: non solo all'esterno ma anche all'interno del territorio, secondo le diverse temperature sociali, politiche ed economiche.

Ci si dimentica poi che Gibellina non era caratterizzata da emergenze architettoniche o monumenti significativi. La sola architettura di rilievo era rappresentata dalla Chiesa Madre e da alcune piccole chiese. Le case erano molto povere.

Dovevamo riproporre un modello di città in cui l'arte era solo al servizio dell'ideologia ecclesiastica o del castello del feudatario?


In un servizio per TV7 Sergio Zavoli inizia la sua cronaca così:
«Gibellina sulla carta geografica non c'era; adesso non c'è neppure su quel clivo giallo d'estate bruno d'inverno, che radunava intorno a tre chiese tre piazze, mille case mille porte.»


O dovevamo invece riprodurre la pluralità dei linguaggi, il dinamismo dei movimenti culturali e artistici che animavano il mondo di quegli anni?

Rispondere a queste domande fu più facile per gli abitanti di Gibellina che non per i Soloni della cultura italiana.

I contadini di Gibellina avevano viaggiato per il mondo, ammirando le architetture e le arti contemporanee. Al loro ritorno, dopo il terremoto, per aiutare i parenti, furono lieti di partecipare a un processo di modernizzazione. Ricordo una donna emigrante di ritorno a Gibellina da New York. Diceva: «Ora mi sento a Brooklyn! Le strade larghe... ». Uno dei problemi principali era rappresentato dalla memoria, dalla storia, nel luogo in cui si andava a costruire una città che non era mai esistita. Non serviva una strategia dell'utopia, del non luogo, bensì della non esistenza.

Nel luogo in cui costruivamo la nuova città, non vi era nulla.

Dalle montagne eravamo scesi a valle per vari motivi, primo fra tutti la facilitazione dei collegamenti con le altre comunità, per passare dalla condizione di servo della gleba a quella di cittadino che può operare nel commercio e nella relazione con gli altri. Scendere a valle significava anche questo: aprirsi alle prospettive del mondo moderno, uscire da uno stato di isolamento, da una condizione economica legata ad un'agricoltura povera.

I contadini non erano proprietari, ma braccianti a disposizione dei grandi feudatari.

Nel luogo scelto per la nuova Gibellina, era la terra, il campo di battaglia delle grandi riforme agrarie e contadine.

Per i contadini, la città nuova fu una nemesi: la conquista della terra negata, nella quale erano stati servi della gleba.

Non dimentico mai che la sede della nostra Fondazio­ne Orestiadi e del Museo delle trame mediterranee si trova nel baglio dei Baroni Di Stefano. Quando lo restaurammo, i contadini ci dissero: «Noi qui non potevamo mettere piede, perché con il mulo portavamo il grano, l'olio, il vino, al padrone, ma solo dalla parte retrostante nel granaio. Ci era proibito l'accesso all'interno del palazzo».

Fu una conquista, un ribaltamento della storia del passato. Ci interessava poco di porre il Caso Gibelli­na nel circuito dei dibattiti internazionali sull'architettura: era importante suscitare un movimento di rinascita, di risveglio, di forza.

I critici dimenticano poi che i Comuni, secondo le leggi di quegli anni, non avevano alcun potere né decisionale né finanziario d'intervento diretto nella ricostruzione delle loro città. Era un organo appositamente costituito dal Governo nazionale, l'Ispettorato Generale delle Zone Terremotate, con sedi a Ro­ma e a Palermo, che decideva sugli impianti urbanistici, sulle infrastrutture e sulle opere. L'Ispettorato sceglieva architetti e progettisti.

Mi fu chiesto se volessi segnalare qualcuno. Un architetto. Un ingegnere. Un amico, insomma. Opposi un netto rifiuto e dissi: mettete in campo le forze che rappresentano la cultura di questo tempo.

Gibellina fu l'unica città che seguì questa criterio. Ludovico Quaroni e gli altri riflettevano questa ircocervo di linguaggi e di intelletti.

Non dico nulla dei progetti presentati e cancellati, ad ogni giro di Finanziaria, dei tagli ai fondi. E dunque dei malumori e delle critiche di più o meno illustri architetti.

Una città non si ricostruisce con un disegno e una bacchetta magica, imponendo uno stile su un altro. Una città si ricostruisce negli anni, nei secoli.

Sono passati meno di vent'anni dalla ricostruzione di Gibellina. E per altri vent'anni, la gente era rimasta nelle baracche, senza alcuna certezza sul proprio destino.

Questo, per Gibellina, è solo l'inizio di un cammino.


LUDOVICO CORRAO


7 agosto 2013

Intersezione ---> Calendario

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Note: 
Il testo è tratto dal libro di Davide Camarrone, I maestri di Gibellina, Sellerio, Palermo, 2011, pp. 11-20.
La prima foto è tratta dal libro di Mimmo Jodice, Gibellina, Electa, Milano, 1982, p.77.

The city and the IT revolution - By Antonino Saggio

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By Antonino Saggio

We're talking about an IT revolution. So, it's hardly surprising if the differences between a "second wave" city - as Alvin Toffler would define it - and a "third wave" or "information" city are very great. Indeed, the city is the biggest and most complex artifact created by humanity, as a system for accelerating its productive capacity. Consequently, the transition from an urban structure based on the manufacturing industry to one based on the organization, diffusion, and formalization of information brings with it profound changes.

Internet

In its formative logic, the industrial city incorporated the logic of Taylor's organization of work. This translated into choices - both organizational and physical.
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Windows of the World - Aerial Photographs by an Astronaut

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The photographs that the astronaut Luca Parmitano has been publishing recently on his Facebook page are pictures of pure emotion, too. A member of the Expedition 36 mission, he took off from the Baikonur cosmodrome in Kazakhstan on May 28 and is due to return to earth in November. Now, Parmitano is orbiting 400 kilometers (248 miles) higher than Nadar's balloon flew. During work breaks he has shot these photographs through what he calls "the window on the world" and he is sharing them with his wide circle of Facebook friends, complete with short captions. 
Photographs of superhuman serenity, which I have chosen and post in reverse chronological order. I will update them until the end of the mission.

Mauro Francesco Minervino: Chi vive in Calabria, chi gioca col fuoco, chi ha scarsa memoria

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Pubblico un breve estratto dell'intervento che il dromofilo Mauro Francesco Minervino terrà domani 4 settembre al Festival di letteratura di Mantova, tenda Sordello (nella mappa punto 9) alle ore 18.00. 



