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Lucia Tozzi | Founding cities: Archaeology of the new town

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   Charley in New Town is a short animated film created by the British government's Central Office of Information (COI) in 1948. Charley - an "everyman" - is weary of the alienating life of the big city and decides to head for somewhere more salubrious, with trees, bicycles and friendly neighbors. It could be Roosevelt's America, or Mumbai today. What makes it original is that his move isn't to some generic rural area or gated community, but to a new town, designed with the common good in mind.


   The model put forward by this government cartoon was that set out in the New Towns Act(1946), which adapted Ebenezer Howard's "garden city" concept to an age of welfare and post-war reconstruction. These widely celebrated English new towns were the result of highly advanced thinking that tackled urban congestion by eschewing both suburban sprawl and uncontrolled high-density development. They gave priority to transport and services, offering a relational complexity that is lacking in the solutions imposed in subsequent decades by the dullest products of modernism. This is not to say that those towns, or their imitations scattered around the globe, are the most attractive, intelligently conceived, or most radical from an urban planning point of view - far from it. Nevertheless, they embodied ideals of egalitarianism and redistribution of wealth that no project since, however outstanding, has managed - or even aimed - to embody.


0021 [POINTS DE VUE] Steve Bisson | Viaggio in Italia?

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di Salvatore D’Agostino

   Nel 1954 usciva nelle sale cinematografiche ‘Viaggio in Italia’ di Roberto Rossellini. Nel film una coppia inglese, Alex e Katherine Joyce, durante un viaggio in auto in Italia è costretta a ritrovare il dialogo, ormai rovinato dalla reciproca indifferenza. L’abitacolo diventa il loro forzato confessionale, mentre il paesaggio italiano scorre non osservato attraverso i finestrini. Rimasti intrappolati, a causa di una festa religiosa in un paese campano, sono costretti a scendere dall'auto e strattonati dagli eventi aprono gli occhi sulla realtà, se pur umanamente diversa dalla loro cultura, che li circonda. Un miracolo della vista apre gli occhi chiusi dall'indifferenza.

   Nel 1984 Luigi Ghirri invitava venti fotografi ad attraversare l’Italia «dove non c’è niente da vedere», come scriverà Gianni Celati, per osservare l’Italia che non veniva rappresentata dalle immagini del bel paesaggio da cartolina o dalle foto spendibili e sensazionalistiche dei paparazzi, come lì definì Federico Fellini. Ghirri intitolerà la mostra e il libro ‘Viaggio in Italia’ aprendo gli occhi verso un paesaggio dove i cultori dell’estetica e del bel paese non sarebbero mai andati.

   Nel 2014 Steve Bisson ai ‘viaggi in Italia’ precedenti ha aggiunto un punto interrogativo. Ha invitato un gruppo di fotografi, artisti e amici a fermarsi per tracciare un pensiero a mano libera sulla fotografia e sul paesaggio senza utilizzare apparecchi fotografici. Facendosi inviare per posta gli appunti per un’installazione dal titolo ‘Viaggio in Italia?’ del 2014. Un invito ad aprire gli occhi sul paesaggio ‘presente’ senza mediazioni visive.

   In questi giorni, fino al 10 novembre 2013, è possibile vedere un’anteprima dell’installazione presso la Galleria Browning di Asolo. Di seguito, ho estratto dall'anteprima qualche ‘pensiero a mano libera’:



La traccia del progetto curatoriale di Steve Bisson

   Nel 1984, 30 anni dopo il celebre film di Roberto Rossellini con Ingrid Bergman e George Sanders ‘Viaggio in Italia’, il fotografo Luigi Ghirri, con lo stesso titolo, inaugura il progetto che segna la storia della fotografia e della ricerca sul paesaggio italiano. All'indagine partecipa un folto gruppo di fotografi da Gabriele Basilico a Olivo Barbieri, da Guido Guidi a Vincenzo Castella per citarne solo alcuni. Questi autori hanno segnato un momento di discontinuità fondamentale nel modo in cui il fotografo si rapporta al territorio, influenzando nei decenni successivi intere generazioni, non solo di fotografi.

   A distanza di altri 30 anni, vale la pena interrogarci su dove questo viaggio ci ha portato, ma ancora di più su dove stiamo andando?

   Quale è il futuro? 

   Friedrich Nietzsche oltre un secolo fa ci ha avvertito, prospettando il nichilismo, che Dio è morto, nel senso che Dio non fa più mondo, e quindi collassa l’ottimismo alla base della cultura occidentale perché il futuro non è più una promessa, è imprevedibile e forse addirittura una minaccia. E allora si vive in un eterno presente perché lo sguardo al futuro è angosciante e il rischio esistenziale è di rotolare verso un infinito nulla. Non c’è nulla in realtà di più attuale se penso all'Italia in cui vivo e ai più giovani di me. Se è vero che oggi viviamo una cultura nichilista che non ha più nulla a che vedere con il futuro, la cosa importante, come Heidegger ha suggerito, non è di metterla alla porta ma di guardarla bene in faccia. Nessuna rassegnazione ma volontà di prenderne atto. Ed è questa l’attitudine che ereditiamo da Ghirri e da altri fotografi consapevoli. La critica consiste nella problematizzazione dell’ovvio, che in termini di “paesaggio”, significa mettere in crisi, non accontentarsi di ciò che si vede.

   Per questa ragione occorre prendere coscienza della situazione in cui viviamo, e della novità principale che l’uomo non è più il soggetto della storia ma è stato deposto dalla tecnica, forma più alta di razionalità, superiore anche all'economia che ancora soffre di una passione, quella del denaro. L’età della tecnica è stata anticipata intuitivamente da Hegel che ha scritto che quando un fenomeno aumenta quantitativamente provoca una variazione qualitativa del paesaggio. Con Marx possiamo dire che la tecnica da mezzo è divenuta fine. Oggi non si capisce più quello che è bello o sacro, bensì ciò che è utile. I processi decisionali, la democrazia, si è spostata dalla politica all'economia, e da questa alla tecnica. 

   Per tutto ciò non resta credo che interrogarci se siamo tutti incompetenti rispetto al futuro, e alla complessità di informazioni che la digestione tecnologica comporta. Il rischio in un tale scenario è davvero quello di decidere solo sulla base di fattori retorici? Come uomo e come curatore sento la necessità di una pausa interiore, ma anche di un confronto esteriore. Perciò ho studiato per il 2014 una installazione che porterà ancora lo stesso titolo ma con un punto di domanda ‘Viaggio in Italia?’, un po’ per allacciarsi al passato e un po’ per rivolgersi al futuro. Adottando nuovamente un metodo condiviso, ho invitato un gruppo stimato di fotografi, artisti e amici italiani a portare un proprio pensiero sulla fotografia e il paesaggio. 

   Cosciente che il modo di porre una domanda spesso determina la risposta, ho chiesto loro di mettere da parte la macchina fotografica e di tracciare questo pensiero a mano libera, stando fermi in qualche modo. Un gesto più antiquato rispetto al click di una macchina, ma forse meno iscritto in uno sguardo scientifico. Provocatoriamente ho chiesto poi a ciascuno di inviarmi una cartolina postale senza troppo pensare, estraendola da quell'immaginario confuso che è il paesaggio italiano.


6 novembre 2013
Intersezioni ---> POINTS DE VUE

Salvatore Iaconesi | Infoscapes: Emerging Human Ecosystems

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By Salvatore Iaconesi


A cultural ecosystem for Rome: here is a new geography composed of atoms and bits. We have created an observation platform for a new anthropology of the city.

We find ourselves amid a strange normality.

I'm immersing myself in the streets of Rome, focused on getting to the places where I have errands today and intent on observing the intense physicality of this city. As a result, I'm constantly running the risk of walking into people, slipping while getting off a crowded tram or simply getting lost in the fascination of turning off into a narrow street in the old center instead of heading straight for my destination.

I feel a vibration... and everything changes. Although physically I remain in the same place, I'm somewhere else. I glance at my smartphone, which has notified me of a new message and I am in another place. It is hard to describe. I'm still there - at a crowded intersection by Largo Argentina (a square in Rome's old center, full of ancient ruins), trying to avoid being run over by a car as I cross the street along with many other people. But I am also elsewhere.

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... a proposito di nuova generazione, un viaggio dietro l’Italia del telegiornale e A.M.O. Venezia ...

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di Salvatore D’Agostino

... a proposito di nuova generazione, 
ci sono quattro parole passepartout, usate per comunicare bene e in fretta, che in questo inizio del ventunesimo secolo dovrebbero essere cancellate dal vocabolario, eccole:
  • ‘Festival’ e il suo epigono ‘evento’;
  • ‘Workshop’ ovvero lezioni istantanee su tutto;
  • ‘Nuova generazione’ e la speculare, ma glamour ‘new generations’;
  • Under x, y, z per fissare una barriera ‘evolutiva’ alle idee fresche e innovative.
Queste quattro parole li trovate al Festival NEW GENERATIONS che si terrà a Milano il 28, 29 e 30, ma non fatevi ingannare dalla mia introduzione perché i curatori Gianpiero Venturini e Carlo Venegoni hanno selezionato i migliori studi di architettura osservando, non l’Italia delle regioni, ma l’Italia come regione dell’Europa. Tutti gli interventi avranno il pregio della sintesi, poche ma chiare benedette idee, evitando così l’effluvio incontrollato, spesso zeppo di opinioni personali, dei convegni del ventesimo secolo.
Qui, se sei interessato, trovi il programma.






un viaggio dietro l’Italia del telegiornale, 
si è appena concluso intraverso 2013, il viaggio di @immaginoteca (Francesco Cingolani) e farine00 (Valentina Brogna), nato da un’idea di Nelle tasche del tricheco (Fabio Curzi) «che ha attraversato le Marche a piedi, su sentieri poco battuti, e che essendo un po’ introverso aveva battezzato il suo viaggio così: “intraverso”.»

Francesco e Valentina hanno percorso l’Italia alla scoperta di luoghi e idee in cerca di un’altra Italia, come scrive Valentina: l’Italia dell’«altro lato del telegiornale».
Fuori dall’inconcludenza e dall’enfasi giornalistica della ‘notizia’, hanno trovato persone che sembrano aver rifiutato qualsiasi dialogo con la generazione dei padri. Padri, secondo loro, colpevoli di aver pensato alla ricchezza immediata, soldi facili e subito, a discapito di qualsiasi valore sociale e distruggendo qualsiasi prospettiva ai propri figli. Nel loro viaggio, si sono ritrovati a dialogare con ‘nuovi partigiani’ simili nell’intento agli ideali dei loro vecchi, e forse mai conosciuti, nonni capaci di lottare per la libertà preservando una relazione con il territorio e un’idea per un futuro condiviso. Si sono trovati di fronte una generazione che sente la responsabilità di costruire il proprio futuro per sé e per i propri figli.

Hub Firenze (Riccardo), Gnammo (Gianluca), Il panificio Davide Longoni, Libreria Gastronomica Malafarina. (Anna), Cene sociali - Frigoriferi Milanesi (Antonietta), Il Tango delle Civiltà (Anna), Pizzarium (Gabriele), The fooders (Marco e Francesca), I Ciclonauti (Francesca), Scup, Officine Libetta (Romina e Pietropaolo), WOOF, (Doris), Open bosco (Alex), Casanatural (Andrea e Mariella), empty space (Antonio e Anna) sono i nomi (per fortuna oggi non servono più i cognomi, ma i propri siti web) di un’Italia che non non ha più nulla da condividere con le parole vuote, sentite e spesso urlate, alla televisione; sono uomini e donne pratici che amano sporcarsi le mani, aperti, istintivi, sociali e sanno bene che il web è una bacheca dove scambiare e condividere idee non solo nel virtuale ma anche nel reale; in tre parole: ‘dialogo con la natura, sacrificio e semplicità’ ma per capire meglio ti suggerisco di leggere gli appunti di viaggio di Valentina:The tour of Italy by Farine Zero Zero.

Domenico and Anna drawing the future…




A.M.O. Venezia …
non è la succursale del ramo concettuale dello studio O.M.A. di Rem Koolhaas a Venezia ma ‘A.M.O. Venezia’, sta per ‘Ancient Maps Of Venezia’ ed è un app gratuita elaborata dal Laboratorio di Cartografia e GIS dell’Università Iuav del professor Francesco Guerra. L’app permette di visualizzare le trasformzioni urbane di Venezia attraverso le sue mappe storiche, provenienti dall’archivio di Cartografia e GIS Iuav.
Al momento si possono percorrere cinque mappe: De Barbari 1500, Combatti 1846, Querci ed. 1887, fotopiano 1911 e fotopiano 1982.
«L'APP - come afferma il comunicato stampa -consente di muoversi oggi in uno spazio antico documentato e rappresentato nella mappa. Questo permette di sapere che cosa c’era in passato, punto per punto, lungo il cammino dell'utente. La navigazione può essere orientata dal sistema GPS, ma può essere anche statica: per muoverci tra le mappe non siamo costretti a camminare assieme a loro, ma possiamo rimanere fermi e voler vedere/studiare la mappa muovendola liberamente sotto i nostri occhi. Possiamo spostarci in punti precisi e poi vedere altre mappe mantenendo inalterato l'inquadramento definito.»
Sarebbe interessante registrare ogni giorno approcci così validi e condivisi da parte delle università italiane.


22 novembre 2013
Intersezioni --->...a proposito di...


A Journey through an Italy You Don't See on the News

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[...] You will find these four words at the New Generations festival held in Milan on November 28, 29, and 30, but do not be deceived by my introduction, because the curators, Gianpiero Venturini and Carlo Venegoni, have chosen the best architects' studios observing, not the Italy made up of different regions, but Italy as a region of Europe. All the speeches will be pithy and to the point, with a limited number of clear ideas, thus avoiding the verbal diarrhea, often full of personal opinions, of 20th-century conferences.

[...] these are the names (and luckily today we don't need their surnames, only their web addresses) of an Italy that shares nothing with the empty, often shouted words of television. These are practical men and women who love to get their hands dirty: open, instinctive, social. They know full well that the web is a notice-board where ideas can be exchanged and shared not just in the virtual world but in the real one as well. Their approach can be summed up as "dialogue with nature, sacrifice and simplicity".

[...] A.M.O. Venezia ... is not the Venice branch of the conceptual arm of the Rem Koolhaas's O.M.A. studio. "A.M.O. Venezia" stands for "Ancient Maps of Venice". It's a free app developed by Venice university's cartography and geographical information system under Professor Francesco Guerra. The app enables you to see the changes that have taken place in Venice through historic maps from the cartography and geographic information system.


0052 [SPECULAZIONE] Alberto Pugnale | Engineering Architecture: come il virtuale si fa reale

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di Salvatore D'Agostino 
«Dopo un lungo periodo di progressiva separazione, con lo sviluppo delle tecnologie informatiche architettura e ingegneria si stanno gradualmente riavvicinando. È un fenomeno che ho qui semplicemente tentato d’introdurre e che personalmente chiamo ‘Engineering Architecture’.» (Alberto Pugnale)
Engineering Architecture è un termine che Alberto Pugnale ha cesellato in questi anni di esperienza didattica e lavorativa, attraverso un’accurata analisi dello sviluppo storico delle tecnologie e una ricca comparazione con testi ed esperienze globali.

Engineering Architecture chiarisce tre aspetti (ma ce ne sono molti altri):

  • il primo spiega molti termini nati con l’uso delle tecnologie informatiche attraverso un’attenta ricostruzione storica;
  • il secondo ci aiuta a diffidare dei neologismi che cercano di incasellare le diverse esperienze delle tecnologie informatiche in architettura e ingegneria;
  • il terzo c’invita a non classificare i processi storici attraverso nette separazioni concettuali tra l’era attuale e quella storica.
Ringrazio il professore Alberto Cuomo per aver acconsentito alla pubblicazione di questo saggio scritto per la rivista da lui diretta ‘Bloom’, n.14, settembre/ottobre/novembre 2012.*





ENGINEERING ARCHITECTURE: COME IL VIRTUALE SI FA REALE

   Negli ultimi vent'anni l’impatto del digitale in architettura è cresciuto esponenzialmente, manifestandosi nei ‘BLOB’ informi di Greg Lynn1, come anche nelle cosiddette ‘free-form’ dei NOX2. L’aggettivo ‘free’ identifica la libertà di generare forme architettoniche a prescindere da ogni principio compositivo, statico o costruttivo, e si estremizza, ad esempio, nella ‘trans-architettura’ puramente virtuale di Marcos Novak3. Il computer insidia il lavoro concettuale del progettista come la realizzazione delle sue opere. Attraverso la fabbricazione a controllo numerico, il ‘file-to-factory’, il gruppo Objectile4 sfida la produzione seriale dell'industrial design. Così un unico modello digitale parametrico si concretizza in molteplici variazioni spaziali uniche, sempre nuove.

   Già citando questi pochi esempi, probabilmente i più conosciuti tra quelli esposti al Centre Pompidou di Parigi nel 2003-4, in occasione della mostra “Architectures non-standard5, si evidenzia l’intrinseca difficoltà nell'inquadrare teoricamente e storicamente l’uso di tecnologie digitali in architettura.

   L’eterogeneità dei progetti sperimentali coinvolti è etichettata dai curatori Zeynap Mennan e Frédéric Migayrou con il termine ‘non-standard’. Originariamente coniato da Bernard Cache del gruppo Objectile con riferimento alla fabbricazione a controllo numerico di elementi diversi6, cioè non seriali, allo stesso costo progettuale e costruttivo di quelli comunemente standardizzati, è qui semplicemente usato per richiamare la natura organica dei lavori esposti7.


   Il ‘non-standard’ si presta però a un’interpretazione anche più specifica, che tende a far risaltare le peculiarità e le diversità dei progetti sviluppati con l’ausilio di computer, ma non ne preclude necessariamente una lettura in continuità con periodi e movimenti architettonici passati.


   Gli approcci di critici e riviste di settore come “Architectural Design”, che invece coniano nuove etichette per il fenomeno del digitale a un ritmo incessante8, come architettura generativa, evolutiva e il ‘performative design’, fanno pensare all'informatizzazione come a una pesante massa omogenea catapultata improvvisamente sull'architettura dal nulla. Sono termini che rivendicano una distanza dal passato e ne ignorano le eventuali interrelazioni.


   L’integrazione di tecniche informatiche nelle varie fasi progettuali e costruttive si radica nell'architettura stessa passando attraverso i suoi specialismi. Ricerca e innovazione ne scrivono gradualmente la storia. È un intreccio complesso che attraversa l’ingegneria strutturale e il disegno industriale, ispirandosi a campi apparentemente lontani dal mondo delle costruzioni, come l’intelligenza artificiale e il cognitivismo.