Mauro Francesco Minervino

   Cerco ancora un modo per orientarmi nello spazio del mondo. Perciò scrivo libri che nascono allo scoperto, in movimento, da un viaggio, dalla strada, che somigliano essi stessi a viaggi, strade, a incontri e relazioni impreviste che nascono da percorsi insoliti e accidentati. Lo faccio per “riportare su un piano di realtà le nostre percezioni, sempre più deprivate di competenze spaziali, ovvero delle capacità di muoversi in un mondo a tre dimensioni”. Resto convinto anch’io che in questo modo, riconquistando la visione alla “profondità di campo”, con una «diversa ecologia percettiva e spaziale, la nostra competenza tridimensionale potrà risorgere, o almeno non spegnersi del tutto» (M. Belpoliti). Per cercare di ricordare quello che vedo, per tentare di venire a capo di quello che leggo del mondo, nonostante tutto, privilegio ancora l’esperienza dei sensi nella dimensione del reale, il movimento nel tempo e nello spazio, a tre dimensioni. Lo “stato in luogo” di cose e persone è il condensato di questa esperienza, l’oggetto che per me assomma e riproduce ogni realtà, ogni ricordo sensibile del mondo e del suo essere FACTUM, VOLUMEN.
   Penso a un libro che racconta i luoghi e le persone così come sono adesso, privilegiando la dimensione del viaggio e il racconto di esperienze sul campo, di sguardi e narrazioni sul contemporaneo al Sud. Penso a un libro di luoghi e persone, di “movimento e passione”. 

   Tra andate e ritorni, souvenirs e disdette, ho tentato ancora una volta di narrare e mettere in scena, narrando dal vero, la minuta dialettica degli incontri e dei luoghi di oggi, le esperienze, le disillusioni e gli incanti che hanno guidato e guidano ancora - anche chi scrive qui, proprio da dentro il medesimo campo di esperienze e ricusazioni - alla ricerca costante di un altrove e di un paese possibile, affrontando consapevolmente il rischio dell’impermanenza, la mobilità finale di quell’essere gettati sulla strada che è tipico della dimensione del contemporaneo, accettando così lo spaesamento, l’esilio, il domicilio instabile e la dimora in un altrove che si fa per tutti sempre più prossimo e spiazzante. Spero che tra le pagine di questo libro-viaggio in cui la Calabria è sempre più metafora e specchio ustorio di un’Italia in crisi, affiori l’ansia di conoscenza e di comprensione di chi ha immaginato, polemizzato, detestato, amato e abitato i luoghi e gli incontri ordinari e straordinari di un Sud meridiano che malgrado tutto resta punto archimedico della geografia e dell’anima. Un libro sul bisogno di situare oggi nello spazio e nel tempo della mia e delle nostre vite un nuovo e più accogliente confine dell’umano.

3 settembre 2013

L’ultimo libro di Mauro Francesco Minervino, Chi vive in Calabria/Chi ha scarsa memoria. Viaggio a Sud è edito da doppiozero. Link

Su Wilfing Architettura si può leggere una lunga intervista con l’autore divisa in quattro parti: prima, secondaterza e quarta.


...a proposito di Igort, na3 e Plug_in ...

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di Salvatore D'Agostino

...a proposito di Igort,
«Al principio l’Ucraina era per me qualcosa d’indistinto una nuvola appartenente al firmamento sovietico. Poi ho cominciato a frequentarla e i nomi esotici che sentivo in casa sin dall’infanzia Kiev, Odessa, Poltava, Sebastopoli, Leopoli, Yalta, divennero paesaggi concreti. Com'è stata la vita durante e dopo il comunismo da queste parti? Me lo domandavo sinceramente.»
Inizia con le parole di Igort il documentario che Domenico Distilo ha girato sul fumettista che andrà in onda stasera su Rai Tre, alle 00.50, prima di fuori orario, e forse fuori orario per molti telespettatori [direttore della fotografia Maurizio Tiella, montaggio Alberto Masi e prodotto da Marco Lo Curzio SCIARA Film Production/Media Design].

Igort racconta del suo viaggio in Ucraina, una sorta di diario iniziatico che gli ha cambiato la vita, «una specie di verifica sul terreno» per fare i conti con se stesso e con il "sogno comunista”, tra parentesi come dice nel documentario, e cosa di questo sogno rimaneva.
E mentre si racconta, rileva il suo percorso creativo, l’idea, gli appunti sui diari, i libri, i viaggi, le storie, gli appunti visivi attraverso una vecchia telecamera, le note, i disegni preparatori, i ritocchi al computer e infine un dialogo con un editore francese (che bella la libreria di fumetti intorno al minuto ventinovesimo).

Ogni storia un viaggio rilevatore: dall'eccidio stalinista dei Culachi (proprietari terrieri) causato da una carestia artificiale che li portò al cannibalismo; al racconto della morte di Anna Politkovskaja, di cui già aveva sentito il bisogno di scrivere alcuni giorni dopo il suo assassinio sul suo blog; per finire con il prossimo libro su Pavel Aleksandrovič Florenskij, un mistico russo, che indaga sul tempo rovesciato e la quarta dimensione ucciso dal regime sovietico l’8 dicembre 1937.
«E come se si dovesse raggiungere - attraverso il fumetto - un certo equilibrio e se è possibile arrivare alla verità, una verità che non è il realismo, il realismo è un genere, la verità è come una specie di essenza della scena è una specie d'immedesimazione. [...] Ciò che m’interessa è aprire la finestra delle domande, non dare risposte, non ho risposte da dare» conclude Igort.
Visione consigliata perché il documentario si preoccupa di raccontare e non di elogiare il fumettista e perché c’è sapienza nel montaggio tra il parlato, il visivo e la musica. Musiche, non a caso, tratte dall'album ‘Casinò’ dei Los Ciceros cioè Igort, Sarah Tartuffo, Don Ross e Mario Pirolla; edito in Italia da Coconino Press.



na3,
Letteraventidueè una casa editrice nata nel 2007 a Siracusa che, come si auto descrive:
«crede nelle potenzialità del libro, come medium parallelo e complementare al dilagante web-Surfing: lasciare la superficie al WorldWideWeb ed offrire al lettore attento, la possibilità di approfondire la sua esperienza mediatica è uno degli obiettivi che fondano la nostra idea di cultura contemporanea.» 
Letteraventidue è l’editore di Quattro case viste da dentro, un libro dedicato alla genesi di quattro case progettate dallo studio na3 durante il suo primo decennio di vita; gruppo che ho conosciuto grazie al loro web log. Un racconto che lo studio ha ampliato con scritti o disegni o interpretazioni affidati a tredici rilettori: Angelo Aloisi, Domitilla Dardi, Marta Laudani, Dario Lusso, Mario Magini, Voldben, Francesco Melone, Tomaso Pessina, Filippo Piferi, Patrizia Di Costanzo, Emmanuele Jonathan Pilia, Cristina Senatore, Beniamino Servino, Gloria Valente [tra parentesi l’introduzione è stata curata da Cherubino Gambardella].

Rilettori, non tutti, che in questi anni hanno trasformato il luogo comune del ‘web-Surfing dilagante e superficiale’ in nuova energia espressiva e comunicativa.

Da comprare ed è consigliato anche ai lettori disattenti, che sfogliano, surfano, sbadigliano, amano solo l’odore della carta e non sanno quello che fanno.