   Alcune brevi storie possono guidarci nell'impresa di sbrogliarlo, mettendo in risalto i dettagli di vicende originariamente separate, purtroppo sempre più accorpate sotto la generica etichetta ‘digitale9.

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  Il Computer-Aided Design (CAD) automatizza il lavoro paziente e preciso della rappresentazione tecnica. Non si predispone per sua natura a stravolgere le fasi concettuali del progetto, ma facilita e velocizza il flusso di lavoro, diffondendosi a macchia d’olio negli studi professionali. Acquisito direttamente dal mondo della meccanica, si colloca cronologicamente agli albori dell’informatizzazione in architettura, ed erroneamente si tralasciano alcuni importanti tasselli, antecedenti il rilascio dei principali software commerciali datati Ottanta e Novanta.

   Nello studio americano SOM (Skidmore, Owings and Merrill) i computer iniziano, infatti, a popolare il settore amministrativo già negli anni Cinquanta. Nell'arco di un decennio si allargano poi al gruppo progettuale, che vanta l’acquisto di un IBM-1620 da dedicare a studi strutturali complessi ed energetici degli edifici.


   Architetti e ingegneri messi di fronte a rudimentali calcolatori privi di programmi seppero immaginare, più liberamente di oggi, come sviluppare una sinergia con i loro nuovi e inseparabili compagni di viaggio.

   Col supporto di programmatori ed esperti d’informatica, tra i quali il partner Douglas Stoker, nonché con accordi direttamente stipulati con IBM, il gruppo di SOM, capitanato da Bruce Graham e dall’ingegnere Fazlur Khan, concepisce poi negli anni Ottanta un programma denominato Building Optimization Procedure (BOP), volto all'abbattimento dei costi di costruzione degli edifici.

   Concettualmente, è un rozzo predecessore dei software che oggi chiameremmo Building Information Modeling (BIM)10, i quali attraverso un unico modello tridimensionale ‘ricco’ d’informazione raccolgono e gestiscono non solo dati geometrici, ma anche strutturali, energetici e costruttivi dell’edificio, relazionandoli tra loro e migliorando così l’interazione e il dialogo tra le figure progettuali coinvolte nel processo.

   Seppur lontane anni luce da tale definizione, le doti del BOP sono comunque affini ai prodigi dei più recenti BIM per principio e concezione, ispirandosi e rispondendo direttamente a specifiche esigenze progettuali.

   La potenza delle grandi case informatiche non concede a questo e ad altri programmi firmati SOM una lunga sopravvivenza sul mercato. L’inevitabile vendita a IBM non frena però John Zils, partner associato e attuale responsabile del gruppo strutturisti di SOM Chicago, di riflettere così su un nodo chiave dell’informatizzazione in architettura:
«Eravamo abituati a crearci da soli il software su misura per quello che volevamo fare… E adesso ci troviamo a dipendere da altri che fanno le cose per noi e che, naturalmente, non le fanno nel modo in cui noi vogliamo farle. Ci troviamo sempre a dover valutare i diversi software per trovare quello che si avvicina di più alle nostre esigenze.»11

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   L’amore/odio per i computer può in parte ricondursi alla continua presenza di tale tensione, cioè alla naturale distanza tra il programma ideale, ipoteticamente rilasciato su misura del progettista, e il software commerciale di massa, che tenta di adattarvisi per quanto possibile.

   È il dilemma al centro delle ricerche di Robert Aish, informatico di formazione e specializzato nello studio dell’interazione uomo-macchina, che, prima in collaborazione con ARUP, poi Bentley, e infine all'interno del gruppo Autodesk Research, concepisce e sviluppa software specifici per la progettazione architettonica.

   Consapevole di come i tradizionali CAD automatizzino i dati progettuali a un livello semantico troppo basso, avvalendosi di semplici linee, archi e cerchi per supportare il lavoro concettuale dell’architetto, non vuole però ingabbiare potenziali sprazzi di creatività promuovendo all'opposto, e in maniera altrettanto inefficace, lo sviluppo di programmi che già forniscono librerie di muri, porte e finestre.

   Aish s’interroga quindi sull'esistenza d’invarianti all'interno del processo progettuale, ricercando quei pattern ricorrenti e generali che ne svelino il potenziale di standardizzazione informatica.

   Il rilascio di prodotti come GenerativeComponents e Autodesk Revit gli permettono di affermare che ogni processo progettuale è sempre e comunque basato sulla definizione di elementi e di relazioni tra essi14. È cioè fondato sulla costruzione di spazi topologici piuttosto che metrici.

   Un muro di mattoni si può quindi descrivere attraverso le proprietà base dei suoi componenti, cioè i ‘parametri’ di lunghezza, larghezza e altezza dei laterizi, nonché sfruttando una serie di equazioni che ne stabiliscono le interrelazioni geometriche, in questo caso la reciproca posizione spaziale. L’informatizzazione garantisce integrità a questo sistema, permettendo all'architetto di concentrarsi sulle modifiche numeriche delle sue ‘variabili’, all'interno di domini continui o discreti.

   È in sintesi il concetto di ‘progettazione parametrica’, sul quale Gramazio & Kohler13, architetti e ricercatori prezzo l’ETH di Zurigo, fondano la concezione di progetti come la cantina Gantenbein, in Svizzera.


   Col fine di garantire ventilazione agli spazi interni e protezione dalla luce diretta, reinventano ad esempio l’uso del laterizio disposto a ‘treillage’. Studiano attraverso un modello parametrico del muro, sopra descritto sinteticamente, nuovi motivi che richiamino figurativamente l’uva. Realizzano poi la facciata in moduli prefabbricati a controllo numerico, assemblati in un telaio strutturale di calcestruzzo armato.

   Gramazio & Kohler riciclano poi lo stesso modello parametrico del muro per progettare l’installazione del padiglione svizzero alla Biennale di Venezia 2008, come anche il prototipo Pike Loop, costruito ed esposto nel cuore di Manhattan nel 200914.

   Con un singolo sistema consistente di elementi e interrelazioni esplorano rapidamente molteplici configurazioni spaziali, in quella che Lars Spuybroek, del gruppo NOX, ribattezza nel suo ultimo libro come ‘architettura della variazione’.15>

   Lo stupore è assicurato se a tale lettura si affiancano un paio dei vecchi articoli di Luigi Moretti. In Forma come struttura, pubblicato su “Spazio” nel 195716, e in Ricerca matematica in architettura e urbanistica, stampato su “Moebius” nel 197117, si ritrova infatti una curiosa definizione di ‘architettura parametrica’, nella quale Moretti identifica come ‘parametri’ tutte quelle variabili progettuali che l'architetto deve considerare, e alle quali deve rispondere, per soddisfare esigenze e requisiti funzionali di programma.

   Peccando d’ingenuità, il suo intento è di comprendere, sistematizzare e formalizzare per quanto possibile il processo progettuale. Un’impresa che sfiora l’impossibile, ma merita una menzione per metodo, tentando d’inquadrare l’architettura all'interno di un programma di ricerca scientifico, uno dei primi svolti fondando l’IRMOU, che sta per ‘Istituto per la Ricerca Matematica e Operativa applicata all'Urbanistica’.

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   Tali accezioni del termine ‘parametrico’ non vanno però confuse con la sua declinazione prettamente geometrica. Nella modellazione tridimensionale CAD, in programmi come Rhinoceros o 3D Studio Max, si definiscono parametriche quelle curve e superfici utilizzate per rappresentare accuratamente forme libere, organiche o particolarmente complesse, cioè non riconducibili, se non con l’approssimazione, a geometrie semplici. Nascono nel mondo dell’automotive design come frutto di una ricerca Citroën, e diventano rapidamente un supporto indispensabile dei progettisti, che possono così visualizzare e studiare virtualmente le forme dei futuri modelli di automobili.

   Il primo standard di curve parametriche fu introdotto dal matematico Paul de Casteljau nel 1959, il quale ne definì l’algoritmo di calcolo basandosi sui polinomi di Bernstein. Pierre Etienne Bézier, ingegnere Renault, ne permise poi la diffusione durante il decennio successivo e fu quindi lui a darne il nome definitivo di ‘curve di Bézier18. Ormai obsolete per la modellazione tridimensionale di forme libere, resistono invece nel settore grafico, e sono ancora implementate in programmi come Adobe Illustrator e CorelDraw.

   L’attuale standard per la rappresentazione di curve e superfici parametriche si chiama NURBS (Non Uniform Rational B-Splines)19. Si diffonde in architettura attraverso il software CAD Rhinoceros, e sostituisce i predecessori principalmente perché permette all'utente un miglior controllo delle geometrie create, caratteristica imprescindibile per uno strumento di progetto, quindi di modifica, più che di restituzione grafica.

   Le superfici NURBS si ottengono per interpolazione di curve e si classificano, in base al metodo generativo, in skinned, proporzionali, spine, swept e d’interpolazione bidirezionale. Massimiliano Ciammaichella, descrivendo queste cinque tipologie in “Architettura in NURBS”20, evidenzia come la genesi di tali superfici segua logiche affini ai modi attraverso i quali gli architetti concepiscono gli spazi a esse sottesi. I NOX, per esempio, progettano forme libere sulla base del criterio ‘skinned’, cioè interpolando curve di sezioni giacenti su piani paralleli. Zaha Hadid, invece, rappresenta spesso la dinamicità dei flussi con NURBS ‘proporzionali’, vale a dire ottenute da generatrici convergenti in un punto.

   Ben diverso era l’approccio degli architetti e ingegneri del Secondo Dopoguerra. Opere caratterizzate da un’elevata complessità spaziale, come il Kresge Auditorium di Saarinen, la stazione di servizio BP sull'autostrada Berna-Zurigo di Isler, o il ponte sul Basento di Musmeci, erano, in quel periodo, il frutto di un processo creativo-generativo che saldava indissolubilmente il contributo disciplinare strutturale a quello della ricerca formale. All'inizio del secolo, neppure Gaudí poté disegnare le guglie della sua Sagrada Familia senza prima di studiarne il comportamento meccanico: dovette simulare le proprietà base della pietra con modelli di funi catenarie, e ricondurre quindi il progetto alla risoluzione di un problema di ‘form-finding’, o ricerca di forma strutturale.

   Separare la componente rappresentativa dell’architettura dalla sua anima conformativa era, di fatto, impossibile.



   La natura parametrica di curve e superfici NURBS ne consente l’utilizzo anche come geometrie guida per lo studio e la progettazione di configurazioni spaziali più complesse. Nel caso specifico delle superfici, il più delle volte questo significa compiere un’operazione di ‘paneling’, cioè che discretizza la NURBS in una mesh strutturale e/o una serie di componenti assemblabili, anch’essi parametrici.

   I grid-shell della Fiera di Milano e del centro commerciale MyZeil di Francoforte, entrambi progettati da Massimiliano Fuksas, sono due recenti esempi di procedura di paneling. Da pure e astratte superfici NURBS, le società d’ingegneria incaricate della progettazione esecutiva, rispettivamente Schlaich Bergermann und Partner e Knippers Helbig, hanno ricavato, o meglio progettato e calcolato, i reticoli strutturali, come anche le esatte geometrie degli elementi vetrati di rivestimento21. Il forte impatto estetico delle superfici iniziali ha guidato i progettisti nella ricerca di pattern sobri, che discretizzassero le NURBS senza aggiungervi nuovi elementi decorativi.





   Tuttavia, in parecchi altri progetti, la geometria di partenza è relativamente semplice, e gli sforzi dell’architetto si concentrano proprio nello studio del paneling per conferire organicità o dinamismo all'insieme. È questo il caso del Research Pavilion 2011 dell’università di Stoccarda, frutto del lavoro congiunto dei gruppi di Achim Menges e Jan Knippers22. Il padiglione è infatti un poliedro relativamente semplice dalle facce ottagonali, e che si ispira liberamente ai gusci dei ricci di mare per modularità e comportamento strutturale. Il cuore del progetto è qui nello studio di tali moduli portanti a piastra, nonché nel modo in cui tra loro si giuntano formalmente e assemblano costruttivamente.

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   I comandi base dei CAD commerciali difficilmente permettono agli architetti di gestire complesse operazioni di paneling. Ancor meno consentono di progettare muri parametrici come quelli di Gramazio & Kohler. Le case costruttrici di software, consapevoli di tali limiti, implementano quindi nei loro prodotti dei semplici ambienti di programmazione, basati, ad esempio, sui linguaggi interpretati come Visual Basic o Python. In altre parole, invitano l’utente esperto a estendere da sé le potenzialità native dei programmi, concependo nuove funzionalità attraverso lo sviluppo di piccoli codici, detti ‘script’.

   All'inizio degli anni Novanta, quando le prime versioni di AutoCAD implementavano solamente il macchinoso linguaggio LISP, l’architetto Neil Katz, associato di SOM, già ne vantava una discreta collezione. I suoi codici formulavano parametricamente complessi pattern geometrici, e più volte hanno ispirato l’attività progettuale dello studio: l’involucro della Lotte Tower di Seoul è stato così rapidamente disegnato e calcolato in quanto definito come entità parametrica, allo stesso modo dell’antenna per la Freedom Tower di New York23.

   Da mezzo impiegato passivamente, la tecnologia digitale si trasforma in risorsa progettuale per formulare diversamente i problemi e costruirne poi interattivamente gli strumenti e le strategie di risoluzione.

   È il crescente fenomeno del ‘tooling’ che, seppur etichettato comunemente anche con il termine di ‘scripting’, non ne è concettualmente il sinonimo ma, al contrario, l’evoluzione24. Ricordiamoci, infatti, che lo scripting nasce negli anni Sessanta col mero obiettivo di automatizzare operazioni lunghe e ripetitive, che necessitavano periodiche esecuzioni dalla riga di comando25.

   Rhinoceros, il software CAD di casa McNeel, è il programma in assoluto più utilizzato per sviluppare script in architettura. Le ragioni di tale successo sono molteplici. Nella versione 3.0, rilasciata nel 2003, già implementa un potente motore grafico NURBS, ideale per creare e gestire forme libere, combinato con RhinoScript, un ambiente di programmazione semplice ma completo, basato sul linguaggio Visual Basic. Dalla versione 4.0, invita poi anche i meno esperti a cimentarsi nello sviluppo di codici grazie a Grasshopper, un plug-in che, ispirandosi concettualmente ai diagrammi di flusso creati in Simulink di casa MathWorks, consente agli utenti di ‘modellare’ gli script attraverso un linguaggio grafico.

   Grasshopper si basa sull'utilizzo di semplici routine e funzioni già compilate che, senza alcuna conoscenza di un linguaggio di programmazione, possono essere assemblate tra loro, direttamente dall'interfaccia grafica, per sviluppare algoritmi più complessi. Si tratta di tante piccole scatole nere che, forniti specifici dati in ingresso, eseguono una serie di istruzioni e restituiscono nuovi dati in uscita.

   I limiti di tale approccio sono evidenti e richiamano alla mente la sfortunata esperienza della ‘programmazione automatica’ degli anni Quaranta. I suoi fautori, tra i quali spicca il nome di Grace Murray Hopper, famosa per essere stata la principale responsabile del tanto temuto ‘millenium bug’, si proponevano di realizzare quello che Ford concepì originariamente per la produzione di automobili: impostare, cioè, un sistema basato su parti intercambiabili, per sviluppare nuovi programmi scrivendo semplicemente codici di collegamento tra routine preconfezionate26. Un’idea valida per la catena di montaggio che, nel mondo dell’informatica, irrigidì la procedura di programmazione e si trasformò in un fallimento. La diagnosi è chiara: standardizzazione prematura e a uno sbagliato livello di astrazione.

   Grasshopper è per certi versi più flessibile, e ben si configura come strumento per lo studio di modelli parametrici, da implementare poi in codici più complessi. È pura illusione però presentarlo come la versione semplificata di RhinoScript. Infatti, la difficoltà del tooling non sta nell'apprendere un linguaggio di programmazione, ma nel saper formulare correttamente i problemi da risolvere in maniera parametrica.

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   Le tecnologie digitali stanno radicalmente modificando anche il lavoro degli ingegneri civili. Le tecniche numeriche di calcolo come il FEM (Finite Element Method) rimpiazzano in toto i metodi sperimentali di progetto e verifica delle strutture. Allo stesso modo, non si realizzano più modelli fisici per il form-finding di gusci leggeri in calcestruzzo armato o tensostrutture27. Si passa invece attraverso l’ottimizzazione matematica che, sulla base di uno o più criteri di selezione, sfrutta la potenza di calcolo del computer28 per ricercare iterativamente la soluzione ottimale a un problema tra una serie di candidate29.

   Dal punto di vista progettuale, questo cambiamento è rilevante per almeno tre motivi.

   A differenza del form-finding classico, la topologia del sistema strutturale non è più necessariamente fissa. Può diventare quindi l’oggetto stesso del processo di ottimizzazione, come nel caso del progetto per la nuova stazione TAV di Firenze, sviluppato da Isozaki e Sasaki in occasione del concorso internazionale del 200330. Un’immensa copertura piana è qui sospesa in cielo da una struttura organica, della quale sia la topologia sia la forma finale ad albero derivano dall'uso di una versione perfezionata della tecnica ESO, cioè Evolutionary Structural Optimization31.

La nuova stazione TAV di Firenze di Isozaki e Sasaki

   Data una configurazione spaziale iniziale, e calcolando le tensioni di Von Mises tramite analisi FEM, tale algoritmo rimuove iterativamente le parti di struttura inefficienti, minimizzando in generale lo spreco di materiale. In questo caso, è poi anche in grado di aggiungerne di nuove nei punti più critici, garantendo così all'insieme un comportamento meccanico ottimale.

   Con l’ESO è stata concepita la facciata dell’edificio per uffici Akutagawa West Side, opera dell’architetto Hiroyuki Futai e del gruppo di ricerca di Hiroshi Ohmori della Nagoya University32. Ed è stata poi anche curiosamente riprogettata la facciata della passione della Sagrada Familia. Si tratta di una ricerca coordinata da Jane Burry della RMIT University di Melbourne, volta a studiare eventuali analogie tra i risultati di un’ottimizzazione topologica e le forme naturali originariamente concepite da Gaudì con modelli di funi catenarie33.


Edificio per uffici di Hiroyuki Futai

   Rispetto ai lavori di Heinz Isler e Frei Otto, l’ottimizzazione permette poi anche di mutare il concetto originario di form-finding, letteralmente mirato alla ricerca della forma ottimale, in quello che potremmo definire di ‘form-improvement34, cioè atto invece a migliorare le prestazioni di una configurazione spaziale preesistente, senza che per questo si debba raggiungere l’ottimo strutturale.

   Nel crematorio di Kakamigahara, per esempio, nessun modello fisico col quale ricavare l’inverso della membrana tesa35 avrebbe potuto tradurre in struttura l’idea dell’architetto Toyo Ito. Attraverso l’ottimizzazione, invece, la copertura fluttuante in calcestruzzo armato, figurativamente ispirata a una nuvola, è stata modellata in una prima fase come se fosse pura scultura, e in seguito affinata strutturalmente attraverso un’analisi di sensibilità, o Sensitivity Analysis (SA)36.

   Con questa tecnica di ottimizzazione, Mutsuro Sasaki riduce l’energia potenziale elastica della membrana di copertura, modificandone iterativamente la curvatura. Basandosi sul calcolo del gradiente, infatti, l’analisi di sensitività gli permette di automatizzare il tradizionale metodo progettuale di ‘trial and error’, e di evitare così un ripetitivo e lento processo di disegno/verifica della forma, che richiede molteplici lanci manuali di analisi strutturali FEM37.


Crematorio di Kakamigahara di Toyo Ito

   È la strategia utilizzata anche per il Grin Grin Park di Fukuoka e il Kitagata Community Centre di Gifu: altri due casi nei quali il progettista ha potuto considerare configurazioni spaziali free-form, strutturalmente sub-ottimali, solo grazie all’uso dell’analisi di sensitività38.

   Da semplici strumenti risolutivi, questa e altre tecniche di ottimizzazione numerica diventano, in architettura, efficaci strumenti esplorativi a supporto delle fasi concettuali del progetto. Per questa ragione, sono anche spesso identificate nella letteratura scientifica come strategie di ‘morfogenesi computazionale’39.

Le ricerche che da qualche anno conduco con Mario Sassone e altri colleghi del nostro gruppo si collocano a pieno titolo all'interno di questo filone40. L’obiettivo è chiaro: sviluppare e applicare tecniche di ottimizzazione per la progettazione architettonica, studiando in che misura, e secondo quali logiche, possano esse configurarsi anche come strumenti di pensiero41.

   Si parte sempre da un problema progettuale ben definito, cioè chiaramente formulabile in maniera parametrica. Per esempio, quando nel 2007 abbiamo riprogettato strutturalmente il crematorio di KaKamigahara, ne abbiamo rappresentato il guscio di copertura con una superficie NURBS in Rhinoceros: vincolati i suoi punti di controllo in corrispondenza dei pilastri, le coordinate spaziali dei restanti sono automaticamente diventate le variabili progettuali del sistema42.

Vi si abbina poi una strategia di ottimizzazione che, sulla base di uno o più criteri di selezione, svolge il ruolo di guida nel processo di studio e valutazione della forma architettonica. In parallelo con la geometria parametrica NURBS, abbiamo quindi sviluppato, attraverso uno script, un algoritmo genetico43. Si tratta di una tecnica di ottimizzazione meta-euristica che, ispirandosi al principio dell’evoluzione naturale, genera ‘popolazioni’ intere di soluzioni progettuali (in questo caso configurazioni spaziali free-form), tra le quali seleziona, e ricombina iterativamente fra loro, solo le migliori. Nel nostro caso, fa così metaforicamente sopravvivere quelle superfici NURBS che, dal punto di vista strutturale, presentano in media bassi valori di spostamento verticale.


   Un ultimo aspetto fondamentale dell’ottimizzazione è che non si limita però a risolvere unicamente questioni di statica, caratteristica invece intrinseca del form-finding basato sui modelli fisici. Tecniche come gli algoritmi genetici si possono usare, infatti, in tutti quei casi in cui una prestazione architettonica sia formulabile attraverso una funzione matematica e, tecnicamente parlando, sia quindi ‘minimizzabile’.

   All'interno del nostro gruppo di ricerca44, Tomás Méndez Echenagucia45 ottimizza così l’acustica delle sale da concerti, Dario Parigi studia la geometria e il comportamento cinematico delle strutture reciproche46 e Paolo Basso risolve problemi economico-costruttivi dei grid-shell a forma libera47.

   Quest’ultimo tema è di particolare interesse per società d’ingegneria come la RFR parigina, originariamente fondata da Peter Rice nel 1982. Ad esempio, nella realizzazione di progetti come la stazione TGV di Strasburgo, dove il grid-shell di copertura free-form è composto di elementi vetrati a forma quadrilatera, la presenza della doppia curvatura nelle lastre diventa economicamente non trascurabile48.

   Interi gruppi di ricerca lavorano su tale problema di ottimizzazione49 che, prima dell’avvento del digitale, non si poteva altrimenti risolvere. Tutt'altro che a forma libera erano quindi i primi grid-shell a maglia quadrilatera di Jörg Schlaich: per garantirne la costruzione con lastre di vetro piane, egli doveva infatti disegnarli attraverso rigide regole geometriche, cioè solo per traslazione e scalatura di curve generatrici50.

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Parametrico e ottimizzazione cambiano il modo di progettare l’architettura dalla sua concezione. La fabbricazione a controllo numerico ne trasforma invece le tecniche costruttive.

   La Son-O-House dei NOX e il muro parametrico di Gramazio & Kohler sono due esempi di come un’estrema complessità geometrica, gestita solo grazie al supporto dell’informatica, possa razionalmente realizzarsi attraverso il ‘file-to-factory’, cioè traducendo con delle macchine di derivazione industriale dei modelli digitali direttamente in costruzione51

   Le stazioni di Zaha Hadid per funicolare di Innsbruck sono invece un caso in cui le forme fluide dei grid-shell di copertura, riproducibili solo con l’uso di vetri a doppia curvatura, ancora richiedono costi di costruzione elevati. In pochi anni, potranno però ridursi con lo sviluppo di ‘casseforme dinamiche’, che permetteranno, cioè, una produzione industrializzata dei componenti trasparenti. A questo scopo, è nata ad esempio la piccola azienda start-up di Christian Raun Jepsen, ad Aalborg (DK), che sta attualmente testando un primo prototipo di ‘dynamic mould’ con getti di gesso e calcestruzzo52.



   Dopo un lungo periodo di progressiva separazione, con lo sviluppo delle tecnologie informatiche architettura e ingegneria si stanno gradualmente riavvicinando. È un fenomeno che ho qui semplicemente tentato d’introdurre e che personalmente chiamo ‘Engineering Architecture’.

PDF versione cartacea rivista Bloom


3 dicembre 2013
Intersezioni ---> SPECULAZIONE
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Note:
In questa versione web del testo, si sono aggiunti tutti i riferimenti web, l’asterisco* rimanda ai link di riferimento.

1 LYNN G., Folds, Bodies & Blobs: collected essays, La lettre volée, Bruxelles, 1998.*

2 SPUYBROEK L. (NOX), Nox - Machining Architecture, Thames & Hudson, Londra, 2004.*

3 Le più significative pubblicazioni di Marcos Novak sono:
NOVAK M., Next Babylon, soft Babylon, in “Architectural Design”, n°136, novembre 1998, pp. 20-29;* NOVAK M., Speciazione, trasvergenza, allogenesi: note sulla produzione dell’alien, in SACCHI L., UNALI M. (a cura di), “Architettura e cultura digitale”, Skira, Milano, 2003;* 
NOVAK M., “Architectural Design”, n°157, maggio-giugno 2002, pp. 64-71;
NOVAK M., Transmitting architecture, in “Architectural Design”, n°118, ottobre 1995, pp. 42-47.* * *

4 Il gruppo Objectile è format dagli architetti Bernard Cache e Patrick Beaucé.*


5 MIGAYROU F. (a cura di), Architectures non standard, Centre Pompidou, Parigi, 2004.*

6 CACHE B., BEAUCE P. (OBJECTILE), Vers une mode de production non-standard, in “Architectures non standard”, Centre Pompidou, Parigi, 2003 (pubblicato parzialmente). * Traduzione italiana a cura di Teresanna Donà: Verso un modo di produzione non-standard,pubblicato integralmente su ARCH’it, 5 gennaio 2004.*

7 Mennan Z., The question of non standard form, in “METU Journal of the Faculty of Architecture”, Vol.25, n°2, 2008, pp.171-183.*

8 Vedi ad esempio il recente numero di Architectural Design edito da Rivka e Robert Oxmanv: “The New Structuralism: Design, Engineering and Architectural Technologies”, luglio 2010.*
Sul termine ‘performative design’: OXMAN R., Performance-based Design: Current Practices and Research Issues, in “International Journal of Architectural Computing”, Vol.6, n°1.*
Sul termine ‘digital tectonics’: OXMAN R., Morphogenesis in the theory and methodology of digital tectonics, in “Journal of the International Association for Shell and Spatial Structures, Vol.51, n°165, pp. 195-205.*

9 Franco Purini, ad esempio, tenta una classificazione dell’architettura ‘digitale’ identificandone tre ambiti, tra loro compenetrabili e sovrapponibili: il primo strumentale, cioè non organico alla concezione progettuale ma puramente di servizio, un secondo creativo, complementare al precedente, e un ultimo utopico, cioè di pura sperimentazione virtuale. Partendo però da una base così generica, tale suddivisione diventa anch'essa troppo vaga e non aiuta quindi a comprendere le reali logiche del fenomeno. Il saggio è pubblicato in: PURINI F., Digital Divide, in SACCHI L., UNALI M. (a cura di), “Architettura e cultura digitale”, Skira, Milano, 2003.*
Un testo più specifico è invece: PICON A., Digital Culture in Architecture, Birkhäuser, 2010.*

10 Per una guida completa sulla tecnologia BIM vedi: EASTMAN C., TEICHOLZ P., SACKS R., LISTON K., BIM Handbook: A Guide to Building Information Modeling for Owners, Managers, Designers, Engineers, and Contractors, Wiley, 2008.*

11 L’intervista è interamente citata da Adams N., Skidmore, Owings & Merrill. SOM dal 1936, Electa, 2006, pp.34-36.*
Recentemente l’uso delle tecnologie digitali all’interno di SOM è stato discusso in una conferenza intitolata “Digital Design at SOM: The Past, the Present and the future”


14 AISH R., Extensible computational design tools for exploratory architecture, in KOLAREVIC B. (a cura di), “Architecture in the Digital Age: Design and Manifacturing”, Routledge, 2005, p. 17. *
Vedi anche: SHEA K., AISH R., GOURTOVAIA M., Towards integrated performance-driven generative design tools, in “Automation in Construction”, Vol.14, n°2, 2005, pp. 253-264.*

13 I progetti e le ricerche di Gramazio & Kohler sono raccolti in: GRAMAZIO F., KOHLER M., Digital Materiality in Architecture, Lars Müller Publishers, 2008.* 
Vedi anche: Converso S., Il progetto digitale per la costruzione: Cronache di un mutamento professionale, Maggioli editore, 2010, pp. 61-63, 82-87*; e YUDINA A., Matthias Kohler & Fabio Gramazio: Digital Empirics, in “Monitor”, n°56, 2009, pp. 50-65.*

14 Il modello parametrico del prototipo “Pike Loop” è ben descritto in: BÄRTSCHI R., KNAUSS M., BONWETSCH T., GRAMAZIO F., KOHLER M., Wiggled Brick Bond, in “Advances in Architectural Geometry 2010”, Springer, 2010, pp. 137-147.*

15 SPUYBROEK L. (a cura di), Research & Design: The Architecture of Variation, Thames & Hudson, 2009.*

16 MORETTI L., Forma come struttura, in “Spazio” (Estratti), giugno-luglio 1957. Anche in: BUCCI F.,MULAZZANI M., Luigi Moretti: Opere e scritti, Electa, 2000.*

17 MORETTI L., Ricerca matematica in architettura e urbanistica, in “Moebius”, n°1, pp. 30-53, 1971. Anche in: BUCCI F., MULAZZANI M., Luigi Moretti: Opere e scritti, Electa, 2000.*

18 Una buona introduzione storica sui vari standard di curve e superfici parametriche si può trovare in: ROGERS D.F., An introduction to NURBS: with historical perspective, 1°Ed., Morgan Kaufmann, 2001.*

19 PIEGL L., TILLER W., The NURBS Book, 2° Ed., Springer, 1995 (1966).*

20> CIAMMAICHELLA M., Architettura in NURBS: il disegno digitale della deformazione, Testo&Immagine, 2002.*

21 I dettagli del progetto del grid-shell della Fiera di Milano sono pubblicati in: SCHLAICH J., SCHOBER H., KÜRSCHNER K., New Trade Fair in Milan – Grid Topology and Structural Behaviour of a Free-Formed Glass-Covered Surface, in “International Journal of Space Structures”, Vol.20, n°1, 2005, pp. 1-14.*
Il progetto costruttivo del MyZeil di Francoforte è invece descritto in: KNIPPERS J., HELBIG T., The Frankfurt Zeil Grid Shell, in “Proceedings of the IASS Symposium 2009: Evolution and Trends in Design, Analysis and Construction of Shell and Spatial Structures”, Valencia, Spagna, 2009, pp. 328-329.*
Vedi anche: KNIPPERS J., Digital Technologies for Evolutionary Construction, in “Computational Design Modeling. Proceedings of the DMSB 2011”, Springer, 2011, pp. 47-54.*

22 LA MAGNA R., WAIMER F., KNIPPERS J., Nature-inspired generation scheme for shell structures, in “Proceedings of the IASS-APCS Symposium 2012: From Spatial Structures to Space Structures”, Seoul, Corea del Sud, 2012.*

23 AQTASH A., KATZ N., Computation and design of the antenna structure – Tower One, in “Proceedings of the 6th International Conference on Computation of Shell and Spatial Structures IASS-IACM 2008: Spanning Nano to Mega”, Ithaca, NY, USA, 2008.*

24 Non a caso alcune recenti pubblicazioni didattiche per lo sviluppo di script in architettura riportano il termine ‘tooling’ invece di ‘scripting’. Vedi ad esempio: ARANDA B., LASCH C., Pamphlet Architecture 27: Tooling, Princeton Architectural Press, 2005.*

25 Maggiori dettagli sono riportati in: CERUZZI P.E., Storia dell’informatica. Dai primi computer digitali all’era di internet, Apogeo Editore, 2005.*

26È bene precisare che all'epoca scrivere codici significava perforare delle schede e non utilizzare editor di testo. Per i dettagli sulla storia della programmazione automatica si può consultare: WILKES M.,WHEELER D.J., GILL S., The preparation of Programs for an Electronic Digital Computer, The MIT Press, 1984, pp. 26-37*; e CAMPBELL-KELLY M., Programming the EDSAC: Early Programming Activity at the University of Cambridge, in “IEEE Annals of the History of Computing”, Vol. 2, n°1, 1980, pp. 7-36*. Vedi anche: CERUZZI P.E., Storia dell’informatica. Dai primi computer digitali all’era di internet, Apogeo Editore, 2005.

27 Lo stato dell’arte sul form-finding classico si può trovare in: OTTO F., RASCH B., Finding Form: Towards an Architecture of the Minimal, Axel Menges, 1996.* O anche in: HENNICKE J. et al., IL 10. Grid shells, Stuttgart: Institute for Lightweight Structures (IL), 1974; e in: ISLER H., New Shapes for Shells -Twenty Years After, in “Bulletin of the International Association for Shell Structures”, n°71, 1979.*

28 La potenza di calcolo è identificata da John Frazer come la più importante caratteristica dei computer nel suo libro “An Evolutionary Architecture”, edito dall’Architectural Association Publications nel 1995.*

29 Una buona introduzione sulle principali tecniche di ottimizzazione ingegneristica si trova in: DELLA CROCE F., TADEI R., Ricerca operativa e ottimizzazione, Esculapio, 2002.*

30 Vedi: CUI C., OHMORI H., SASAKI M., Computational Morphogenesis of 3D Structures by Extended ESO Method, in “Journal of the International Association for Shell and Spatial Structures, Vol. 44, n°141, 2003, pp. 51-61.* Il progetto di concorso per la nuova stazione TAV di Firenze è anche descritto in: SASAKI M., Flux Structure, TOTO, 2005.*

31 La tecnica ESO è stata originariamente sviluppata da Xie e Steven, i quali hanno pubblicato i loro risultati in: Xie Y.M.; Steven G.P., Evolutionary Structural Optimization, Springer, 1997.*

32 Vedi: LEE D., SHIN S., PARK S., Computational Morphogenesis Based Structural Design by Using Material Topology Optimization, in “Mechanics Based Design of Structures and Machines, Vol. 35, n°1, 2007, pp. 39-58.* Vedi anche: OHMORI H., Computational Morphogenesis: Its Current State and Possibility for the Future, in “International Journal of Space Structures”, Vol. 25, n°2, 2010, pp. 75-82.*

33 I risultati di questa ricerca sono stati inizialmente pubblicati in: BURRY J., FELICETTI P., TANG J., BURRY M., XIE M., Dynamical structural modeling: A collaborative design exploration, in “International Journal of Architectural Computing”, Vol. 3, n°1,* 2005, pp.27-42. Poi anche in: BURRY J., BURRY M., The New Mathematics of Architecture, Thames and Hudson, 2010.*

34 Il termine ‘form-improvement’ è stato coniato dal sottoscritto a puro scopo esplicativo, e non si riferisce quindi ad alcuna tecnica riconosciuta e consolidata nella comunità scientifica di riferimento.

35 Per inversione della membrana tesa s’intende quella procedura di form-finding che, sottoponendo a carico gravitazionale una superficie elastica priva di alcuna rigidezza flessionale, ricava prima uno stato di pura trazione, e ottiene poi dal suo inverso quello nel quale viga la sola compressione.

36 Il progetto del crematorio di KaKamigahara è stato pubblicato su: Casabella, n°752, febbraio 2007, pp. 30-37; Architectural Review, n°1326, Agosto 2007, pp. 74-77; Detail, Vol. 48, n°7/8, luglio/agosto 2008, pp. 786-790; The Plan, n°27, giugno/luglio 2008, pp. 42-52.

37 L’analisi di sensitività è spiegata brevemente in: SASAKI M., Flux Structures, TOTO, 2005.*

38 Ibid.

39 Da una conversazione informale con Makoto Katayama, professore presso il Kanazawa Institute of Technology, sembrerebbe che sia stato Yasuhiko Hangai, ex docente dell’università di Tokyo, il primo a coniare il termine inglese ‘Computational Morphogenesis’. Con tale nome, non è però chiaro se egli volesse mettere in risalto delle differenze rispetto alla pura ottimizzazione, o se intendesse invece crearne un semplice sinonimo. Ancora oggi, è usato in maniera ambigua nella letteratura scientifica, il più delle volte col mero significato di form-finding computazionale, cioè non basato su modelli fisici ma simulazioni al computer. È questo il caso di: BLETZINGER KAI-UWE, Form-finding and Morphogenesis, in MUNGAN I., ABEL J.F. (a cura di), “Fifty Years of Progress for Shell and Spatial Structures”, Multi-Science, 2011; o anche di: OHMORI H., Computational Morphogenesis: Its current State and Possibility for the Future, in International Journal of Space Structures, Vol. 25, n°2, 2010.*

40 Vedi ad esempio: PUGNALE A., Engineering Architecture: Advances of a technological practice, Tesi di Dottorato discussa presso il Politecnico di Torino, Aprile 2010.