Plug_in ...
martedì 24 settembre 2013 alle ore 18, al Museo d'arte contemporanea Villa Croce di Genova gli ideatori di plug_in - laboratorio di architettura e arti multimediali - Alessandro Lanzetta, Emanuele Piccardo e Luisa Siotto festeggeranno il loro decennale di attività con una mostra, divisa in tre sezioni, che si auto documenta:
  • "micro-scala" azioni che hanno cercato di arginare il dilemma, spesso solo verbale, tra quartiere=periferia attraverso il coinvolgimento diretto dei cittadini nella riappropriazione degli spazi aperti condivisi;
  • "macro-territoriale" lezioni, incontri e mostre che giravano intorno alla [cito]: «polisemica definizione del termine paesaggio.»
  • “editoria indipendente” un tentativo di dare spazio alle voci non allineate al mainstream.

C’è tanto altro se v’interessa sbirciate qui
















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…a proposito di galleria occupata, Me Too (imparo a disegnare) e le città #Invisibili...

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di Salvatore D'Agostino

…a proposito di galleria occupata,
alcuni artisti provenienti da diverse esperienze catanesi come la Fondazione Brodbeck, BOCS, Malastradafilm e il collettivo Canecapovolto hanno ideato Galleria Occupata. Un gruppo eterogeneo che non ha occupato nessun luogo fisico e che si propone di prendersi cura dell’artista come lavoratore ‘occupato’.
«Galleria Occupataè fondata e gestita da artisti e pensatori, si propone dialetticamente sulla scena dell’arte contemporanea con poche battute programmatiche:
  • la ricerca è l’unica opera possibile!
  • la formalizzazione è un momento della ricerca!
  • l’artista è un lavoratore!»


Me Too (imparo a disegnare),
vi ricordare l’ultima di Stefano Mirti design 101? Ovvero «la prima aula, dall'animo italiano ma in lingua inglese, del cyberspazio, nonché la prima cattedra MOOC italiana di design», ebbene gli studenti del corso design 101 potranno ottenere crediti formativi (CFU): «Le università europee - come specifica il comunicato del 18 settembre - riconoscono così il potenziale dei Massive Online Open Courses (corsi online, aperti, potenzialmente fruibili da migliaia di studenti) e li integrano nella loro offerta formativa.»

Ma design 101, per Stefano Mirti, è già archeologia perché per la ‘non scuola’ Tam Tam ha ideato un corso dove si può imparare a disegnare dal vero in un giorno; appuntamento alle macchinette di porta Genova, lunedì 7 ottobre 2013, ore 6.45, aula la metropolitana milanese M2.

«Chi arriva in ritardo è spacciato e si è alzato per nulla e poi torna a casa arrabbiato con se stesso che è proprio un cretino.»

Seguite la pagina facebook M2, TAM TAM per non arrivare in ritardo.








le città #Invisibili...
da oggi fino al 16 novembre usando l'hashtag #Invisibili su twitter si rileggerà e riscriverà il romanzo di Italo Calvino Le città invisibili per «riflettere sul senso delle nostre città.»
«Le città #Invisibili sono 55. Leggeremo e commenteremo una città al giorno tutti insieme, tutti i giorni: indipendentemente dalla regione geografica di appartenenza. La novità del progetto #Invisibili è l’idea di dedicare ciascuno dei 9 capitoli de Le città invisibili a 9 regioni #Invisibili, ognuna delle quali rappresenta una o più regioni italiane. 
Eccole: Emilia Romagna (capitolo I), Sardegna (capitolo II), Toscana e Umbria (capitolo III), Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia (capitolo IV), Lazio e Campania (capitolo V), Piemonte Valle d’Aosta e Liguria (capitolo VI), Lombardia (capitolo VII), Marche Abruzzo e Molise (capitolo VIII), Puglia Basilicata Calabria e Sicilia (capitolo IX). 
Per far parte delle regioni #Invisibili non è necessaria alcuna iscrizione: è sufficiente risiedere o riconoscersi in una specifica regione d’Italia. Capitolo per capitolo, agli utenti di twitter di ognuna delle regioni #Invisibili chiediamo di:
  • Scrivere gli starting tweet di ogni giornata, città per città;
  • Stimolare l’intera comunità di twitteratura.it durante la riscrittura;
  • Realizzare uno o più @hiTweetbook dedicati alle città #invisibli.»
Per approfondire leggi qui.

0026 [CITTÀ] Salvatore Iaconesi | Infoscapes: ecosistemi umani emergenti

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di Salvatore Iaconesi*

Un ecosistema della cultura per la città di Roma

Una nuova geografia, fatta di atomi e bit. Abbiamo creato un punto d'osservazione, per una nuova antropologia della città.


Ci ritroviamo in una strana ordinarietà.

Mi immergo nelle strade di Roma, indaffarato nel raggiungere i luoghi delle mie commissioni della giornata e intento ad occuparmi della fisicità intensa di questa città – per cui rischio continuamente di finire addosso ad altre persone, scivolare scendendo da un tram affollato, o semplicemente perdermi nella curiosità di svoltare in un vicolo del centro storico invece che proseguire dritto verso la mia destinazione.

Una vibrazione. Tutto cambia. Pur restando fisicamente nello stesso luogo, sono da un'altra parte. Guardo il mio smartphone, su cui è arrivata una notifica di un messaggio, e sono in un altro posto. Difficile da definire. Sono sempre lì, in un incrocio affollato di Largo Argentina, ad evitare di essere investito da una automobile mentre attraverso la strada assieme a tante altre persone. Ma sono anche altrove.



Sono simultaneamente in luoghi differenti.

Gli elementi nel mio campo visivo, i segni, le persone, gli oggetti, gli edifici, si arricchiscono di uno strato aggiuntivo, che non so bene come collocare. È lì, certo, ma è anche in un posto differente: è un messaggio in cui mi si ricorda un appuntamento, un'idea di un amico, un pensiero, una cosa da fare per lavoro. È uno spostamento che ha una strana fisicità, una tattilità differente, che mi trasla non solo di luogo, ma anche e soprattutto nel pensiero. L'incrocio affollato diventa istantaneamente un ufficio ubiquo, un luogo intimo per la condivisione di un saluto, un posto dove ricevere una informazione, un sito in cui aprire una conversazione di qualche genere.

Arrivato sano e salvo all'altro marciapiede, penso. È un momento di illuminazione, rivoluzionario. Divento profondamente consapevole di essere appena stato all'intersezione di due flussi differenti, di due paesaggi simultanei, di due modalità differenti dell'essere. Che potrebbero essere state anche molte di più, nello stesso istante, e che potrebbero ritornare a incontrarsi in qualsiasi momento.

Ero altrove e qui, nello stesso istante.