41 Il rapporto tra tecnologia e pensiero è stato ad esempio affrontato da Walter Ong per studiare le differenze tra culture orali e quelle invece alfabetizzate. I risultati di tale ricerca sono pubblicati in: ONG W., Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, 1986.* Nello specifico delle tecnologie digitali, Donald Norman è probabilmente l’autore più interessante a riguardo. Si può citare ad esempio: NORMAN D., Il computer invisibile, 2a Ed., Apogeo, 2005.*

42 PUGNALE A., SASSONE M., Morphogenesis and Structural Optimization of Shell Structures with the Aid of a Genetic Algorithm, in “Journal of the International Association for Shell and Spatial Structures”, Vol. 48, n°155, 2007.*

43 Una buona introduzione sugli algoritmi genetici, in inglese Genetic Algorithms (GAs), si può trovare in: FLOREANO D., MATTIUSSI C., Manuale sulle reti neurali, Il Mulino, Bologna, 2002 (1996).* Libri tecnici più completi sono invece: GOLDBERG D.E., Genetic algorithms in Search, Optimizaion & Machine Learning, Addison-Wesley, Boston, 1989;* e MITCHELL M., An introduction to genetic algorithms, The MIT Press, Cambridge, 1998.*

44 Con “nostro gruppo di ricerca” intendo quella rete ufficiosa di ex studenti e dottorandi che, sotto la guida di Mario Sassone, iniziarono a lavorare presso il Politecnico di Torino sui temi della Morfogenesi Computazionale. Alcuni membri del gruppo hanno poi continuato le loro attività all'estero, ma tuttora mantengono regolari rapporti di collaborazione professionale.

45 Vedi: MÉNDEZ ECHENAGUCIA T.I., ASTOLFI A., JANSEN M., SASSONE M., Architectural acoustic and structural form, in “Journal of the International Association for Shell and Spatial Structures”, Vol. 49, n°159, 2008.* Vedi anche: SASSONE M., MÉNDEZ ECHENAGUCIA T.I., PUGNALE A., On the interaction between architecture and engineering: the acoustic optimization of a RC roof shell, in “Sixth International Conference on Computation of Shell & Spatial Structures: Spanning Nano to Mega, Ithaca NY, USA, 2008, p. 231.*

46 Vedi: PARIGI D., KIRKEGAARD P.H., SASSONE M., Hybrid optimization in the design of reciprocal structures, in “Proceedings of the IASS Symposium 2012: From spatial structures to space structures”, Seoul, 2012.* Vedi anche: PARIGI D., KIRKEGAARD P.H., Towards free-form kinetic structures, in “Proceedings of the IASS Symposium 2012: From spatial structures to space structures”, Seoul, 2012.* Sull'ottimizzazione delle strutture reciproche, si possono anche citare: BAVEREL O., NOOSHIN H., KUROIWA Y., Configuration processing of nexorades using genetic algorithms, in “Journal of the International Association for Shell and Spatial Structures”, Vol. 45, n°142, 2004, pp. 99-108;* e: DOUTHE C., BAVEREL O., Design of nexorades or reciprocal frame systems with the dynamic relaxation method, in “Computers and Structures”, Vol. 87, n°21-22, 2009, pp. 1296-1307.*

47 Vedi ad esempio: BASSO P., DEL GROSSO A., PUGNALE A., SASSONE M., Computational morphogenesis in architecture: cost optimization of free form grid shells, in “Journal of the International Association for Shell and Spatial Structures”, Vol. 50, n°162, 2009.* Una ricerca analoga è stata anche pubblicata da Mario Sassone e dallo scrivente in: SASSONE M., PUGNALE A., On optimal design of glass grid shells with quadrilateral elements, in “International Journal of Space Structures”, Vol. 25, n°2, 2010.*

48 Vedi: POTTMANN H., SCHIFTNER A., BO P., SCHMIEDHOFER H., WANG W., BALDASSINI N., WALLNER J., Freeform surfaces from single curved panels, in “ACM Transactions on Graphics (TOG) - Proceedings of the ACM SIGGRAPH 2008”, Vol. 27, n°3, 2008.*

49 Vedi ad esempio: POTTMANN H., ASPERL A., HOFER M., KILIAN A., Architectural Geometry, Bentley Institute Press, 2007.*

50 Vedi: HOLGATE A., The Art of Structural Engineering. The work of Jörg Schlaich and his Team, Edition Axel Menges, 1997.* Vedi anche: SCHLAICH J., SCHOBER H., Glass-covered Lightweight Spatial Structures, in ABEL J.F., LEONARD J.W., PENALBA C.U. (a cura di), “Spatial, Lattice and tension structures: Proceedings of the IASS-ASCE International Symposium”, Atlanta, 1994, pp. 1-27.*

51 Secondo i ricercatori del gruppo danese Digital Crafting, questo è un processo di automazione del cantiere che potrebbe in futuro anche configurarsi come un nuovo ‘artigianato digitale’.

52 Diversi ricercatori e compagnie start-up stanno lavorando su questo tema. Vedi per esempio: PRONK A., VAN ROOY I., SCHINKEL P., Double-curved surfaces using a membrane mould, in “Proceedings of the IASS Symposium 2009: Evolution and Trends in Design, Analysis and Construction of Shell and Spatial Structures”, Valencia, 2009, pp. 618-628;* e anche: RAUN C., KRISTENSEN M.K., KIRKEGAARD P.H., Dynamic Double Curvature Mould System, in “Computational Design Modeling: Proceedings of the Design Modeling Symposium Berlin 2011”, 2011.*

0053 [SPECULAZIONE] Un post dialogo con Luca Zevi curatore del padiglione italiano della XIII Mostra Internazionale di Architettura di Venezia 2012

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di Salvatore D'Agostino

Il primo agosto del 2012 avevo proposto un’intervista a Luca Zevi, allora neo-curatore del padiglione italiano della XIII Biennale di architettura di Venezia 2012, ma per varie peripezie web le risposte sono arrivate il 6 dicembre 2013, qualche giorno dopo la nomina di Cino Zucchi1 come prossimo curatore del padiglione italiano 2014.

Ricordo che Luca Zevi aveva ‘articolato’ la sua esposizione in tre racconti:

L’oggi.
La narrazione del rapporto tra architettura, crescita, innovazione e industria: da Adriano Olivetti all'Architettura del Made in Italy.

Il futuro.
La proiezione vero il futuro: la sfida di Expo 2015.”Nutrire il pianeta” diventa una straordinaria occasione di riflettere sul rapporto tra territorio e ambiente, città e produzione agricola, e sul senso del “progetto” nel nord e sud del mondo.

La sfida.
Il Padiglione Italia, tradizionale sede della “mostra”, diventa prototipo di un nuovo modo di abitare che tiene insieme cultura dell’ambiente e green economy.








Tra analessi e prolessi ecco l’epilogo:

Salvatore D’Agostino Crede che sia possibile rilanciare una nuova stagione olivettiana senza analizzare le cause storiche e sociali del suo declino?

Luca Zevi Una nuova stagione che veda l’imprenditoria del Made in Italy impegnata nella formazione di una rete olivettiana animata da un grande progetto di riqualificazione del territorio italiano non solo è possibile, ma è assolutamente necessaria.

Le cause del declino della prospettiva avanzata da Adriano Olivetti sono state analizzate nel Padiglione Italia e nei molti convegni che vi si sono svolti.

Adesso è il momento di agire, pena un declino inarrestabile del nostro paese. I segnali, al momento, forse non sono confortanti, ma vale sicuramente la pena di continuare a provarci.

È ancora possibile parlare di ‘Made Italy’ senza un’analisi puntuale sulla realtà del ‘Made Italy’, la sua genesi e la sua, forse, involuzione?

Questa analisi abbiamo cominciato a farla in occasione della Biennale 2012 e stiamo continuando a svilupparla. La genesi del Made in Italy come “resistenza antropologica” dell’imprenditore italiano alla massificazione produttiva è ormai abbastanza chiara.

Non so se parlerei di involuzione del Made in Italy: piuttosto della necessità di una nuova strategia di fuoriuscita dalla crisi in corso, che colpisce duramente anche questo settore. Se vogliamo superarla, dobbiamo trasformare una sommatoria di individualità geniali in un sistema complesso, capace di agire in maniera sinergica nella direzione di una rigenerazione allargata del territorio italiano nella direzione della Green Economy, che è l’unico grande businnes possibile nei prossimi decenni.

Crede, osservando l’evolversi dell’evento, sia stato importante aver rilanciato l’Expo del 2015 come prospettiva per l’immediato futuro?

Expo 2015 ha assunto un tema importante, “Nutrire il pianeta”. Con il primo progetto, eminentemente paesaggistico, si è data un’interpretazione originale e pertinente a quel tema. Dal progetto alla realizzazione, come sempre, molte cose sono cambiate e ad oggi non sono in grado di prevedere l’esito finale.

Se sarà un grande momento di riflessione sull'inversione di tendenza che deve conoscere il nostro modello di sviluppo nei prossimi decenni, per uscire dalla crisi in cui siamo immersi e per rilanciare l’immaginazione di un habitat sostenibile, allora sarà valsa la pena di lottare per ospitare in Italia questa grande manifestazione internazionale.

«Qui dunque, nel luogo più puzzolente di tutto il regno, il 17 luglio 1738 nacque Jean-Baptiste Grenouille.» finiva così l’incipit de ‘Il Profumo’ di Patrick Suskind2. Questo finale sintetizza con estrema precisione la città di Londra nel pieno della ‘rivoluzione industriale’. L’addensarsi di cittadini verso i centri urbani industriali e la scarsa prevenzione ‘igienica’ portò, alla fine dell’ottocento, a elaborare le città secondo criteri di ‘salubrità’. Le città, per non soccombere alle continue epidemie, non potevano più essere improvvisate, ma serviva un accurato programma edilizio. Da lì a qualche decennio nacque la scienza urbana, dettata più da regole igieniche che estetiche, alla quale si diede il nome di ‘urbanistica’. All’inizio del novecento si svilupparono diverse idee di città caratterizzate dal rispetto verso l’ambiente ma percorrendo la storia concreta molte di quelle città hanno premiato i forti guadagni immediati immobiliari e industriali più che l’idea collettiva di ‘città salubre’. La sua sfida per il futuro, riprendendo quel puzzo descritto da Suskind, è stata la costruzione di un ‘prototipo di un nuovo modo di abitare che tiene insieme 'cultura dell’ambiente e green economy’, è stata recepita?

In parte sì, e lo dimostra il fatto che il Padiglione Italia da me curato ha continuato e continua a vivere ben oltre la chiusura della mostra veneziana. L’affermazione che la qualità architettonica è una forza produttiva, che un’azienda che voglia lanciare la sfida ai mercati internazionali ha necessità di autorappresentarsi attraverso il progetto, ha convinto grazie alla ricerca e alla ricca documentazione che abbiamo presentato.

È per questo che le architetture del Made in Italy, che abbiamo portato alla luce, stanno facendo il giro del mondo grazie all’esportazione della mostra in molti altri paesi.

Il suo progetto è stato selezionato tra alcuni inviti fatti dal Ministero dei Beni Culturali (ndr ricordo i nomi: Marco Brizzi, Fulvio Irace, Margherita Petranzan, Massimo Carmassi, Franco La Cecla, Edoardo Piccoli, Alberto Ferlenga, Massimo Moschini, Roberto Zancan e Cino Zucchi)3 a pochi mesi dall'apertura della mostra. Pare che anche per la XIV biennale non si sia ancora scelto il curatore (ndr domanda posta prima della nomina ufficiale di Cino Zucchi), mentre la maggior parte dei paesi partecipanti stanno lavorando da tempo all'allestimento per il proprio paese.4 Crede sia un problema, per un curatore, avere poco tempo per ideare forse la più importante vetrina sull'architettura del mondo?

È certamente un problema e mi ritengo baciato dalla sorte perché, avendo il tempo più ristretto mai concesso a un curatore (tre mesi), sono riuscito a sviluppare un discorso e a rappresentarlo in maniera efficace all’Arsenale. Si tratta di un risultato che non sarebbe stato assolutamente possibile se mi fossi trovato ad affrontare la sfida come professionista isolato. Poiché invece sono esponente dell’Istituto Nazionale di Architettura, che da oltre cinquant'anni sviluppa una riflessione propositiva sul territorio italiano, ho potuto mobilitare le energie soprattutto giovani presenti nell'Istituto – oltreché tanti studiosi di altre discipline che hanno collaborato con generosità e competenza - facendo di quest’avventura uno straordinario momento di elaborazione intellettuale e di progettazione architettonica profondamente condivise.

Ma sconsiglio vivamente dal ritentare la stessa strada, affidando nuovamente la curatela del Padiglione Italia all'ultimo momento. La prossima volta potrebbe non andare bene e l’immagine del nostro paese, non sempre edificante, potrebbe gravemente risentirne.

16 dicembre 2013

Intersezioni ---> SPECULAZIONE
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Note:

1 il 28 novembre 2013 - fonte Sole 24 ore - Edilizia e territorio - è stata ufficializzata la nomina di Cino Zucchi come prossimo curatore padiglione italiano della VIX Mostra Internazionale di Architettura di Venezia 2014. 

2 Tratto dal libro ‘Il Profumo’ di Patrick Süskind, 1985.*

3 Di seguito i temi proposti dai mancati curatori e la loro relazione in pdf:


4 Il blog zeroundicipiù in questi mesi ha monitorato le varie assegnazioni dei curatori dei padiglioni nazionali, peccato che non abbia riportato la scansione temporale delle nomine. Sembra interessante il il tema aperto da storefront, curatore del padiglione USA, che ha ricercato cinque detonatori creativi per rielaborare, riformulare, reinventare e discutere i progetti realizzati dagli architetti americani in tutto il mondo nel corso degli ultimi cento anni.

Dieci cose che cercherò di fare grazie ai consigli di Add This

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di Salvatore D'Agostino

Dieci cose che cercherò di fare il prossimo anno grazie ai consigli di Add This: 10 Tips to Make Your Content More Engaging


Nel frattempo buon tutto a tutti.








1. Fregarmene dei dati
Per due motivi: elimina l’ansia dei grandi eventi e perché l’architettura è un affare per onanisti. Due esempi per capirci: 
  • l’intervista che pochissimi lettori avevano visitato o letto a Walter Siti una sera ha registrato un picco di visite solo perché lo scrittore stava parlando da Fabio Fazio;
  • molti link hanno balzi improvvisi di visita provenienti dai siti porno.
2. Non essere accattivante
Non limitare la libertà.

3. Non essere utile
Delegare i sermoni sull'architettura ai buoni samaritani.

4. Eliminare lo spirito di servizio
Lasciare la notizia ‘calda’ ai professionisti dell’informazione.

5. Essere il più possibile disconnesso
Cercare di fare sempre più cose nella vita reale.

6. L’indipendenza rende liberi
Evitare l’ottimizzazione.

7. Trovare il tempo per disegnare un nuovo layout
Eliminare tutte le impostazioni da ‘default’.

8. Disegnare, leggere, camminare, osservare e respirare
Fregarsene di qualsiasi test.

9. Scrivere senza limiti
Un testo vive del suo contenuto non dipende dalla sua lunghezza.

10. Ridere leggendo i consigli per diventare un bravo blogger
:-)


0014 [WILFING] Due punti

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di Salvatore D'Agostino
«Sono un blogger e un entusiasta degli spezzoni di narrativa associati casualmente, ma mi è sempre stato chiaro che il contenuto di un blog ha una vita corta. È come recitare una stand-up comedy.» (Bruce Sterling)1
Wilfing Architettura è una parte del mio tavolo da disegno che vive in rete. E, come sul mio tavolo da disegno, transitano progetti e idee con vite alterne: alcuni si dissolvono in poco tempo, altri stentano a partire, qualcuno resta a lungo. I più efficaci sostano poco tempo. C’è anche qualche amara eccezione: idee che non ho mai realizzato e che altri, nel frattempo, hanno concretizzato meglio di me. Progetti e idee che, osservati a distanza di qualche anno, se non mese, appaiono logori, forse un po’ inutili, imprecisi, ingenui, ma conservano l’energia spesa rincorrendo l’ossessione di un pensiero.

Per questo motivo, quasi annualmente, ho la necessità di fare ordine sul mio tavolo web. Quest’anno ci sarà solo una novità grafica: un secondo punto sull’header (titolo).


Poiché cercherò di lavorare su due punti:


primo | sulle continue metamorfosi delle idee:

nel suo libro ‘L’arte del romanzo’ Milan Kundera scrive:
«DEFINIZIONE. La trama meditativa del romanzo è sorretta dall’armatura di alcune parole astratte. Se non voglio cadere nel vago dove tutti credono di capire tutto senza capire nulla, devo non solo scegliere queste parole con estrema precisione, ma continuamente definirle e ridefinirle. (Si vedano DESTINO, FRONTIERA, GIOVINEZZA, LEGGEREZZA, LIRISMO, TRADIRE). Un romanzo, mi sembra, spesso non è che un lungo inseguimento di alcune definizioni sfuggenti.»2
WA (acronimo di Wilfing Architettura) è stato ed è un lungo inseguimento di alcune ‘parole’ dove ho cercato di far coesistere «idee e utopie distanti dal mio o nostro punto di vista». Ho incluso questa ricerca sulle parole nel post: intersezione.






Intersezione è un sostantivo che mi sono accorto manca di quella precisione che ricerca Milan kundera, in un primo momento ho pensato di sostituirlo contraendolo in ‘sezioni’ ma restava ancora vago, come anche le parole: rubriche, repertori, concetti, appunti. temi, contenuti. Per un po’ avevo semplificato trasponendo il concetto con un’immagine che lo rappresentasse, quindi per definire ‘WA come un contenitore d’idee precarie’ avevo pensato a una ‘scatola’, ma le occorrenze per scatola: cassetta, contenitore, recipiente, cofanetto non mi hanno aiutato; l’unica parola efficace e precisa era il corrispettivo in inglese: ‘box’. Non so come e non ricordo perché, mentre riflettevo sulla parola box mi è venuta in mente la parola ‘Aporia’. Aporia è un sostantivo nato nel 1829, secondo la definizione del Devoto Oli, e significa:
«Problema le cui possibilità di soluzione risultano annullate in partenza dalla contraddizione.»
Perfetto! mi sono detto, è la giusta sintesi per il mio tavolo da disegno in rete; non solo, l’etimo perfeziona ciò che in realtà è WA: dal greco aporía ‘difficoltà, incertezza’.

La parola vaga 'intersezione' da oggi sarà sostituita da 'aporie'.

secondo | nuove aporie:

la recente aporia Calendarioè stata tra le più lette dello scorso anno; è un’aporia che ha bisogno di tempo che cercherò d’intensificare nei prossimi mesi.

Le due novità saranno:


Pugno, carta, forbice
un viaggio disorganizzato alla ricerca delle centinaia di riviste, fanzine, dazebao, fogli, incunaboli, magazine pubblicati in Italia ogni giorno;

Buca
per ringraziare chi in questi anni mi ha spedito dei libri e che non ho mai trovato il tempo, o forse non ho mai voluto farlo, di parlarne. 

Il tavolo da disegno di WA, anche quest’anno, cercherà d’immergersi nella realtà di cui parla.

A dopo.

14 gennaio 2014
Intersezioni ---> WILFING
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Note:
1 Intervista collettiva, Bruce Sterling: “Ci salverà l'ingenuità”, La stampa, 25 gennaio 2013*

2 Milan Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi, Milano, 1988, p. 176


0012 [SQUOLA] Alessandro Anselmi: il disegno di architettura

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La parola scuola è spesso un inciampo, il suo suono trae in inganno.
Non di rado viene scritta sbagliata.
Squola è un errore ed è il nome di questa rubrica.
di Salvatore D'Agostino

Marco De Rossi a quattordici anni - insieme a Edoardo Biraghi – ha creato Oilproject per realizzare un sogno:

«Il sogno è che entro dieci anni tutte le lezioni tenute nelle scuole e nelle università pubbliche vengano condivise online a beneficio, ad esempio, di chi vive in zone con una scarsa offerta didattica, combattendo così il digital divide culturale italiano. La qualità delle lezioni è giudicata dal pubblico attraverso votazioni e meccanismi di valutazione fra pari.»*
Oilproject nasce nel 2004 ed è una scuola gratuita online dove docenti, ma non solo, possono proporre contenuti. Tra i molteplici corsi che riguardano i temi dell’architettura si distinguono delle lezioni, pre era web, tenute da Bruno Munari a Venezia nel 1992. Con il moltiplicarsi dei canali video il sogno di dieci anni fa di Marco De Rossi si è sviluppato all’infinito. Oggi è possibile avere come insegnante Bruno Munari o Steve Jobs, il suo discorso ai neolaureati di Stanford del 2005 insegna più di molte lezioni frontali ascoltate sui banchi di scuola. Come le conferenze annuali TED, tradotte in quasi tutte le lingue del mondo, condividono «ideas worth spreading» (idee degne di essere diffuse) e le finestre aperte del MIT, attraverso i video del medialab, ci regalano ore di buone lezioni online.

Senza i video amatoriali caricati da uno studente, prima su YouTube e poi su Oilproject, Stefano Bartezzaghi, forse, non gli avrebbe dedicato un capitolo del suo libro L’elmo di Don Chisciotte – Contro la mitologia della creatività e noi tutti non avremmo avuto la possibilità di ascoltare – come sospesi in un tempo non più fisico ma digitale – le sue lezioni. 


Approvando i sogni di diffusione delle idee accessibili a tutti in rete, a un anno dalla morte di Alessandro Anselmi, condivido una sua lezione sul disegno di architettura, ripescata dal centro audiovisivo IUSA voluto dal critico e storico d’arte Eugenio Battisti della facoltà di Architettura di Reggio Calabria.


di Isidoro Pennisi

Il documento in questione è la sbobinatura (ndr qui la storia) di un contributo di Alessandro Anselmi, offerto ad una rassegna di interviste realizzate a diversi architetti italiani, protagonisti del dibattito degli anni settanta e ottanta del secolo scorso e prodotte dal Centro Audiovisivo dello IUSARC di Reggio Calabria. In quest’intervista Anselmi affronta un tema ricorrente in quel periodo: come superare procedure, approcci ed anche risultati architettonici derivanti dalle ricadute più tarde del Movimento Moderno, per proporre nuove prospettive ritenute un po’ da tutti necessarie. È giusto dire che a livello generale e generazionale questo tentativo non fu assolutamente incisivo e maturo ma, più che altro, rappresentò una forma di reazione ad aspetti e temi che i giovani protagonisti dell’epoca non capirono sino in fondo. La questione del Movimento Moderno, infatti, era già stata elaborata e forse già superata dai maestri italiani del dopoguerra. Comunque li si giudichi, infatti, è indiscutibile che la loro posizione di “continuità” fu tutt'altro che acritica. Anzi, è forse il taglio della loro riflessione che caratterizza lo sforzo compiuto e il debito che tuttora noi abbiamo. Uno sforzo riconosciuto oltre frontiera, ma non da noi.

È in questo frangente, quindi, che crescono e si affermano una serie di architetti italiani, tra cui Anselmi, che fondano il loro tragitto esattamente sul rifiuto, anche radicale, di questa eredità italiana organizzata intorno alla scuola romana e milanese della prima parte del novecento. Anselmi, però, a mio modo di vedere, è forse l’unico tra questi che offre una via originale e meno ideologica. Il documento in questione, pur nella sua brevità, ha una sua importanza perché tra le righe è possibile intuire l’idea di questo approccio originale che può essere riassunto in questa maniera: l’architettura si fonda sulla soggettività e sull'esattezza, se la sua soggettività artistica risiede nel vedere gli uomini e la storia umana dietro i segni che organizziamo, la sua esattezza sta, soprattutto, nella scientificità con cui analizziamo e costruiamo lo spazio architettonico; una scientificità non matematica ma fondata sul disegno e sulla storia delle forme artificiali. 


Alessandro Anselmi

prima parte




L’intervista fa parte di un materiale documentario prodotto in occasione della Mostra Architettura Italiana degli anni settanta, curata da Enrico Valeriani e Giovanna De Feo, ed esposta presso la Galleria di Arte Moderna di Roma e la Triennale di Milano nel 1981*

Il progetto di cui parlerò è il frutto di un incarico che il comune di Parabita ha affidato al GRAU nel 1967. La sua realizzazione è iniziata nel 1974 per le ragioni, che tutti gli architetti conoscono bene, dovute alla burocrazia italiana. Il progetto fa parte di una ricerca particolare che in quegli anni, sia io personalmente che come componente del GRAU, si stava portando avanti. Erano anni in cui, in modo particolare, eravamo sensibili a tutti i problemi della geometria. Avevamo già sperimentato molti problemi della geometria soprattutto nel campo della geometria Euclidea e in quello della geometria classica. Ciò che abbiamo sperimentato nel momento della progettazione del Cimitero Comunale di Parabita, è il tentativo di entrare nella dimensione della geometria proiettiva. Il comune di Parabita aveva affidato a me e all’architetto Pallante l’incarico, non solo del progetto del nuovo cimitero in sé, ma anche del suo dimensionamento e della localizzazione. Noi abbiamo approfittato di questo incarico e dei suoi margini di manovra per porre fin dall’inizio un preciso limite spaziale al progetto. Infatti esso in planimetria è un quadrato che circoscriveva il campo d’intervento di questa nostra sperimentazione di tipo proiettivo. Questo quadrato è stato diviso in due spazi - o meglio in due semispazi - . Due semispazi con due leggi d’aggregazione diverse: con due tracciati regolatori diversi. Il progetto ha trovato la sua forma in questo gioco di opposizioni fra il tracciato regolatore legato al punto finito e il tracciato regolatore al punto infinito. Man mano che il progetto andava avanti abbiamo continuato un’elaborazione di forme che di volta in volta erano nel campo dell’infinito ma legate al punto finito, o nel campo del finito ma legate alla logica del punto infinito. Ad esempio, le due spirali che stanno nella parte superiore della planimetria sono chiaramente due immagini legate al punto infinito e sono le immagini archetipiche della continuità legata al punto finito. 

Viceversa, la sinusoide, che è un segno tipico della legge della continuità ma legata al suo asse e cioè al punto all'infinito, è chiaramente circoscritta e determinata nella sua spazialità nel campo del punto finito. Sostanzialmente è questa la logica attraverso cui siamo andati avanti nella progettazione di questo cimitero. Adesso non voglio entrare nei particolari della costruzione dell’Ossario o nei particolari della costruzione dei muri di recinzione. Voglio soltanto dire, ad esempio, che il cimitero, anche dal punto di vista della sua soluzione tridimensionale, è collegato a questo punto di unione fra i due campi. Non voglio neanche dilungarmi molto sulla logica geometrica del progetto. Sottolineo solo il fatto che in quel periodo vivevamo un momento fondamentale della ricerca mia e del GRAU e di altri amici del GRAU in cui questi ragionamenti erano all'ordine del giorno. Non voglio nemmeno dire che questa fosse l’unica ricerca del GRAU.

A fianco a questa, e già da diverso tempo, si stava sperimentando un altro tipo di ricerca, che era quella sui segni storici dell’architettura. Credo sia molto evidente che l’immagine complessiva del cimitero di Parabita derivi da un’analisi della struttura dell’ordine Corinzio;,del capitello Corinzio. È interessante notare che dal punto di vista metodologico questo doppio binario che in quegli anni guidavano la nostra ricerca, cioè da una parte la sperimentazione spaziale legata alle possibili sperimentazioni geometriche e dall’altra la ricerca del segno, attraverso un rapporto con la storia. In questo progetto è evidente. Però vorrei chiarire un fatto per evitare qualsiasi possibilità d’interpretazione storicista di questo tipo di metodo. Io credo che non c’è identità con la storia o analogia con la storia. Esiste nel metodo di progettazione un particolare momento, un particolare momento critico vorrei dire, in cui l’analisi di un oggetto storico si stacca dalla determinazione storica stessa, perde il senso della sua determinazione, e rimane in un certo senso forma vuota. È in questa condizione che, come tale, è possibile la sua ripresa, è possibile la sua nuova interpretazione. Solo in questo caso è comunque possibile avere un rapporto con questo segno, che invece in altri momenti è determinato specificamente, fa capo ad un insieme di significati, è definibile all'interno di un particolare arco della storia dell’uomo.


seconda parte



Uno dei grandi vantaggi della sperimentazione architettonica intorno al rapporto con la storia e soprattutto in una sorta di metodologia del doppio binario tra approfondimento spaziale e archetipo figurativo. Credo che questo approccio possa dare oggi risultati molto positivi, se è appunto visto correttamente e nel senso che dicevo prima. Già alcuni risultati positivi, a mio modo di vedere, stanno arrivando. Innanzi tutto si è usciti dalla metodologia ortodossa del Movimento Moderno. Io non sono d’accordo con Bruno Zevi. Una cosa che mi è molto piaciuta di Bruno Zevi, però, è proprio la sua critica all'ortodossia. Una critica alla stupidità sostanziale di certi architetti. Si è usciti da questa stupidità e finalmente tutta l’area della figurazione incomincia ad essere ripresa dagli architetti. Non solo è ripreso il discorso sulla forma ma sono ripresi anche i discorsi sui metodi di analisi sulla forma. Uno di questi metodi è da sempre il disegno. Direi che in fondo il Movimento Moderno aveva messo da parte il discorso sul disegno, aveva considerato il disegno, o meglio l’autonomia del disegno, come uno degli elementi dell’Accademia. In un certo senso aveva combattuto il disegno stesso accettando, se volete, una parte soltanto del disegno: la parte tecnica, la parte che serviva ad esprimere la progettazione tra virgolette, una progettazione completamente separata da qualsiasi analisi formale. Naturalmente questo è il metodo ortodosso del Movimento Moderno, non certo la sperimentazione dei grandi maestri; non certo i grandi progetti che sono stati fatti nella prima parte di questo secolo che, invece, non soggiacciono a questo tipo di metodologia; ma questi non sono certo né progetti, né personaggi ortodossi. 

Dicevo, allora, che in questi ultimi tempi si è aperto di nuovo il discorso alle arti figurative, e gli architetti disegnano. Si è detto molto sul disegno degli architetti, se n’è fatta anche un’analisi sociologica giusta. Non esiste più la committenza, c’è una grande crisi nel settore della professionalità dell’architettura e quindi per sopperire a questa crisi è inevitabile che gli architetti tornino nuovamente a realizzare sulla carta i loro sogni. È un’interpretazione in parte chiusa, e in parte che fa capo ad un sociologismo che forse è corretto definirlo romantico. Un sociologismo che in fondo è ancora connesso con il Movimento Moderno, e quindi assegna molta importanza alla tecnica progettuale più che alla ricerca complessiva dell’architetto. Io credo che esistono altre ragioni, invece. Queste dipendono appunto dalla riscoperta di un metodo e dall'invenzione di un metodo nuovo in cui la ricerca della forma passa per la complessità degli strumenti della forma stessa. Quindi la riscoperta dello strumento fondamentale dell’analisi formale che è il disegno. Detto questo bisogna anche sottolineare l’abuso che negli ultimi tempi è stato fatto del disegno. Accettata la critica sociologica di cui prima si diceva, accettata la dilatazione dei campi disciplinari in una dimensione più vasta, mi sembra invece riduttivo collocarsi semplicemente sul piano del disegno in quanto architetti: questa può essere un’ulteriore riduzione del campo disciplinare invece che un’apertura del campo disciplinare.

Personalmente sono un architetto che disegna e mi piace moltissimo disegnare, però credo di avere la coscienza del limite fra un disegno che esiste in quanto tale, cioè esiste come attività artistica autonoma dall'architettura, ed un disegno che pur essendo autonomo dipende dall'architettura. Direi che la definizione più interessante, a mio avviso, è quella che definisce quest’attività del pensiero come un’attività di analisi della forma, di approfondimento dei problemi dello spazio architettonico. Questo non significa negare l’autonomia del disegno, cioè negare la validità artistica del singolo disegno, ma pur tuttavia è bene precisare che questa validità artistica esiste nella misura in cui nasce da una dimensione che, per esempio, non è quella della pittura, non è quella della scultura, ma è specificamente dell’architettura. Dall'altra parte, non si può assegnare soltanto al disegno il problema dell’analisi formale. Esiste da sempre l’analisi formale portata attraverso la critica letteraria ad esempio. Oggi esistono degli strumenti come il cinema e la fotografia. Direi che tre quarti degli architetti ormai sono degli ottimi fotografi e non vedo allora che tipo di differenza possa esistere fra il disegno e la fotografia, il disegno la fotografia e il cinema. Vorrei dire che sono possibilità della ricerca alle quali noi possiamo benissimo attingere. Il problema però è non scavalcare un determinato ambito senza la coscienza che bisogna poi ritornare dentro quello dell’architettura in veste d’architetti.

28 gennaio 2014
Intersezioni ---> SQUOLA

0035 [A-B USO] Mario Fillioley | Appena a sud da Siracusa

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di Salvatore D’Agostino

Non-luoghi, superluoghi, iperluoghi, junkspace, generic city, anticittà, villettopoli, ecomostri, aree abusive, centri storici vs periferie sono i neologismi che la teoria urbana, in questi ultimi decenni, ha sentito l’urgenza di utilizzare per uscire fuori dagli ambiti specialistici e comunicare POP. Creando un’infinità di gadget lessicali per definire problemi complessi usando parole immediate e spendibili in pochi secondi.


Parole che il giornalismo urbano ha stereotipato trasformando la complessa geografia civica e sociale in luoghi tematici piatti e uguali. Una sorta di demenza teorica urbana che ha distrutto, se non annullato, il complesso rapporto dei luoghi con l’abitare, poiché «non si può parlare del mondo come se fosse tutto uguale» osserva Walter Siti1, non si può più parlare di luoghi e città usando tautologie critiche rassicuranti POP senza camminare a piedi e con gli occhi aperti.


Un camminare a piedi con gli occhi spalancati che ho ritrovato in un articolo2 di Mario Fillioley. In questi anni, Fillioley, ha percorso migliaia di volte la tratta che da Siracusa lo portava nella sua villetta abusiva di famiglia a pochi chilometri da piazza Duomo. Questo più che decennale andirivieni gli ha permesso di cogliere i cambiamenti che da A (villetta status symbol per i locali) si sta trasformando in B (luogo di turismo globale). Un mutamento che il teorico urbano POP avrebbe sintetizzato con le parole anticittà, abusivismo, villettopoli.











di Mario Fillioley

Abito a Siracusa, città sulla cui costa nord, quella immediatamente accessibile per la balneazione, a un certo punto venne impiantato un polo petrolchimico. La prima conseguenza fu un improvviso arricchimento della popolazione. La seconda furono i debiti e la villetta.

La villetta siracusana è un po' anomala: seconda casa al mare, dista pochissimi chilometri dalla prima abitazione, anch'essa sul mare. Potendo scegliere, la villetta sarebbe stato il caso di costruirsela in montagna, sugli Iblei. Però il mare cittadino era diventato impraticabile: scarichi fognari a parte, sulla costa nord si accanirono anche i moli di attracco per le petroliere, con i relativi sversamenti, e, soprattutto durante i primi anni, le ciminiere (all'epoca poco regolamentate) ci andavano giù pesante coi miasmi. Così a un certo punto non ci fidammo più di fare il bagno ai Piliceddi o a Fondaco Nuovo, e iniziò una specie di transumanza verso le acque cristalline di Fontane Bianche.


Doppiato Capo Murro di Porco, ecco la Fanusa e poi l'Arenella: un primo tratto di mare vergine e di comode spiagge sabbiose (in città solo scogli) che da lì, superando Ognina, si estendono per tutta Fontane Bianche fino al gelsomineto della Marchesa di Cassibile. Distanza dall'abitato: circa sedici chilometri. Sedici chilometri si coprono in neanche un quarto d'ora di macchina. Perché spendere tanti soldi per costruirsi una villetta a un quarto d'ora da casa? Probabilmente intervenne il fattore status symbol: non sono più un contadino, adesso faccio l'operaio specializzato, l'impiegato di concetto, il bancario, posso permettermi i figli all'università e pure la casa al mare.

In effetti le case di villeggiatura dei nobili, quelle ottocentesche o liberty, erano tutte in contrada Isola, di fronte al porto, e si chiamavano ville. Quelle di Fontane Bianche, Ognina, Arenella, Fanusa invece no: da subito (e per sempre) si chiamarono villette, anche quando superarono in numero e dimensioni quelle nobiliari dell'isola. Un sintomo linguistico, quindi, nel senso che sì, col petrolchimico avevamo più soldi, ma nemmeno tanti. Meglio costruire a due passi da casa, allora. Perché magari così i muri li tiro su io stesso quando finisco di lavorare. La domenica mio fratello e mio cognato mi vengono a dare una mano con gli spioventi del tetto: piano terra, veranda coperta e piano rialzato. E poi, se la seconda casa è vicina, controllarla, gestirla, manutenerla sarà meno costoso e più pratico.