Kevin Lynch, nel raccontare le città in “The Image of the City”, le descriveva come enormi opere sinfoniche, create simultaneamente da migliaia – milioni – di performer attraverso la loro percezione ed interpretazione di ciò che li circonda. Una colossale opera emergente, ricombinante, dissonante, polifonica, in cui ogni nota è un atto di individuazione, riconoscimento, situazione, attraversamento, spostamento, comunicazione, espressione: l'interpretazione.

Questa visione ha un potere eccezionale, in quanto descrive la complessità che, assieme alla densità ed alla diversità, è la maggior ricchezza delle città.

Ne descrive anche la modalità di attuazione, esponendo una immagine che conosciamo da De Certeau: la ricchezza della città è costruita negli atti e nei gesti della quotidianità, che diventano rivoluzioni molecolari istantanee, effimere, fluide, liquide, dissonanti ed indeterministiche nel loro proporre (performare) continue riprogrammazioni di spazi, attraversamenti, fermate, ricontestualizzazioni, riappropriazioni, remix, ricombinazioni.

La città vive di molteplici intendimenti simultanei in cui le strategie – ciò che è stabilito amministrativamente, burocraticamente, per legge – si sovrappongono alle tattiche, i modi in cui percepiamo il mondo e decidiamo di attuarne la nostra parte, diventando performer della città, eseguendo scelte, deviazioni, svolte, azioni. Prendendo parte alla polifonia emergente, ubiqua e dissonante della città.

Nello scarto tra strategie e tattiche è l'innovazione, di molti tipi, capace sia di esistere nell'effimero del momento, sia di sedimentarsi e di trasformarsi nella prossima “normalità”, sia di suscitare confronti sociali, politici, poetici, estetici. E, in quanto innovazione, importante in tutti e tre i casi, a mostrare le vie del possibile, a educare la percezione all'accettare la possibilità della possibilità: educare alla possibilità della trasformazione, dando valore alla differenza, al delta.

Nell'era della conoscenza, dell'informazione e della comunicazione, si ridefinisce completamente il senso di propriocezione, che diventa fluido, disseminato. Non siamo più vincolati alla situazione, nel senso di “essere situati”.

In ogni luogo siamo attraversati da innumerevoli sorgenti di informazione e ne possiamo generare di nostra, ad influire e interagire su luoghi, tempi e modalità differenti dal nostro.

Una rivoluzione che è diventata accessibile alla maggior parte delle persone con l'avvento del Sony Walkman, il primo strumento di massa capace di abilitarci a personalizzare lo spazio che ci circonda usando elementi mediatici “altri”: capace di permetterci, tramite l'informazione – la musica –, di attivare emozioni, ricordi, attenzioni e percezioni verso luoghi, tempi e modalità differenti da quelli in cui ci troviamo fisicamente, o addirittura immaginari (ora diremmo “aumentati”). Di scollegarci dal luogo fisico ed entrare nel mediascape, tutt'uno con il luogo, ma anche profondamente differente, altro.

Il Walkman è diventato un iPod, un iPhone, e poi la molteplicità di dispositivi nomadici che portiamo con noi nelle nostre quotidianità: smartphone, tablet, information/communication device.

Schiere di persone con il volto illuminato da uno schermo mentre si sostengono alle maniglie ed agli appoggi dell'autobus, effettuando i propri spostamenti e, intanto, discutendo online, organizzandosi la serata, esprimendo emozioni, visioni, aspettative, desideri. O, come succede ai più giovani, scollegati anche dallo sguardo, che rifugge spesso il contatto oculare per cercare lo schermo: per essere anche “lì” mentre sono “qui”, o per archiviare istanti fotografandoli ed registrandoli, quasi a superare l'esperienza diretta di un concerto, un paesaggio o un tramonto con la possibilità di condividerlo online, e di spostare lì la fruizione e la discussione.

Ogni spazio/tempo delle nostre città, quindi, è attraversato da moltitudini di informazioni, generate da esseri umani e da dispositivi, e capaci di interconnessioni, relazioni e interazioni di incredibile complessità.

Sono gli “-scape”, come definiti da Arjun Appadurai– ethnoscape, mediascape, technoscape, financescape, ideoscape –, a riunirsi nell'infoscape, paesaggi fluidi e ubiqui, massivamente multi-autoriali, emergenti e ricombinanti. Sono le continue espressioni che pubblichiamo tramite la nostra quotidianità, partecipando ai social network, ma anche eseguendo altri tipi di operazione, acquistando oggetti e servizi, o anche semplicemente camminando per la strada, la nostra immagine catturata dalle telecamere di sicurezza.

Come tutti i paesaggi, gli “-scape” possono essere letti, e interpretati, traendone informazioni, conoscenze, saperi, e le evidenze di emozioni, relazioni, interazioni.

Come avviene per tutti i paesaggi, risulta interessante osservare sia quello che contengono, sia le assenze, i vuoti, i buchi, quello che non contengono, o quello che contengono loro malgrado.

È nell'osservazione degli “-scape”, dell'infoscape, che ricade l'opportunità per una nuova antropologia delle città. Una antropologia ubiqua, come suggerito da Massimo Canevacci, capace di navigare lo spazio delle relazioni umane nel loro divenire fluido, complesso e ricombinante. Una antropologia metodologicamente stupita, in grado di scoprire domande nuove, sconosciute, non ancora scoperte, prima ancora di immaginare di poter fornire risposte.

In grado di abilitare una serie di possibilità del tutto inedite, una etnografia peer-to-peer, che nasce dal desiderio di riappropriarsi degli “-scape” – quasi sempre dominio di operatori e fornitori di servizi, nonostante siano il frutto dell'agire pubblico –, e di aggiungerli alla propria sensibilità: una ridefinizione complessa di spazi pubblici e privati. Oltre l'auto-rappresentazione: la performance dei saperi.

A Roma, abbiamo iniziato da questa ipotesi operativa e attivato EC(m1), il primo Ecosistema Culturale in Real Time.

Assieme all'Assessorato alla Cultura del Primo Municipio della Città di Roma, siamo partiti da una necessità: la creazione di un “censimento” di tutte le realtà romane che “fanno cultura”. Nell'eseguire il compito in modo classico, ci siamo interrogati sul senso di questa espressione: fare cultura.

Nell'era dell'informazione, la distinzione produttore/consumatore non è cosa scontata, specie con la ampia diffusione delle piattaforme di social networking.

Abbiamo creato EC(m1) con l'intento di creare una nuova geografia umana della cultura, di effettuare un salto quantico sulla possibilità di comprendere la vita culturale di una città come Roma.

Il sistema utilizza una serie di tecnologie per raccogliere in tempo reale tutte le conversazioni pubbliche che hanno luogo sui social network in tema di cultura, e generate ad interessare un territorio di interesse (in questo caso, quello del Primo Municipio della città).