Villeggiare dietro casa, a pensarci bene, non è un'idea cretina: conviene. Qua fa caldo fino a novembre, e visto che è così vicina possiamo usare la villetta per la scampagnata del giorno di Pasquetta, la grigliata del primo maggio, un fine settimana di tarda primavera. Quando si chiudevano le scuole, le mogli casalinghe degli operai insieme con i ragazzi si godevano mare e giardino per ben tre mesi, e il marito poteva rincasare la sera, a fine turno, giusto qualche chilometro di macchina in più, nell'attesa che arrivassero le ferie d'agosto.


Il piano regolatore non esisteva. La Regione siciliana ci metteva un bel po' ad approvare norme e deroghe sul demanio marino, la distanza dall'arenile, la tutela del paesaggio, e nel vuoto normativo io mi tiro su la villetta direttamente sulla spiaggia. Oppure mi recinto questo tratto di scogli qua e ci faccio una scala in cemento che mi porta direttamente a mollo. La discesa a mare privata. Lo scivolo per il gommone. Un cancello sulla sabbia. Poi la normativa sulla distanza dalla costa arriva: 150 metri, la metà di quella prevista in Continente. E a ruota arrivano anche le prime sanatorie: hai visto? Te l'avevo detto io: costruisci, che niente ci fa, poi pensa Dio.


Risultato: Fontane Bianche non ha un lungomare, una piazza, un marciapiede. Solo villette. Da un lato e dall'altro della Statale 115, che è l'unica strada che la attraversa (al punto che in quel tratto la chiamiamo viale dei lidi). 



L'idillio ci mise un attimo a trasformarsi in nevrosi, e la vicinanza della seconda casa giocò un ruolo fondamentale: se la villetta è a dieci minuti di macchina, non c'è nessuna cesura tra lavoro e ferie estive, e finisce che continui a fare la spola tra il mare e la città, in continuazione e per i motivi più futili. Quindi eccoli là i siracusani, motorizzatisi da poco, in coda sulla via Elorina per andare a comprare il pesce al mercato di Ortigia e poi ritornare a grigliarselo nel giardino di Fontane Bianche. Su e giù, anche più volte al giorno.

Gli anni in cui io fui bambino e poi giovane, a ricordarseli adesso, furono pura schizofrenia. I divertimenti notturni, per esempio. Se ci trasferivamo in villetta, facevo sedici chilometri in motorino ad andare e altri sedici a tornare per una semplice passeggiata al Duomo. Allora i miei genitori, per evitare che io ogni notte rischiassi l'osso del collo su strade extraurbane poco illuminate e peggio asfaltate, decidevano che l'estate prossima basta, si rimane in città. Ma in un anno la moda cambiava, e la stagione successiva il posto in cui bisognava assolutamente essere ogni sera era il centro Frisio di Fontane Bianche. Motorino, chilometri, su e giù: mettiti il casco altrimenti ti scippo la testa, diceva mio padre.

Vabbè, poi si cresce. Vai a fare l'università fuori, e quando torni per l'estate decidi che quest'anno no, te ne stai in villetta e non ti muovi più: sdraiato sull'amaca tesa tra i due pini (com'è rasserenante l'ombra dei pini, pensano i tuoi guardandoti leggere beato). La villetta, però, mentre tu fai l'università invecchia. Non è tanto che mostri segni di cedimenti strutturali (un po' sì: nel frattempo ha già i suoi vent'anni, e oltretutto l'ha tirata su tuo padre, nei ritagli di tempo, col fratello e il cognato) quanto che è un po' trascurata. I tuoi ci vanno di meno, perché tanto voi figli scendete giusto un paio di settimane in agosto: e allora per due settimane che fai? Non vale neanche la pena di mettersi a ridipingere le tapparelle. E se all'angolo del soffitto si forma un poco di muffa, pazienza, ci pensiamo l'anno che viene.

Finisci l'università e la villetta adesso è proprio malandata. Pure i tossici si sono accorti che ci andate poco. Subite qualche furto. L'arredamento, depauperato, è diventato spartano. Il forno in pietra ha la canna fumaria otturata dagli aghi di pino (che alberi infestanti, i pini, pensa tua madre mentre la pizza si brucia). La stufa a legna ha lo sportellino rotto. Anche la pavimentazione del vialetto d'ingresso è saltata per via delle radici (mai piantare pini in una villetta, dice il piastrellista sfregandosi le mani a tuo padre che gli sta firmando il preventivo). Tutto sommato però, ogni tanto riesci a portarci una ragazza, e la casa al mare, che con l'umidità che c'è qui d'inverno fa tanto bohème, il rumore delle onde, niente tv perché se la sono fottuta i ladri, giusto un plaid per avvolgervi stretti e non morire di tisi, insomma: se non volevi combinare niente me lo spieghi che ci siamo venuti a fare tu e io qua in pieno gennaio?

La villetta assolveva questa funzione demografica di contrasto alla nascita zero. Ne assolveva pure un'altra: fare da sfogo per il nervoso di tuo padre. Perché in tutto quello stato d'abbandono una sola cosa era in perfetto ordine: il giardino. Tuo padre usava la villetta per scaricare le tensioni su piante e alberi: gli esseri viventi più inermi del creato. Non appena aveva un minuto libero, via in villetta a decespugliare, tosare erba, usare la sega a scoppio per tagliare rami (mai della dimensione giusta per la stufa: fu tentando di introdurvi uno di questi tronchi che si ruppe lo sportellino) e potare.

Grazie a lui, almeno il giardino è curato, sì, ma come lo è la testa di un bambino quando si teme possa prendere i pidocchi. La macchia mediterranea, un tempo lussureggiante su aiuole e vialetti, adesso è il monte di Venere glabro di una pornostar. Le siepi di oleandro, che seppero essere potenti schermature per gli sguardi del vicino, tuo padre, questo estroso coiffeur del verde, ha deciso che quest'anno si portano corte, a spazzola: look androgino, ti dice.

In questo eccessivo nitore del giardino, la decadenza della costruzione risalta ancora di più. Bisogna correre ai ripari. Un piccolo investimento iniziale, allora, giusto una rimessa in sesto, e poi darsi alle locazioni stagionali. Affittasi, anche per brevi periodi. Funziona. Coi soldi si riescono ad ammortizzare le spese di restauro e quelle di manutenzione. La villetta rinasce a un certo splendore (mitigato dal fatto che tuo padre continua a occuparsi del giardino). Solo che non è più casa tua. L'hai prima svuotata e poi riempita di suppellettili che non ti sono mai appartenute. Hai dipinto le pareti di un colore diverso. Sotto ai pini, al posto dell'amaca, c'è un salottino in tek scuro coi cuscini bianco écru. E se nei periodi in cui è sfitta ti sogni di portarci quella che nel frattempo è diventata tua moglie, l'ansia di sporcare, rovinare o rompere qualcosa condanna il bambino concepito in quel famoso gennaio a rimanere figlio unico.

La vita è andata avanti, la villetta ha cambiato funzione, ma per fortuna è ancora lì, solida: il mattone che mai tradì la famiglia italiana. Però tuo padre s'è fatto un po' anziano, si stanca. Il sabato ti obbliga ad andare lì insieme a lui, si siede sul muro a secco e inizia a impartirti ordini, affinché sia tu, il suo diretto discendente, a martoriare piante e siepi in sua vece. Prima di piantare la sega su un ramo d'acacia, esiti. Guardi tuo padre, assiso su quel trono di pietra, e speri si intenerisca. Invece lo vedi febbrile ed eccitato: un sovrano che comanda al boia l'esecuzione. Però che ci puoi fare? È tuo padre, gli devi ubbidienza. Che la pianta soffra il meno possibile, almeno.

Allora, mentre compio questa specie di deforestazione autunnale azzerando qualsiasi forma di vita vegetale a colpi di decespugliatore, mentre abbasso di altri quattro centimetri la siepe di oleandro e mi ritrovo faccia a faccia col figlio del vicino, obbligato come me dal padre a potare la stessa siepe dal lato opposto, mentre ci guardiamo l'uno negli occhi dell'altro e ci indichiamo vicendevolmente col mento il nostro rispettivo genitore, seduto sul muretto a secco che ci cazzìa perché non stiamo tagliando bene, non stiamo tagliando abbastanza, non ci stiamo mettendo la giusta dose di ebbro furore, mentre ci sorridiamo complici portandoci l'indice all'orecchio come a significare: possono dire quello che vogliono, perché tanto col rumore che fa ‘sto coso non sentiamo niente, mentre il mio terreno, il mio giardino, la mia casa sfumano nei suoi e i suoi nei miei fino a confondersi in un tutto indistinto, sento una specie di afflato, un senso di appartenenza alla comunità siracusana con cui da sempre fatico a venire a patti, e inizio a farmi domande che, se potessi, mi poterei volentieri via dalla testa.

Noi cittadini di questa poco civica città, nel fregarcene di piani regolatori e di distanze dalla costa, nel costruirci a nostro uso e consumo villette sul mare cui abbiamo freudianamente affidato il compito di risarcirci dalla perdita di un altro mare (quello della costa nord), eravamo, siamo stati, veramente nel torto? Abbiamo davvero perpetrato degli abusi edilizi? Abbiamo peccato contro le nostre stesse risorse?

Prima che le villette mutassero destinazione d'uso, da seconde case a foresterie, io avrei risposto subito di sì, senza esitazione. Avrei aggredito chi mi avesse posto una domanda tanto stupida e gli avrei sventolato sotto al naso la piantina catastale della mia villetta, comprata da un vecchio e ligio professore di matematica, individuo dalla moralità specchiata, in regola con le cubature, le concessioni, le distanze. Avrei tacciato tutti gli abusivisti di scempio, li avrei presi per miopi e ignoranti, gretti, incapaci di comprendere come, devastando la costa con le loro costruzioni, avessero privato se stessi e la città intera dell'unica vocazione economica in possesso del nostro territorio: il turismo.

Invece qui, avvolto da una nuvola di fogliame che si stacca da queste piante che mio padre, pieno di un odio di cui non riesco a comprendere l'origine, mi incita a massacrare, penso che non lo so più se è così. Da quando anch'io, come un sacco di siracusani, affitto la mia villetta ho dovuto farci i conti: siti, portali, agenzie, tour operator. Tutti richiedono case sul mare. La mia viene spesso scartata perché il mare dista, a piedi, circa trecento metri. Una passeggiata di meno di cinque minuti.«Quali sono le case che affittate di più?», ho chiesto alle agenzie con cui lavoro di solito.



«Quelle sul mare».

«Ma la mia è sul mare. Le verande si affacciano sul faro, le terrazze guardano il golfo».

«Non hai capito: sul mare significa che apri la porta e cadi in acqua».

«E qual è la zona più richiesta?».

«Fontane Bianche».

Siracusa negli ultimi anni ha avuto un'esplosione turistica: calo di presenze sul Continente, controtendenza assoluta nella mia città, e, per quel poco che la mia (assai circoscritta e nient'affatto scientifica) microindagine via mail ha svelato, l'esplosione di Siracusa come località balneare per famiglie e piccole comitive sembra legata a questa capacità capillare di offrire alloggi direttamente su scogliere e arenili.

Francesi, tedeschi, russi, belgi, danesi, svizzeri, inglesi, e poi veneti, friulani, lombardi, emiliani: praticamente tutti, compresi gli unni e i visigoti, cercano su internet villette sulla spiaggia o con la discesa a mare privata. Come funziona allora questo abusivismo edilizio che deprechiamo e condanniamo da decenni? Sento il ronzio del decespugliatore che mi fracassa i pensieri e me li fa tutti ispidi: vuoi vedere che quando l'abusivismo serviva a risarcire noi stessi dai veleni del petrolchimico era una cosa da terroni incivili, malandrini in ogni molecola del loro Dna, e ora, invece, che serve a rendere più comode le ferie del brianzolo col Fatto Quotidiano sotto al braccio non è poi così male?

Spengo il decespugliatore e chiedo al figlio del vicino se anche loro affittano.

«Sì – mi dice –, ma purtroppo solo nei picchi di stagione».

A suggerirci di affittare, sia a me che a lui, è stato un altro vicino, con la casa sugli scogli. Anni fa, la villetta di questo vicino doveva addirittura essere demolita, c'erano le palle di ferro pronte, poi non se ne fece più niente. Lui, nelle more tra una sanatoria e l'altra, prese ad affittarla, e adesso è sempre piena, anche in autunno. Piena di gente molto alta e molto bionda: padri, madri, bimbi tutti bellissimi e tutti di un fototìpo catarifrangente, specie di Obelix che da piccoli devono essere caduti dentro la pentola della protezione solare cinquanta: discendenti di una stirpe vichinga residente in nazioni dove case costruite in una posizione come quella che hanno affittato qui non sono concepibili neanche in sogno.

Di questo nostro obbrobrioso paesaggio costiero balneare, dunque, non è cambiato nulla, se non i suoi fruitori.

«Però è cambiato lo Zeitgeist», dico pieno di un entusiasmo da eureka al figlio del vicino.

«E che è? – s'informa quello – Un diserbante? Pure tuo padre è fissato coi diserbanti?», mi chiede.

«No. Cioè sì, pure mio padre è fissato, ma io intendevo dire che, anche se tutto è rimasto identico, adesso ci ritroviamo in un contesto sociale talmente mutato da avere invertito i fattori decisivi per risultare vincenti nell'offerta turistica: fai schifo, mia cara costa siracusana, sei devastata, ma quanto sei comoda, con queste tue villette che saltano direttamente in acqua».

«Senti, fermiamoci, che mi fa male la spalla». 

Il giardinaggio è così: stanca il corpo e non appaga la mente. Pure io mi fermo. Ma non provo sollievo. Penso che se funziona in questo modo, allora significa che l'obbrobrio è obbrobrio finché lo guardi da fuori, e se invece lo guardi da dentro casa tua diventa bellezza. Ecco che allora tutti vogliono diventare proprietari, fosse anche solo per una settimana, di una bella casa abusiva.

«Secondo te perché?», chiedo al vicino mentre i nostri genitori si lamentano tra loro di quanto siamo sfaticati, della nostra evidente inettitudine al giardinaggio.

«E che ne so?», mi risponde lui.

«Te lo dico io perché», gli faccio. «È la linea della palma che è salita, che sale ancora, che salirà all'infinito».

«La palma?», dice lui guardando il giardino. «La palma mica è salita: sono tre anni che il punteruolo rosso ce le ha distrutte tutte, le palme, guarda qua». E mi indica due tronchi senza più foglie: due prepuzi perfettamente circoncisi e incappucciati da un contraccettivo in nylon verde, intriso di insetticida. Poi riaccende il decespugliatore. Mio padre è sempre seduto sul muro a secco. Mi sta guardando con la faccia delusa di uno che aveva pagato per vedere Tyson che stacca a morsi le orecchie e si è ritrovato al Bol'šoj tra piroette in tutù: finiscilo! abbattilo! mi sta gridando con gli occhi. Quando finalmente mi autorizza a spegnere il decespugliatore, io e il figlio del vicino ci stringiamo la mano quasi sotto alle palme. Alzare di nuovo lo sguardo verso i due totem è inevitabile:

«Certo che però ‘sto punteruolo rosso sarebbe proprio il giardiniere ideale dei nostri genitori», ci diciamo all'unisono prima di separarci

27 febrbaio 2014
Intersezioni ---> A-B USO
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Note: 

1 Pubblicato grazie l'autorizzazione dell'autore, articolo apparso sul Sole 24 ore, Fenomenologia della villetta, 24 febbraio 2014 (ndr il titolo 'fenomenologia' mi fa amare sempre di più i titolisti dei giornali)

2 Intervista di Goffredo Fofi a Walter Siti, Le maschere del presente, Lo straniero, ultimo aggiornamento 31 luglio 2012*

Mauro Francesco Minervino: Chi vive in Calabria, chi gioca col fuoco, chi ha scarsa memoria

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Pubblico un breve estratto dell'intervento che il dromofilo Mauro Francesco Minervino terrà domani 4 settembre al Festival di letteratura di Mantova, tenda Sordello (nella mappa punto 9) alle ore 18.00. 



Mauro Francesco Minervino

   Cerco ancora un modo per orientarmi nello spazio del mondo. Perciò scrivo libri che nascono allo scoperto, in movimento, da un viaggio, dalla strada, che somigliano essi stessi a viaggi, strade, a incontri e relazioni impreviste che nascono da percorsi insoliti e accidentati. Lo faccio per “riportare su un piano di realtà le nostre percezioni, sempre più deprivate di competenze spaziali, ovvero delle capacità di muoversi in un mondo a tre dimensioni”. Resto convinto anch’io che in questo modo, riconquistando la visione alla “profondità di campo”, con una «diversa ecologia percettiva e spaziale, la nostra competenza tridimensionale potrà risorgere, o almeno non spegnersi del tutto» (M. Belpoliti). Per cercare di ricordare quello che vedo, per tentare di venire a capo di quello che leggo del mondo, nonostante tutto, privilegio ancora l’esperienza dei sensi nella dimensione del reale, il movimento nel tempo e nello spazio, a tre dimensioni. Lo “stato in luogo” di cose e persone è il condensato di questa esperienza, l’oggetto che per me assomma e riproduce ogni realtà, ogni ricordo sensibile del mondo e del suo essere FACTUM, VOLUMEN.
   Penso a un libro che racconta i luoghi e le persone così come sono adesso, privilegiando la dimensione del viaggio e il racconto di esperienze sul campo, di sguardi e narrazioni sul contemporaneo al Sud. Penso a un libro di luoghi e persone, di “movimento e passione”. 

   Tra andate e ritorni, souvenirs e disdette, ho tentato ancora una volta di narrare e mettere in scena, narrando dal vero, la minuta dialettica degli incontri e dei luoghi di oggi, le esperienze, le disillusioni e gli incanti che hanno guidato e guidano ancora - anche chi scrive qui, proprio da dentro il medesimo campo di esperienze e ricusazioni - alla ricerca costante di un altrove e di un paese possibile, affrontando consapevolmente il rischio dell’impermanenza, la mobilità finale di quell’essere gettati sulla strada che è tipico della dimensione del contemporaneo, accettando così lo spaesamento, l’esilio, il domicilio instabile e la dimora in un altrove che si fa per tutti sempre più prossimo e spiazzante. Spero che tra le pagine di questo libro-viaggio in cui la Calabria è sempre più metafora e specchio ustorio di un’Italia in crisi, affiori l’ansia di conoscenza e di comprensione di chi ha immaginato, polemizzato, detestato, amato e abitato i luoghi e gli incontri ordinari e straordinari di un Sud meridiano che malgrado tutto resta punto archimedico della geografia e dell’anima. Un libro sul bisogno di situare oggi nello spazio e nel tempo della mia e delle nostre vite un nuovo e più accogliente confine dell’umano.

3 settembre 2013

L’ultimo libro di Mauro Francesco Minervino, Chi vive in Calabria/Chi ha scarsa memoria. Viaggio a Sud è edito da doppiozero. Link

Su Wilfing Architettura si può leggere una lunga intervista con l’autore divisa in quattro parti: prima, secondaterza e quarta.