Queste conversazioni vengono elaborate: classificate tematicamente, per comprendere se trattano di Musica, Cinema, Editoria, Turismo, Tradizioni, Storia, o tutte quelle declinazioni di “cultura” che abbiamo, ad oggi, definito; comprese per lo stato emozionale che esprimono, quale l'entusiasmo di un operatore culturale nel lanciare un certo evento, e la soddisfazione (o la delusione) di un fruitore dopo avervi preso parte; il posto da cui o di cui si parla, potendo capire i luoghi della cultura, gli spostamenti attraverso la città.

Queste informazioni vengono visualizzate in tre modi:

  • lo spazio, la geografia della cultura, mostrando una mappa generata in tempo reale che rappresenta i luoghi dove si fa cultura – locali, teatri, sedi di associazioni, cinema, sale da concerto –, e i luoghi dove le persone si esprimono sulla cultura – dove sono i cittadini che vanno a mostre, spettacoli ed eventi, da dove si spostano per partecipare, da dove ne parlano;
  • il tempo della cultura, mostrando la distribuzione temporale della comunicazione in fatto di cultura per come è eseguita dagli operatori, e per come agisce il pubblico, reagendo alle notizie, comunicando, esprimendo pareri;
  • le relazioni della cultura, mostrando come gli operatori e i cittadini si relazionano tra loro, collaborando, partecipando, comunicando, esprimendo pareri.

I dati vengono anche rilasciati sotto forma di Open Data, per consentire ai cittadini e agli operatori di appropriarsi dell'infoscape culturale della città in tempo reale, e di utilizzarli per posizionarsi all'interno dell'ecosistema, per comprenderne la conformazione, per trovare nuove opportunità di interazione, collaborazione e comunicazione, e per sviluppare nuovi servizi, idee e modi di attraversare la comunicazione della città.


L'ecosistema sarà visibile all'indirizzo art is open source. È ancora in fase sperimentale, e soffre del fatto di dover caricare un'enorme mole di dati, per poterla presentare ai fruitori senza perdita di complessità. Un team di designer dell'interazione stanno ottimizzando tutti gli elementi, per renderli più usabili.

Questo progetto si inserisce nell'ambito del meta-progetto degli Human Ecosystems, tramite cui stiamo disseminando questo genere di descrizione ecosistemica in varie città del mondo.

EC(m1)è stato presentato ufficialmente il 28 settembre 2013 a Roma in occasione dell’evento Cultur+Su Facebook è stata aperta una pagina per condurre un dibattito sulle possibilità offerte da queste metodologie di osservazione della città. Vi stanno partecipando operatori della cultura, artisti, appassionati, giornalisti ed altri. Chiunque sia interessato può iscriversi qui.

28 settembre 2013 (ultima modifica 30 settembre 2013)
Intersezioni ---> CITTA'
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Note:
*Professor of Digital Design at La Sapienza University of Rome, Professor of Digital Design at ISIA Design Florence, Professor of Interaction Design at IED Istituto Europeo di Design.

0020 [POINTS DE VUE] Pablo Lopez Luz | Città del Messico

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di Salvatore D’Agostino

Una città osservata da un’altura, da un terrazzo o in volo comprende tutte le possibili definizioni della stessa città attraversata dal basso. In una sola veduta la storia passata, presente e del prossimo futuro si annulla.


Il fotografo messicano Pablo Lopez Luz, con la sua macchina fotografica di medio formato, ha osservato Città del Messico ai bordi di alti palazzi, raggiungendo le cime delle montagne e sporgendosi dagli elicotteri ha ottenuto delle immagini quasi cartografiche di estremo realismo. In questo pieno infinito di case emergono le contraddizioni della smisurata città in continua espansione alla conquista di ogni spazio disponibile. Qui la nozione di paesaggio si dissolve in una distesa di umanità abitativa.

Gli studi sulla storia della pittura e fotografa messicana di Pablo Lopez Luz fanno assumere al suo ‘estremo realismo’ l’aspetto di ‘realismo magico’,* una corrente artistica che dal 1967 in poi, grazie allo scrittore Gabriel García Márquez e il suo libro ‘Cent'anni di solitudine’ ha fatto scoprire la letteratura e il mondo delle arti del sud America. Il ‘realismo magico’ offrì, al realismo inteso come pura cronaca o assoluta verità, uno scarto narrativo straniante.

La realtà fotografata da Pablo Lopez Luz con estrema precisione ci fa rimanere in sospeso, quasi senza fiato.




3 ottobre 2013
Intersezioni ---> POINTS DE VUE

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Note: 

*Il termine ‘realismo magico’ si deve al critico tedesco Franz Roh che nel 1925 sintettizò la pittura italiana degli anni venti, la realtà minuziosa dei quadri di De Chirico, Carrà, Morandi aveva cambiato il concetto di realismo come pittura di pura verità offrendo al mondo del visivo uno scarto straniante.

"Igort, The Secret Landscape": Life Under Communism

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«Initially I found Ukraine obscure; a cloud belonging to the Soviet heaven. Then I started going there more often and the foreign names that I'd been hearing at home since childhood such as Kiev, Odessa, Poltava, Sevastopol, Lviv, Yalta, became more recognizable. I started to ask myself honestly, what was life like around here during and after communism?»
The documentary about Igort, a cartoonist, starts with this quote from him. The show, filmed by Domenico Distilo [Director of Photography: Maurizio Tiella, Editor: Alberto Masi. Produced by Marco Lo Curzio; SCIARA Film Production/Media Design].
Igort tells the story of his trip to Ukraine, a sort of initiation diary that changed his life, "a sort of practical test, on the ground" to come to terms with himself, with the "communist dream" as it says in the documentary and what was left of it.
As he tells the story, he reveals his own creative journey, the idea, the notes on the diaries, books, travel, stories, visual notes taken with an old camera, notes, preparatory drawings, retouches on the computer and then finally a conversation with a French publisher. (What a beautiful comic store at around 29 minutes into the show!)

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Mexico City: View From a Helicopter, Skyscraper and More

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A city seen from a hill, from a terrace or in flight holds all the same potential definitions as the same city from the ground. In just one glance the past history, present and the near future cancel itself out.

Pablo Lopez Luz (the Mexican photographer) observed Mexico City through the lens of his normal, regular-sized camera from the edges of tall buildings, from the top of mountains and even while leaning out of a helicopter. In doing so he managed to capture some almost cartographic images of extreme realism. In this vast expanse of houses, the contradictions of an unbalanced city in continual expansion trying to conquer every available space start to emerge. Here the notion of landscape dissolves into an ocean of human dwellings.


Three new art, design & city projects you need to know about

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Galleria Occupata ("Employed" Art Gallery)

A miscellaneous group of artists from Catania came up with the idea of Galleria Occupata. The artists - who come from various different backgrounds including la Fondazione Brodbeck (The Brodbeck Foundation), BOCS (Box of Contemporary Space)", Malastrada film and the Canecapovolto Collective - have never occupied a physical space but the project proposes that the gallery would take care of the artists as if they were "employees".