Windows of the World - Aerial Photographs by an Astronaut

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The photographs that the astronaut Luca Parmitano has been publishing recently on his Facebook page are pictures of pure emotion, too. A member of the Expedition 36 mission, he took off from the Baikonur cosmodrome in Kazakhstan on May 28 and is due to return to earth in November. Now, Parmitano is orbiting 400 kilometers (248 miles) higher than Nadar's balloon flew. During work breaks he has shot these photographs through what he calls "the window on the world" and he is sharing them with his wide circle of Facebook friends, complete with short captions. 
Photographs of superhuman serenity, which I have chosen and post in reverse chronological order. I will update them until the end of the mission.

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The city and the IT revolution - By Antonino Saggio

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By Antonino Saggio

We're talking about an IT revolution. So, it's hardly surprising if the differences between a "second wave" city - as Alvin Toffler would define it - and a "third wave" or "information" city are very great. Indeed, the city is the biggest and most complex artifact created by humanity, as a system for accelerating its productive capacity. Consequently, the transition from an urban structure based on the manufacturing industry to one based on the organization, diffusion, and formalization of information brings with it profound changes.

Internet

In its formative logic, the industrial city incorporated the logic of Taylor's organization of work. This translated into choices - both organizational and physical.
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0009 [HERESPHERE] Ciro Corona scrive a Roberto Saviano: Robbe'è Scampia la risposta alla fiction

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di Salvatore D'Agostino

Ci sono luoghi, mai attraversati, che tutti pensiamo di aver visto grazie alla ridondanza dei media che li ha scolpiti nel nostro immaginario visivo, Scampia è uno di questi, forse il luogo più visto ma mai visitato d’Italia.

Scampia, negli ultimi anni, è diventato il set ideale dove girare tutti i luoghi comuni - gli stereotipi, le dietrologie, i titoli per nutrire la pancia dei non lettori, rimarcare le differenze di un sud senza speranza - del circo ‘mediatico’. 

Scampia ‘la vive’ Ciro Corona che da anni con l’associazione ‘(R)ESISTENZA’ è entrato in guerra contro l’illegalità e la sua cultura camorristica. Una guerra, non un’indignazione sferzante magari arguta ed emotivamente coinvolgente da chi sta seduto comodo sul divano di casa. Quella di (R)ESISTENZA è una guerra fisica, concreta, difficile, attiva che non accetta la mistificazione e la semplificazione di chi immagina ciò che non vive.

V’invito a leggere la lettera che Ciro Corona ha spedito, usando la bacheca di facebook, a Roberto Saviano sceneggiatore della fiction ambientata a Scampia (una lettera - heresphere - dove Ciro Corona dice: questo è l’intorno di Scampia, adesso, in questo in momento):

Ciro Corona

Caro Roberto,
mi ritrovo a riscriverti a distanza di un anno con la consapevolezza che nemmeno questa volta raccoglierai l'appello né ci sarà mai risposta. Negli ultimi giorni ci si ritrova in una nuova "faida del bene", dove chi dovrebbe essere garante di una "rete", di un lavoro di squadra, sembra essere schierato in trincea pronto ad aprire il fuoco sull'altro. Sembra, ma sappiamo che non è così. Allora facciamo un po' di chiarezza.








Con l'arrivo della fiction Gomorra il quartiere Scampia è ritornato sotto i riflettori mondiali per essere il territorio dove per trenta anni la camorra ha dettato legge in modo incondizionato. Denunciare lo strapotere e l'onnipotenza della camorra è cosa giusta, utile e soprattutto è un dovere, che si aspetta da te e ci si aspetta la conseguente denuncia dell'abbandono istituzionale che ne consegue (anche se non sempre quest'ultima denuncia ti diventa consequenziale).

Che cosa ha allora da contestare Scampia (e Napoli) ad un atto così doveroso e nobile?

Siamo sempre stati convinti che i territori li conoscono chi li vive (attenzione, non chi ci vive, son due cose diverse) e se dal territorio arrivano messaggi contrastanti a quanto si denuncia, due son le strade: o ci sono ottantamila omertosi e collusi a Scampia o forse bisogna ascoltare le idee divergenti.

Scampia non è più terra ostaggio di camorra, facciamo solo qualche esempio per rendere l'idea:
  • delle venticinque piazze di spaccio di droga presenti sul territorio oggi ce ne sono due (basta chiedere al commissariato di zona);
  • non si spaccia più alla luce del sole blindando i cancelli dei palazzi ma si vende come in ogni piazza di spaccio d'Italia, nascosti o per corrispondenza (basta farsi un giro per il quartiere);
  • non ci sono più "stanze del buco" e laddove barcollavano i tossicodipendenti oggi ci sono aiuole con giostrine per bambini (si può chiedere alle forze dell'ordine, alle associazioni che ci lavorano o ai rappresentanti della Municipalità);
  • da un numero di zero denunce si è passati alla media di nove denunce al mese contro l'abusivismo edilizio, animali in cattività o tentata apertura di piazze di spaccio (si può chiedere al Commissariato di zona o allo Sportello Anticamorra);
  • si gestisce, rendendo produttivo, il primo bene agricolo confiscato alla camorra con l'inserimento lavorativo di minori dell'area penale (Basta chiedere ai servizi sociali competenti);
  • è in fase di apertura l'università: Facoltà di medicina dell'Università Federico II di Napoli;
  • la dispersione scolastica è calata tanto da portare Scampia non più al 1° posto ma al 3° o 4° posto nella "classifica" come quartiere col più alto tasso di abbandono ed evasione scolastica d'Europa (dati di due o tre anni fa, tu sarai più bravo di me con le ricerche).

Questo significa che la camorra non c'è più?

Assolutamente no. Semplicemente oggi si è ridotta a bande criminali sul Quartiere e quella che tu "denunci" si è spostata in altre zone, in altri quartieri, compresa quella di F4 come tu chiami l'ultimo dei Di Lauro. Noi siamo orfani di camorra, siamo orfani di manovalanza camorristica, quella reale, potente, non è mai stata realmente a Scampia, ma andava a fare allenamento nella Reggia di Caserta durante la notte, ma queste son cose che ci puoi insegnare. Tutti questi aspetti nuovi di Scampia li avrai visti di sicuro quando ultimamente, così come hai raccontato, sei venuto in incognita per le vie del quartiere.

Ecco il Quartiere e la Città vorrebbero esattamente questo, che tu parlassi del cambiamento, che si cominciassero a denunciare soprattutto i miglioramenti di questi territori. La fiction tradisce tutto questo nella misura in cui racconta al mondo intero un quartiere com'era e non com'è, annullando tutti gli sforzi e i miglioramenti di questi dieci anni. La denuncia per essere costruttiva deve dare spazio alla costruzione di alternative, se queste sono disconosciute, annientate, allora si perde anche la speranza.

In uno degli incontri fatti con Sky Italia, il regista Sollima e Kattleya, chiedemmo di inserire nel copione figure positive che potessero compensare l'immagine negativa. Ci fu detto che il copione era già stato venduto in diversi paesi del mondo - prima ancora di iniziare le riprese - e che figure positive rendevano il copione "non vendibile". Tuttavia riconoscendo l'errore di base, fu deciso che per "compensare" sarebbero stati prodotti dei cortometraggi dalle realtà del quartiere per mostrare l'altra faccia di Scampia (I corti sono andati in onda e stanno sul sito di Sky col nome di "Laboratorio Mina, L'altra faccia di Gomorra").


Quindi Sky ammette che Gomorra Fiction è un'opera commerciale a tutti gli effetti e c'è bisogno d'altro per raccontare in modo imparziale il Quartiere.

Possiamo ancora parlare di denuncia se la realtà è mistificata? Si può denunciare ciò che oggi non è più così come si racconta? 

Tieni presente che uno dei responsabili di produzione di Kattleya, Gianluca Arcopinto, ha lasciato l'incarico perché dilaniato dal conflitto morale... lo sai vero? Certo che lo sai, ne ha scritto anche un libro intanto.
Io potrei essere affetto da una fase di delirio e, anche se chi vive il territorio, mi può dar ragione, ti racconto perché la tua fiction è menzognera.
Oltre alla presa di coscienza di Sky appena raccontata, con la produzione si è arrivati ad un tavolo di contrattazione... di sicuro lo saprai no?

Poiché non siamo per la censura abbiamo dettato delle condizioni ben precise per non alzare barricate fisiche e mediatiche durante le riprese. Le condizioni erano le seguenti:
  1. eliminazione di molti brani neomelodici dalla fiction, innanzitutto perché non ci rispecchiamo in quella cultura e soprattutto perché ci hanno raccontato che c'è il monopolio della camorra sulle case discografiche di questi cantanti... a proposito ma non ce le raccontavi anche tu in un tuo libro queste cose? fa strano vedere che li utilizzi in una fiction (nella quale hai un contratto per la cura delle scene oltre ai diritti d'autore, o mi sbaglio?);
  2. comparse filtrate dalle associazioni del territorio per evitare di coinvolgere figure "ambigue" com'è successo per il film Gomorra;
  3. supervisione da parte del territorio rispetto a quali aziende si coinvolgevano per il noleggio di attrezzature, catering;
  4. un investimento sul territorio in formazione e cultura affinché le major televisive non vengano solo a sfruttare questi territori ma lascino un minimo di benefici per chi li vive. Da qui nasce un laboratorio di cinematografia per trenta ragazzi della Città con la produzione dei cinque cortometraggi di cui parlavo prima e la nascita di una scuola di cinematografica in uno stabile comunale dismesso.
A Scampia la produzione di Gomorra Fiction, a differenza di quanto sembra abbia fatto in altri territori (vedi indagini su boss Gallo in provincia di Napoli), non ha trattato con la camorra ma con il territorio, con la società civile. Questo dieci anni fa era impossibile, oggi è realtà e tu continui a dichiarare che qui c'è più camorra di quanto se ne racconta e che nulla è cambiato. In base a cosa? I fatti dicono altro.

Chiarito che non è contro di te ma con la fiction che ci si scaglia (e su alcune tue scelte) termino con delle domande e un appello:

Si può ancora parlare di denuncia di una realtà?

Possibile che se si è in disaccordo con te si passa per collusi, omertosi, camorristi o invidiosi in cerca di visibilità?

Si può parlare di camorra senza legarla a dei luoghi, decontestualizzandola? (certo che si può)

Possibile che tu che non vivi più il territorio da dieci anni (per ovvi motivi) non riesca a confrontarti con chi ci butta il sangue tutti i giorni a Scampia, e se ti si chiama in causa si parla di "macchina del fango"?

IL NOSTRO DESIDERIO È CHE SI POSSA SMETTERE DI PARLARE DI TERRE DI GOMORRA, CHE QUESTI TERRITORI POSSANO PASSARE NEL MONDO COME LE TERRE DOVE SI COLTIVA LA SPERANZA, SI ORGANIZZA IL CORAGGIO. 

Per fare questo c'è bisogno che stiamo tutti dalla stessa parte, C'È BISOGNO DI DIALOGO, CONFRONTO (non monologhi), DI RINFORZARE LE REALTÀ POSITIVE SENZA LA PAURA DELLA COMPETIZIONE, NON È UNA GARA, NON È UNA LOTTA È UNA GUERRA CONTRO UN SISTEMA e non una gara per le copertine dei giornali. 

PER VINCERE LA GUERRA C'È BISOGNO DI SPORCARSI LE MANI, INSIEME. CHE TU POSSA ESSERE IL PORTAVOCE DI UNA NAPOLI VERA, NE HA BISOGNO SCAMPIA, NE HA BISOGNO NAPOLI, IL SUD, SOPRATTUTTO NE HAI BISOGNO TU.



12 giugno 2014 - (R)ESISTENZA - associazione di lotta alla illegalità e alla cultura camorristica


12 giugno 2014

Intersezioni ---> heresphere





0010 [HERESPHERE] Mauro Francesco Minervino | Benvenuti nell’era del realismo da divano

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di Salvatore D’Agostino 

Succede che, un video amatoriale pubblicato su YouTube possiede il canone del giornalismo del nostro tempo ovvero la capacità di trasformare una notizia in evento mediatico. Non importa il tipo di notizia perché, superata la soglia da notizia in evento, tutto si confonde: l’inaspettata sconfitta del Brasile, le confessioni del nuovo presunto mostro dell’adolescente Yara Gambirasio e il presunto inchino, davanti la casa di un veterano dell’ndrangheta, della statua della Madonna a Oppido Mamertina diventano gli eventi necessari per proiettare, nei diversi contenitori di massa, il realismo più redditizio per un’economia dell’informazione basata sulla quantità di ascolti o di accessi web o copie vendute. Dal momento in cui la notizia supera il limite e si trasforma in evento inizia il tormentone, fino all’arrivo di un’altra notizia-evento, spalleggiato dai migliori opinionisti. 
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Succede che, ad esempio, per non inventare niente, come si legge nel racconto di Beppe Severgnini della sua settimana di astinenza da internet dal 9 al 15 febbraio del 2012 che il Corriere della Sera, il giornale per cui lavora, lo chiami per - in ordine cronologico - scrivere: 
  • un commento su Mario Monti in copertina su «Time»; 
  • un commento di 150 righe sulla nuova reputazione degli italiani nel mondo;
  • la consueta rubrica del giovedì che riguarda Silvia Deaglio, figlia del ministro Elsa Fornero e dell’economista Mario Deaglio.
Succede che, tutti i giornali chiedano ai loro opinionisti - che spesso lavorano da casa seduti davanti al PC - di scrivere qualcosa. Ad esempio di dare un’opinione sulla notizia di Oppido, che è diventata nel frattempo un succulento evento ricco di stereotipi facili e luoghi comuni d’accatto. È ipotizzabile che nessuno di essi si sia mai sventurato, durante la propria vita, di fare almeno una vacanza a Oppido e che per dovere verso il proprio mestiere, adesso si trovino a scrivere qualcosa. Anche se nessuno degli opinionisti ha mai messo piede a Oppido tutti sembrano avere idee chiarissime su Oppido, sulla Calabria, sul Sud e soprattutto, uso la parola magica, sulla gente. Lo scrittore Philip Roth in un dialogo con Nelly Kaprièlian confessa che non ha più voglia di scrivere libri e, incalzato dalla critica francese, dice il perché: «Ho 78 anni, non so più cos'è l'America di oggi. La vedo alla televisione, ma non ci vivo più.» Per il buon giornalismo italiano vale il contrario del disagio di Philip Roth, è possibile raccontare l’Italia vista alla televisione e, nel caso di Oppido, su YouTube: benvenuti nell'era del realismo da divano.
 
Su Oppido e il suo delirio da ‘realismo da divano’ v’invito a leggere questa nota di Mauro Francesco Minervino scritta sulla pagina facebook che merita un’attenta lettura. Minervino da anni racconta, ciò che vede vivendo, attraversando quotidianamente la Calabria, nei suoi libri: La Calabria brucia (2009), Statale 18 (2010), Chi vive in Calabria / Chi ha scarsa memoria (2013), su Wilfing architettura ho pubblicato una lunga intervista che, se vuoi, puoi iniziare a leggere da qui.

Mauro Francesco Minervino 

Vedo che da qualche giorno in giro si sprecano i commenti moralizzanti in bello stile e i verbosi articoloni pieni di appoggi di seconda mano alla legalità violata e al malcostume mafioso delle processioni barcollanti. Chi ha confidenza con questi luoghi, chi vive e lavora da queste parti, sa bene che non c'è santuario, processione o cerimonia religiosa sacramentata in Calabria dal calendario della tradizione e dalle liturgie, in cui il trono mafioso e l'altare - rappresentato dal disinvolto ed eterogeneo clero paesano - siano esenti da rapporti di familiarità, intrecci di interesse e legami più o meno confessabili con le cosche e i padrini locali. Spesso formano, insieme, un solido blocco di potere storico e sociale, simbiotico per cultura, valori e consenso. Storia vecchia su cui si aprono gli occhi solo adesso? 

Basti un solo, clamorosissimo, esempio: nel celebre santuario di Polsi, una frazione del paese di San Luca in Aspromonte, il capo della ‘ndrangheta viene da 100 anni eletto nel corso di un summit che si tiene nel corso di "una toccante cerimonia religiosa della fede popolare", che si ripete identica durante l’annuale festa della Madonna della Montagna.


E lì finora mai nessun vescovo o prelato o parroco locale si è mai sognato di scacciare i mafiosi fuori dalla chiesa o di pronunciare i tonanti anatemi alla Bergoglio, brandendo il Vangelo contro "i fratelli che sbagliano". 

Sulla scia dei fatti di Oppido accade anche che in questi giorni autori e opinion maker che a casa loro e nei loro paeselli foderati di clientelismo, previtoccioli corrotti e compari impresentabili, fino a ieri hanno comodamente taciuto e si sono curati di posizionarsi convenientemente con i poteri che a chiacchiere adesso altrettanto comodamente disdicono in pubblico (specie dopo la fatidica discesa papale dello spirito santo sulle infelici contrade calabre), colgono al volo il giro del vento per straripare in denunce smancerose. È tutto un coro di moralizzatori ipocriti che strappano facile facile l'applauso clickato nei "mi piace" degli addicted di FB e degli entusiasti delle "condivisioni" virtuali senza colpo ferire. 