Galleria Occupata was founded and is managed by artists and intellectuals; it has introduced itself dialectically on the contemporary art scene with a few programmatic one-liners:
  • Research is the only work possible!
  • Formalization is a moment of research.
  • An artist is a worker!


Mauro Francesco Minervino: Who lives in Calabria, plays with fire and has a short memory

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I am still seeking a way to get my bearings in the world. For this reason I write books that are born in the open, on the move, from a journey, from the road - books that themselves resemble journeys, roads, meetings and unforeseen encounters that arise from unusual, fragmented routes. I do this to "bring back into reality our perceptions, ever more deprived of spatial awareness, that is, of the capacity to move in a three-dimensional world". I remain convinced that in this world, by regaining the ability to see a "depth of field", through a "different spatial and perceptive ecology, our three-dimensional capacity may be revived, or at least may not be totally extinguished" (M. Belpoliti).

0011 [SQUOLA] Le prime aule del cyberspazio dal carattere europeo

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di Salvatore D’Agostino

english texts

La parola scuola è spesso un inciampo, il suo suono trae in inganno.

Non di rado viene scritta sbagliata. 
Squolaè un errore ed è il nome di questa rubrica.

Ieri Manuela Verduci, la responsabile italiana d’
iversity, mi ha inviato questa mail:
Ciao Salvatore,

i corsi (ndr iversity) sono oggi online! :) 

Abbiamo più di 100.000 studenti, il che significa che siamo la più grande piattaforma europea! e Design 101 è il secondo corso più seguito, con più di 19.000 iscritti! :)  
buona giornata :) 
In pratica «la prima aula, dall'animo italiano - come scrivevo - ma in lingua inglese, del cyberspazio (parola obsoleta che mi piace riesumare), nonché la prima cattedra MOOC italiana di design» è diventata il corso, con alcuni docenti italiani, più seguito di tutti i tempi. Il linguista Tullio De Mauro, un’analista attento all'evoluzione pedagogica della scuola, ha accolto l’avvento dei nuovi corsi con un semplice ‘arrivano i MOOC’:
«Tre grandi forze – osserva De Mauro- alimentano il ciclone (ndr MOOC):
l’insoddisfazione delle tradizionali lezioni frontali;
la speranza che la rete porti ad apprendimenti interattivi più efficienti della tripletta ascolto silente/lettura individuale/interrogazioni ed esami (che mostrino la capacità di ripetere ciò che il docente ebbe a dire);
il bisogno di internazionalità.»
Per capire meglio che cos'è un corso MOOC, ho fatto delle semplici domande piene di curiosità a Manuela Verduci e, nel frattempo, mi sono iscritto ad un corso per sperimentare su me stesso il nuovo insegnamento; seguendo ciò che il Times ha suggerito di fare con i suoi giornalisti perché, per capire ciò che sta avvenendo bisogna, in questo caso, tornare tra i banchi di scuola, seppur virtuali.








Salvatore D’Agostino Come sei arrivata a Berlino?

Manuela Verduci Dunque, sono arrivata a Berlino circa due anni fa, per un Erasmus. Avevo intenzione di imparare il tedesco per poter intraprendere una carriera da ricercatrice in Italia (il tedesco è una lingua fondamentale per lo studio della Filosofia). Ma non avevo fatto i conti con Berlino. Non voglio dipingere questa città come un eden delle opportunità, com'è di moda fare ultimamente. Non è tutto oro quello che luccica. Ma la verità è che l’atmosfera berlinese non è inquinata da quel fatalismo pluridecennale made in Italy che soffoca le iniziative sul nascere. Mi sono imbattuta in iversity, una giovane startup piena d’idee per rivoluzionare il mondo dell’istruzione universitaria e traghettarlo finalmente nell'era digitale. Avevamo poco budget e una marea d’idee. Oggi - dieci mesi dopo - siamo la prima piattaforma MOOC d’Europa. Io mi occupo delle relazioni con l’accademia italiana. 

'Avevamo' significa che sei una delle 'autrici'' d’iversity?

I fondatori d’iversity sono Hannes Klöpper e Jonas Liepmann, due giovanissimi ragazzi tedeschi. Iversity nasce nel 2008, come piattaforma online per le università. Oggi il suo amministratore delegato è Marcus Riecke. Circa un anno e mezzo fa, quando è esploso il fenomeno MOOC negli Stati Uniti, iversity ha iniziato a muovere i suoi primi passi nell’impresa di produrre e offrire Massive Online Open Courses nel vecchio continente, ripensando il formato dell’istruzione online partendo da una prospettiva europea. Ho avuto la fortuna di arrivare al momento giusto per veder nascere quest’idea e contribuire a svilupparla, insieme al team d’iversity. 

Gli sviluppatori d’iversity



Il progetto era molto ambizioso: ridisegnare gli strumenti didattici del presente, a partire dalla consapevolezza dell’enorme potenziale offerto dalla rivoluzione digitale degli ultimi anni. I 100.000 e più studenti che abbiamo raggiunto già alla vigilia del lancio ci incoraggiano a pensare che abbiamo fatto davvero un buon lavoro.

Quali sono ‘gli enormi potenziali offerti dalla rivoluzione digitale' per iversity?

L’esperienza dell'apprendimento ne esce completamente rinnovata: i MOOC non sono, infatti, semplici lezioni filmate: la lezione frontale classica da 90 minuti è spezzata in brevi video. Mini quiz intermedi forniscono costantemente feedback allo studente sul livello di comprensione, e si può personalizzare il percorso, a seconda delle proprie esigenze e competenze. I MOOC richiedono un altissimo livello di coinvolgimento attivo dello studente e offrono nello stesso tempo grande flessibilità: basti pensare alla possibilità di riguardare un video più volte, o metterlo in pausa per fare degli approfondimenti, o riconsultarlo settimane dopo. Come un normale corso universitario, i MOOC hanno una data d’inizio e delle scadenze, e nello stesso tempo permettono allo studente di gestire autonomamente il proprio tempo. Inoltre, si ha l’opportunità grandiosa di confrontarsi e discutere con una comunità internazionale di studenti, con differenti background culturali e sociali. Questi sono solo alcuni dei vantaggi che mi vengono in mente. Last but not least: i MOOC sono il miglior supporto per le flipped classroom, perché danno la possibilità di dedicare il tempo che in aula alla discussione e al lavoro di gruppo, invece che passivamente, alla lezione frontale.

Perdona la domanda, che cos'è una flipped classroom?

:) dunque, una flipped classroom è un modello d’insegnamento invertito rispetto a quello tradizionale: a casa, si seguono le lezioni grazie a supporti multimediali - come i MOOC ;) - e si utilizza il tempo in classe per la discussione e il lavoro di gruppo. Molto più produttivo!

Manuela non ti arrabbiare, dove si trova la classe? come si lavora in gruppo?

:) Nelle università di tutto il mondo. Ti faccio un esempio: sulla piattaforma abbiamo un corso di filosofia politica, un'introduzione. Ora, metti caso che io e te siamo due studenti di filosofia, tu a Catania e io a Berlino. Possiamo entrambi seguire le lezioni del Prof. Cerutti, che è un rinomatissimo professore di filosofia dell’Universitá di Firenze e poi utilizzare il tempo in classe per discutere ciascuno con il proprio professore e con i propri compagni di studio. 

In pratica i ragazzi che seguono i corsi nelle loro università, quelle fatte di muri, finestre e porte, utilizzano la classe - e i professori - di Catania o Berlino per frequentare un corso 'online'? 

Esatto, questo nel modello della flipped classroom, che è un modello possibile. I MOOC però sono utilizzabili anche al di là di quest’applicazione. Ad esempio, per permettere a tutti coloro che non possono avere accesso a un’istruzione universitaria di qualità (per mancanza di tempo o di risorse economiche) di formarsi ugualmente nelle migliori università d’Europa e del mondo. 

Come si ottengono i crediti formativi?

È possibile ottenere crediti formativi già solo frequentando un MOOC. Alla fine del corso, puoi recarti nella sede dell’Università che l’ha offerto online e sostenere l’esame di presenza. La tua università poi dovrà riconoscere i crediti formativi. Secondo il modello comune europeo, in pratica utilizzando il sistema di cui già oggi usufruiscono gli studenti Erasmus di tutta l’Europa. 

Quindi, lo studente si deve recare a Firenze per il corso di 'Introduzione di filosofia politica' del professore Furio Cerutti o a New York per il corso di 'Architettura contemporanea' del professore Ivan Shumkov?

Esatto, anche se con queste università non abbiamo ancora accordi precisi. È una conquista giovane, in fase di sviluppo. Ma con due università tedesche abbiamo raggiunto già degli accordi: trovi tutto nel penultimo comunicato stampa d’iversity.

I corsi per i centomila nuovi studenti sono tutti gratuiti?

I corsi sono tutti assolutamente gratuiti, accessibili a tutti, da ogni parte del mondo. Tutto quello di cui si ha bisogno è una connessione internet e sete di conoscenza :)

Come pagate i professori dei corsi, il vostro lavoro, l'evoluzione dei software e il dominio web? In pratica, come vi finanziate?

Il progetto d’iversity è stato finanziato, nella sua fase iniziale, da fondi dell’Unione Europea, dal governo tedesco e da diversi investitori privati. Partner cruciale d’iversity è stata la Stifterverband für die Deutsche Wissenschaft, una prestigiosissima fondazione accademica tedesca che investe nell’innovazione per l’università. La Stifterverband ha finanziato in parte la MOOC Fellowship attraverso la quale gli studenti hanno avuto l’opportunità di selezionare - tra i 500 partecipanti - i MOOC più interessanti, che abbiamo poi finanziato e prodotto. Oggi sono tutti online! 

In una seconda fase del progetto, che è già alle porte, ci finanzieremo attraverso la richiesta di una piccola tassa per sostenere l’esame finale e ottenere una certificazione. Bada bene: i corsi restano gratuiti e fruibili da tutti, la tassa serve a pagare le spese per l’organizzazione degli esami di presenza e a garantire un´entrata per le università - e per noi naturalmente. 

Lo scrittore e giornalista statunitense Thomas Frank in un recente articolo sulla crisi delle università americane s’immagina che: 
«I professori continueranno a perdere prestigio e potere, e saranno sempre più sostituiti da personale precario. Un sistema tutto basato sulle celebrità, reso possibile dai corsi online o da qualche altro espediente, alla fine provocherà l’estinzione in massa dei veri docenti.»*
Vaneggia?

Non vaneggia, è un problema di prospettiva. L’allarme per la perdita di prestigio e potere suona alle mie orecchie come la paura del barone di perdere il suo posto al sole. Questo sistema non è basato sulla celebrità, bensì sulle capacità di comunicazione del docente, sul suo talento nel trasmettere il sapere, talento che diviene con i MOOC finalmente misurabile. Visto che hai citato Internazionale, ti invito a leggere questo articolo di De Mauro, che richiama alla necessità di valutare le capacità del docente di mettere la conoscenza a disposizione dello studente.

La mia opinione personale è che dobbiamo imparare a distinguere lo scienziato, lo studioso, il luminare dal professore. Sono due mestieri differenti. 

«Forse i mooc e iversity - come afferma De Mauro nell'articolo che hai segnalatoaiuteranno» le università a liberarsi dai cattivi insegnanti. Allora, ben arrivati.

Grazie! Faremo del nostro meglio.
Ci incontriamo su iversity.org :)

16 ottobre 2013

Intersezioni ---> SQUOLA
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Note:
* Thomas Frank, Liberare l’università, Internazionale, n. 1019, 27-09/3-10 2013, p. 45

The first european classrooms in cyberspace

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Yesterday Manuela Verduci, the Italian member of the iversity management team, sent me the following email:

"Hi Salvatore,
The [iversity] courses are online! :-)
We have more than 100,000 students, which means we are the biggest platform in Europe!
Design 101 is the second most popular course, with more than 19,000 signed up :-)
Have a nice day :-)"

In fact, as I wrote, "the first Italian-inspired course - though in English - in cyberspace (an obsolete word that I'm happy to exhume) and the first Italian MOOC (massive online open course) faculty in design" has become the most followed course of all time, with several Italian teachers. The linguist Tullio de Mauro, an expert analyst of the development of teaching establishments, greeted the arrival of the new courses simply by saying: "Here come the MOOCs."

De Mauro observed: "Three major forces drive the whirlwind that is the MOOC: 

1)  dissatisfaction with traditional face-to-face courses;
2) the hope that the Internet can bring interactive learning that is more effective than listening/solitary reading/orals or written exams (which simply demonstrate the ability to repeat what the teacher had to say);
3)  the need to be international."

0027 [CITTÀ] Lucia Tozzi | Fondare città - Archeologia della new town

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di Lucia Tozzi

Charley in New Townè un cortometraggio di animazione promosso dal COI - Central Office of Information - del governo britannico nel 1948. L’uomo medio Charley, sfinito dalla vita alienante della metropoli, decide di andare a vivere in un luogo più salubre, tra alberi, biciclette e vicini cordiali. Potrebbe essere nell'America di Roosevelt come nella Mumbai contemporanea. L’elemento che lo rende esotico è che il suo trasferimento non riguarda una generica area rurale o una gated community, ma una New Town pianificata nell'interesse collettivo.


   Il modello promosso dal cartone animato governativo era quello definito dal New Towns Act (1946), che rielaborava le città giardino di Ebenezer Howard adattandole all'era del welfare e della ricostruzione postbellica. Queste celebratissime New Towns inglesi erano il prodotto di un pensiero molto evoluto, che affrontava la congestione urbana evitando a un tempo i tappeti di villette dei suburbi e il ricatto della densificazione selvaggia, dando priorità alla questione dei trasporti e dei servizi e garantendo una complessità relazionale sconosciuta alle soluzioni imposte nei decenni a venire dagli esiti più ottusi del modernismo. Questo non significa che quelle città o le loro imitazioni sparse per il mondo siano le più belle, le più intelligenti, le più radicali sotto il profilo urbanistico mai concepite, anzi. E tuttavia incarnavano ideali egualitari e redistributivi che forse nessun progetto successivo, per quanto eccelso, ha più potuto o voluto incarnare.


   Gli anni Sessanta e Settanta hanno prodotto delle città che nel migliore dei casi manifestavano un eccesso di disegno, di astrazione, di determinismo sociale, di carica utopica, ma spesso erano semplicemente piatte riproduzioni di uno standard privo di qualità (i tanto deprecati casermoni). Dagli anni Ottanta in poi invece la pianificazione di nuove città ha abbandonato ogni velleità egualitaria, per mettersi al servizio del mercato immobiliare. Come racconta Federico Ferrari in La seduzione populista (Quodlibet, 2013), la pianificazione viene in quegli anni subordinata al marketing, all'imperativo di «ciò che piace alla gente» - in funzione del guadagno privato, naturalmente, e non dell’interesse collettivo. Celebration, la città fondata in Florida dalla Walt Disney (detta anche Mickey Mouse Utopia), è uno dei simboli più importanti di questo cambio di paradigma: voluta da una corporation e non da un’istituzione pubblica, è un’enclave omogenea di ricchi bianchi.


Celebration, Florida

   Sul piano estetico è una giustapposizione di case in stile che ciascun acquirente ha potuto scegliere da un catalogo: la Mediterranea, la Vittoriana, la Coloniale, etc., mentre le regole della convivenza tra i suoi abitanti sono decise dall'immobiliare piuttosto che dalle leggi comuni. Mentre la retorica neoliberale demonizzava la pianificazione urbana, frutto del razionalismo modernista, attribuendole un’azione invariabilmente nefasta nei riguardi delle libertà individuali e del senso estetico comune, di fatto le grandi società immobiliari avocavano a sé il diritto di pianificare le città plasmandole intorno ai propri interessi, e lasciando agli individui lo spazio ristretto della scelta legata al puro consumo. 


   La quasi totalità delle New Towns sorte negli ultimi trent’anni è conforme a questo modello, peraltro non meno seriale del canone modernista – a Dubai o nei satelliti di Shanghai si trovano le medesime case in stile messicano o toscano, un vernacolo standardizzato. E, fenomeno ancora più inquietante, sono moltissime, ma la maggior parte della popolazione mondiale non ne sospetta l’esistenza. L’attenzione globale è distratta, mentre le terre si affollano di nuovi centri urbani distopici. 

   Un gruppo olandese di storici dell’architettura, Crimson, in collaborazione con INTI (International New Town Institute), ha analizzato questa situazione in un progetto intitolato The Banality of Good, indagando tra le altre cose il ruolo che architetti e urbanisti hanno avuto in questo processo. «La posizione dell’architetto è cambiata radicalmente in 60 anni di pianificazione: da un ruolo discreto ma di un certo peso dietro le quinte a una grande visibilità come designer di icone ed edifici commerciali che interviene solo nelle ultime fasi. La pianificazione delle nuove città in sé è diventata roba da burocrati e ingegneri. Gli architetti non vengono neppure consultati sulla struttura e gli obiettivi».


   È possibile invece, si chiedono i Crimson, un rinnovato coinvolgimento in un processo di così ampie proporzioni? Bisogna decretare il fallimento definitivo delle politiche di welfare urbano espresso dalle New Towns postbelliche o invece si può tentare di cambiare il corso progettuale di centinaia di future città dirottandolo verso un maggiore benessere dei milioni di abitanti che le popoleranno? 

   Una simile ostentazione di fiducia nel potere benefico, quasi salvifico, della progettazione urbana è il segno dell'olandesità dei Crimson. L’idea (positiva, dal mio punto di vista) che si possa tornare a pianificare delle città nuove inclusive, in funzione del principio di uguaglianza invece che della segregazione sociale imposta dal marketing urbano, non può che provenire da uno dei pochissimi paesi al mondo dove il welfare resiste ancora – benché a fatica, e con mille contraddizioni –, e soprattutto dove si continuano a fondare città che potremmo definire “innocenti” o “miti”. Meglio ancora, più che le città in sé è il movente della loro fondazione ad apparire meno aggressivo, meno violento rispetto alle altre città di fondazione: nei Paesi Bassi si creano nuove città perché ci sono i nuovi polder, perché continua quell'opera secolare di sottrazione di spazio all'acqua che ha impregnato la sua cultura, e il loro scopo primario è fornire nuovo spazio da abitare e da vivere per gli abitanti, in maniera non dissimile dalle New Towns inglesi. 

   La fondazione delle città nel mito e nella storia anche contemporanea è invece quasi sempre un atto di grande violenza materiale e simbolica. Frutto dell’espansione coloniale, di una volontà di propaganda o di brame capitaliste, e il più delle volte di differenti combinazioni di questi elementi, le fondazioni sono un affare di sangue. Da Romolo e Remo agli insediamenti israeliani in Cisgiordania, dai massacri nelle Americhe ai milioni di lavoratori in stato di semischiavitù che stanno costruendo le metropoli cinesi e mediorientali, lo scenario non è quello di una pacifica cooperazione tra Hobbit, ma di un’aggressione. E anche i casi più solenni e apparentemente inoffensivi come la pianificazione di nuove capitali amministrative e politiche, di cittadelle utopiche prodotte da comunità di hippy o da sette religiose, sono carichi di valenze tutt'altro che innocue. 

   Ma ha senso pensare di democratizzare un processo violento attraverso una prestazione professionale, una competenza culturale estranea al contesto politico che l’ha generato? Un piano eccellente potrebbe forse attutire l’orrore dell’occupazione israeliana o di un regime autoritario o dello sfruttamento capitalista? La risposta è no, e in queste pagine il saggio di Hou Hanru sulle nuove utopie antiurbane cinesi e le riflessioni di Gianluigi Simonetti sulla vita nelle New Towns aquilane ne sono una conferma esemplare (ndr si possono leggere sulla rivista Alfabeta2, n, 27, marzo 2013, pp. 16-18).

   Per riproporre l’archetipo benevolo delle New Towns gli architetti da soli servono a poco, bisogna prima riappropriarsi del welfare e di una cultura politica. E poi possiamo inventarci le nuove città.


23 ottobre 2013

Intersezioni ---> CITTA'

COMMENTA
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Nota:
quest'articolo è stato pubblicato con il titolo 'Fondare città - Archeologia della new town' su Alfabeta2, n° 27, marzo 2013, p. 16.* Rieditato per Wilfing architettura grazie al consenso dell'autrice.

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