Eccoli i soliti campioni del "mai scalfirsi un'unghia e mai farsi nemici", quando i nemici reali, quelli della politica, della mafia, dei poteri che contano, li devi temere e guardare in faccia per combatterli davanti l'uscio di casa. Gli atti di accusa dei maestri dell'ultimo momento e le tirate retoriche e politicamente scontate sui mali della mafia, è facile farle col vento in poppa del consenso già smisurato con lo sbilanciamento calcolato dei grandi media, approfittando peraltro delle insegne accoglienti ed ecumeniche di un sommo pontefice romano che, finalmente, scomunica mafiosi e corrotti e va via senza salutare. Non mi stupisce che tra questi coraggiosi last minute brillino per tempestività e occhio alla rendita di posizione, i soliti paraculi accademici e gli eunuchi del pensiero moscio spacciato ovunque per verità fervente e rivelata. 
Quando scrivevo di queste cose, anni fa, e ne pagavo salatissimamente il prezzo, avevo intorno il deserto, ero isolato e ostracizzato dal conformismo più vile, dalla violenza verbale, dalle minacce e dalle maldicenze del club bipartisan dei colletti sudici che comandano tutto in questa regione che odia la libertà: e "loro", gli intellettuali della parrochietta che salmodiano civismo in punta di penna, dietro quale santo in processione ciabattavano, dov'erano a pranzo questi maitre a manger del pensiero futile?
Per carità, almeno un po' di dignità e di buona memoria, signori. 
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Pietro Motisi | SUDLIMAZIONE

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di Salvatore D’Agostino

L’inizio:
Tra il 1951 e il 1953 lo scrittore e fotografo Fosco Maraini accompagnato dall'editore Diego De Donato vagarono in auto dalla Campania alla Sicilia. Il loro intento era di «stringere fra due copertine tutto, proprio tutto il nostro Sud: meraviglie e orrori - scriveva Maraini - borghesi e braccianti, contadini e marinai, vescovi e mafiosi, tutto, dico tutto». Ma, dopo aver raccolto un immenso materiale, il progetto, che avrebbe dovuto chiamarsi Nostro Sud, non si completò per sfinimento «sopraffatti dall'abbondanza delle cose, dalla ricchezza d’aspetti, dalla moltitudine di volti e destini, finimmo nell'immenso fuoco del Sud». Nostro Sud, se pubblicato, sarebbe stato il primo racconto per immagini del sud, dato che, prima del ciclopico progetto di Maraini, la fotografia in Sicilia veniva posta a servizio di qualcos'altro anziché farsi racconto autonomo.
e la fine:
L’oggi è tutto ciò che si vede, se si vuol vedere, camminando. L’oggi, nella sua essenza, ciò che è visibile senza sovrastrutture concettuali è il dominio visivo di Pietro Motisi. Nel suo viaggio, non ha ricercato luoghi esotici, caratteristici, tipici, storici e, se ci sono, li ha celati. Gli elementi del paesaggio, erosi dalla luce naturale o artificiale, si manifestano nell'uso e abuso quotidiano di chi vive il territorio, sono lì, almeno in quell'oggi in cui Pietro Motisi li ha fotografati.
di una mia nota per il catalogo della mostra SUDLIMAZIONE di Pietro Motisi presso la galleria fotografica P46 di Guido Risicato e Giuliano Bora.










Inaugurazione sabato 19 luglio alle 18.

La mostra sarà visibile tutti i giorni, 10.00/13.00 15.00/18.00, fino al 31 agosto in Via al Porto 46 Camogli (Genova).
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12 luglio 1981 | Philip K. Dick c'è una sola via d'uscita: vedere tutto come qualcosa di fondamentalmente comico

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di Salvatore D’Agostino
Nelle ristampe di Lolita, Vladimir Nabokov, aggiunse una nota alla fine del romanzo, per rintuzzare le veemenze dei critici più corrosivi scrivendo "«realtà» (una delle poche parole che non hanno alcun senso senza virgolette)"1 e ad un’incalzante Alberto Arbasino che, in veste d’intervistatore, chiedeva: “Ma insomma, cos’è Lolita, in realtà?” rispondeva "Che domande… che domande… inutili… Sarebbe meglio rilassarsi, di fronte a quel libro che è soltanto una storia, e non cercarvi un “messaggio” che non c’è… La morale del libro è il libro stesso. Volete spiegarvi la sua morale? Leggetelo!".2

Leggendo i libri di Philip K. Dick serve ricordarsi dei consigli di Nabokov, bisogna mettere tra parentesi la parola ‘realtà’ ed evitare di cercare una ‘morale’.

Philip K. Dick rappresenta un'idea di letteratura fondata sulla moltiplicazione dei diversi piani di realtà. Estraneo all'insegnamento morale, Dick smantella con gioiosa iconoclastia i luoghi comuni e le convenzioni letterarie della letteratura borghese, fondata sul ‘messaggio del romanzo’. Costruisce trame dove il tempo è spesso fuori dai cardini, dove la realtà è ‘sempre una bolla di sapone’, dove l’uomo non è mai un eroe di una elitè galattica ma vive una costante difficoltà ad adattarsi al mondo:
«Se volete adattarvi alla realtà, leggete Philip Roth, leggete gli scrittori di best-seller, - scrive in questo testo che vi ripropongo - quelli dell'establishment letterario di New York. Ma adesso state leggendo fantascienza, e io la scrivo per voi. Voglio mostrarvi quello che amo (i miei amici) e quello che odio con tutte le mie forze (le cose che succedono loro).»
Per Philip K. Dick la fantascienza è un romanzo di idee che decostruisce il tempo, lo spazio e la realtà. La fantascienza non è mimetica del mondo reale, è un’idea di dinamismo.

Ripropongo uno scritto apparso sulla collana Urania, a quel tempo diretta da Fruttero & Lucentini nel numero 896 del 12 luglio 1981, qualche mese prima che Philip K. Dick morisse a causa di un collasso cardiaco il 2 marzo 1982. Scritto appena prima di iniziare la querelle con Ridley Scott e il suo rifiuto di 400 mila dollari per non voler adattare il suo romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? alla sceneggiatura del film Blade Runner che uscirà nelle sale il 25 giugno 1982, tre mesi dopo la sua morte. Dirà a Ridley Scott, non ho bisogno di questi soldi - anche se avendo sempre vissuto in perpetua indigenza gli avrebbero cambiato la vita - ho la mia macchina da scrivere, la mia musica, il mio gatto, ho tutto e non ho bisogno di nient’altro.

In questo scritto su Urania, la più longeva rivista di urbanistica ancora attiva in Italia, ripercorre la sua vita, dove, con ironica previgente coincidenza, scrive l’epigrafe della sua lapide.

È un invito per gli urbanisti del nostro tempo che amano la pervasività della tecnologia o per chi pensa di guarire le città attraverso l’architettura a leggere Dick per domandarsi:

  • Che cos'è la realtà?
  • Che cosa caratterizza l'autentico essere umano?

Per aiutare il 'vandalismo responsabile' ed evitare di credere e progettare il viaggio sicuro delle gated community dove il messaggio implicito è: siate passivi. E soprattutto cercare di “scoprire il granello del comico all'interno dell'orribile e del futile”.

Buona lettura.



di Philip K. Dick

   Rileggendo alcuni di questi racconti, scritti più di trent'anni fa, ripenso a un negozio di animali che si chiamava Lucky Dog. C'è una buona ragione. Ha a che fare con un aspetto non solo della mia vita, ma della vita di moltissimi scrittori a tempo pieno. Si chiama povertà.

   Adesso mi viene da ridere, a pensarci, e sento perfino un po' di nostalgia, perché sotto molti punti di vista quelli sono stati i giorni più belli della mia vita, soprattutto agli inizi degli anni Cinquanta, quando la mia carriera è cominciata. Però eravamo poveri, mia moglie Kleo e io, eravamo molto poveri. E non ci piaceva per niente. La povertà non serve a formare il carattere. Sono favole. In compenso, insegna a fare bene i conti, si contano e si ricontano i soldi. Prima di uscire per andare dal droghiere, dovete sapere esattamente quanto spendere e cosa comprare, perché se fate un errore, il giorno dopo non mangiate, e magari neanche il giorno dopo ancora.

   Così, eccomi qui al Lucky Dog di San Pablo Avenue, Berkeley, California, negli anni Cinquanta, a comprare mezzo chilo di carne di cavallo macinata. Il motivo per cui faccio lo scrittore e vivo in povertà (lo ammetto per la prima volta), è che sono terrorizzato dall'Autorità, come i capufficio [sic], i poliziotti, gli insegnanti; voglio fare lo scrittore, così non dovrò dipendere da nessuno. Mi sembra sensato. Avevo lasciato il mio lavoro di direttore del reparto dischi in un negozio di musica e ogni notte, per tutta la notte, scrivevo racconti, di fantascienza e di mainstream... e vendevo fantascienza. Non mi piace molto il sapore della carne di cavallo, a dire il vero: è troppo dolce. Però mi piace non dovermi trovare dietro un bancone esattamente alle nove di mattina, in giacca e cravatta, e dover dire: In cosa posso servirla, signora? e tutto il resto. Un'altra cosa che mi è piaciuta, è l'essere stato espulso dall'Università della California per non aver voluto entrare nei Corpi di Addestramento degli Ufficiali in Riserva (accidenti, un'Autorità in uniforme e l'Autorità in persona!). E improvvisamente, mentre sto dando i 35 centesimi al commesso del Lucky Dog, mi ritrovo un'altra volta di fronte alla mia nemesi personale. Quando meno me l'aspetto, eccomi ancora una volta a dover affrontare l'Autorità. Non c'è modo di sfuggire alla propria nemesi, me n'ero scordato.



2154 San Pablo Avenue, Berkeley, Stati Uniti

Il negozio ha chiuso l'11 marzo del 2011 perché polli, piccioni, pesci, conigli e tartarughe
non rispettavano le norme igieniche.*

   
   L'uomo dice: - Comprate la carne per mangiarla voi?

   È alto un metro e novanta e pesa centocinquanta chili. Mi guarda dall'alto, con occhi severi. Nella mia mente, mi sembra di avere ancora cinque anni, e di aver versato la colla sui pavimento dell'asilo.

   - Sì, signore - ammetto. Vorrei dirgli: Sentite, io sto alzato tutta la notte a scrivere racconti di fantascienza, e sono veramente povero, ma so che le cose andranno meglio; ho una moglie che amo, un gatto che si chiama Magnificat, e una vecchia casetta che sto comprando con un mutuo di 25 dollari al mese, che è il massimo che posso permettermi... Ma quest'uomo si interessa di un solo aspetto della mia vita disperata ma piena di speranza. La so cosa sta per dirmi. L'ho sempre saputo. La carne di cavallo che vendono da Lucky Dogè solo per consumo animale. Ma io e Kleo la mangiamo, e adesso siamo di fronte al giudice, in tribunale: mi hanno pescato a compiere un'altra Cattiva Azione.

    Quasi mi aspetto che l'uomo dica: Hai delle brutte abitudini.

   Questo era il mio problema allora, e lo è anche adesso: ho delle brutte abitudini. Ridotto all'osso, il problema è questo: ho paura dell'autorità, ma allo stesso tempo sono pieno di risentimento, per l'autorità e per la mia paura... così mi ribello. Scrivere fantascienza è un modo per ribellarsi. Mi sono ribellato contro la Riserva dell'università, e sono stato espulso; anzi, mi hanno detto di non farmi più vedere. Me ne sono andato dal mio lavoro al negozio di dischi, un bel giorno, e non mi sono fatto più vedere. Più tardi, mi sono opposto alla guerra nel Vietnam, e sono, venuti a rovistare nei miei archivi e a rubare le mie carte, come ha riferito anche Rolling Stone. Tutto quello che faccio è causato dalle mie brutte abitudini, che vanno dal prendere l'autobus al combattere per il mio paese. Ho perfino delle brutte abitudini nei confronti degli editori: sono sempre in ritardo coi contratti (anche per questo, per esempio).

   Però la fantascienza è una forma d'arte ribelle, e ha bisogno dl scrittori e di lettori con cattive inclinazioni, come per esempio quella di chiedere sempre Perché?, o Come mai?, o Chi l'ha detto? Questo atteggiamento è sublimato in alcuni temi tipici delle mie storie, come: L'universo è qualcosa di reale? oppure: Siamo davvero uomini, o solo macchine?. C'è molta rabbia dentro di me. C'è sempre stata. La settimana scorsa il mio medico mi ha detto, che la pressione mi è salita di nuovo, e che adesso sembra che ci siano anche complicazioni cardiache. Io mi arrabbio moltissimo. La morte mi fa arrabbiare. La sofferenza degli uomini e degli animali mi fa arrabbiare. Ogni volta che uno dei miei gatti muore, maledico Iddio, con tutte le mie forze. Sono furioso nei suoi confronti. Mi piacerebbe poterlo avere qui, per interrogarlo, per dirgli che il mondo è tutto un gran pasticcio, che l'uomo non ha commesso nessun peccato, che non è caduto ma è stato spinto giù, e, come se non fosse abbastanza, gli è stato fatto credere di essere fondamentalmente un peccatore, e io so che non è così.

   Ho conosciuto ogni genere di persone (ho compiuto i cinquanta poco tempo fa, e questa è un'altra delle cose che mi fanno arrabbiare: quello di aver vissuto a lungo), e nella maggioranza si trattava di brave persone. I personaggi delle mie storie sono modellati su di loro. Ogni tanto, una di queste persone muore, questo mi manda su tutte le furie, mi fa impazzire dalla rabbia. Ti sei preso il mio gatto vorrei dire a Dio, e poi la mia ragazza. Cosa vuoi fare? Ascoltami, ascolta! È sbagliato quello che stai facendo.

   In fondo, non sono sereno. Sono cresciuto a Berkeley, e qui ho ereditato quella coscienza sociale che poi si è sparsa per tutto il paese negli anni Sessanta, ha provocato la fine di Nixon e ha fatto finire la guerra nel Vietnam, più un sacco di altre cose buone, compreso l'intero movimento per i diritti civili. Tutti quanti a Berkeley si arrabbiano con facilità. Io una volta mi arrabbiavo con gli agenti dell'FBI che venivano a trovarmi almeno una volta alla settimana (il signor George Smith e il signor George Scruggs, della squadra politica), e mi arrabbiavo coi miei amici che erano nel Partito Comunista [ndr un articolo sulle visite dell'FBI]; sono stato buttato fuori dall'unica riunione del Partito Comunista Americano a cui abbia partecipato, perché mi sono alzato in piedi e mi sono opposto energicamente (ossia con rabbia) a quello che stavano dicendo.

   Tutto questo succedeva agli inizi degli anni Cinquanta; e adesso eccoci qui alla fine degli anni Settanta, e ancora sono arrabbiato. In questo particolare momento sono arrabbiato a causa della mia migliore amica, una ragazza di ventiquattro anni, che si chiama Doris. Ha il cancro. Sono innamorato di qualcuno che potrebbe morire da un momento all'altro, e questo mi rende furioso contro Dio e contro il mondo, mi fa aumentare la pressione e accelerare il ritmo cardiaco. Così scrivo. Voglio scrivere della gente che amo, e metterli in un mondo fantastico, inventato dalla mia fantasia, non quello in cui veramente viviamo, perché il mondo in cui viviamo non si adatta alle mie norme. Lo so, lo so che dovrei rivedere le mie norme perché sono fuori del tempo. Dovrei adattarmi alla realtà. Non mi sono mai adattato alla realtà. È di questo che si occupa la fantascienza. Se volete adattarvi alla realtà, leggete Philip Roth, leggete gli scrittori di best-seller, quelli dell'establishment letterario di New York. Ma adesso state leggendo fantascienza, e io la scrivo per voi. Voglio mostrarvi quello che amo (i miei amici) e quello che odio con tutte le mie forze (le cose che succedono loro).

   Ho visto Doris nella sua lotta contro il cancro sopportare dolori talmente atroci, che non riesco a crederlo. Una volta sono scappato di casa, e sono corso da un amico, letteralmente. II medico dice che Doris non vivrà a lungo, che dovrei lasciarla e dirle che lo faccio perché sta morendo. Ho cercato di farlo, non ci sono riuscito, e allora mi sono fatto prendere dal panico e sono scappato. Nella casa del mio amico ci siamo seduti e abbiamo ascoltato dischi strani (mi piace la musica strana, sia classica sia rock; mi distende). Anche lui è uno scrittore, di fantascienza; è giovane, si chiama K. W. Jeter; è un bravo scrittore. Restammo lì seduti, poi io dissi a voce alta, a me stesso, più che altro: La cosa peggiore è che comincio a perdere il mio senso dell'umorismo, sul cancro. Poi mi resi conto di quello che avevo detto, e anche lui, e cominciammo a ridere come matti.


   Così mi viene da ridere. La nostra situazione, la situazione umana, non è né triste né dotata di senso, e solo buffa. In che altro modo chiamarla? La gente più saggia sono i clown, come Harpo Marx, che non parlava mai. Se potessi vedere avverato un mio desiderio, vorrei che Dio ascoltasse quello che Harpo non diceva, e capisse perché Harpo non parlava. Non dimenticate che Harpo sapeva parlare. Solo che non voleva. Forse perché non c'era niente da dire, era già stato detto tutto. O forse, se avesse parlato, avrebbe rivelato qualcosa di troppo terribile, qualcosa di cui non dovremmo renderci conto. Non lo so. Forse potreste dirmelo voi.

Fratelli Marx, Animal Crackers, 1930

   Quella dello scrittore è una carriera solitaria. Uno si chiude nel suo studio, e lavora, lavora. Io, per esempio, ho lo stesso agente da 27 anni, e non l'ho mai incontrato, perché lui abita a New York e io in California. (Una volta l'ho visto alla televisione: è il tipo elegante. Gioca a baseball, che è la cosa giusta per un agente letterario.) Ho incontrato molti altri scrittori di fantascienza, e sono diventato amico di parecchi di loro. Per esempio, conosco Harlan Ellison dal 1954. Harlan mi odia con tutte le sue forze. Al secondo Festival Annuale della Fantascienza di Metz, in Francia, l'anno scorso, Harlan mi ha coperto di insulti; eravamo al bar dell'albergo, e avevamo intorno un sacco di gente, soprattutto francesi. Harlan mi fece a pezzi. È stato divertente come una brutta esperienza psichedelica: dovete solo controbattere e spassarvela, non c’è alternativa.

   Però voglio bene a quel piccolo bastardo. È una persona che esiste davvero. Lo stesso vale per Van Vogt, Ted Sturgeon, Roger Zelazny e, soprattutto, Norman Spinrad e Tom Disch, le due persone che stimo di più al mondo. La solitudine dello scrittore è compensata dalla fratellanza fra gli scrittori. L'anno scorso, un mio sogno durato quarant'anni si è realizzato: ho conosciuto Robert Heinlein. Sono state le sue opere, insieme a quelle di A. E. Van Vogt che mi hanno introdotto alla fantascienza, e considero Heinlein il mio padre spirituale, anche se le nostre concezioni politiche sono totalmente opposte. Vari anni fa, quando ero ammalato, Heinlein si offrì di fare per me tutto quello che poteva, e non ci eravamo mai visti; mi telefonava per confortarmi e per sapere come stavo. Voleva comperarmi una macchina da scrivere elettrica, che Dio lo benedica. È uno dei pochi, veri gentiluomini che esistano su questa terra. Non sono d'accordo con nessuna delle idee che si leggono nei suoi libri, ma questo non c'entra niente. Una volta che dovevo un sacco di soldi all'ufficio delle imposte, e non sapevo dove trovarli, Heinlein me li prestò. Ho una grandissima stima di lui e di sua moglie; ho anche dedicato loro un libro. Robert Heinlein è un bell'uomo, ha un portamento militare; si capisce che è stato nell'esercito anche solo dal taglio dei capelli. Io invece sono un contestatore, un freak, e lui lo sa; eppure ha aiutato me e mia moglie quando ci siamo trovati nei guai. È questa la parte migliore dell'umanità, queste sono le persone e le cose che amo.

   La mia amica Doris, quella che ha il cancro, era la ragazza dl Norman Spinrad. Norman ed io siamo amici intimi da anni; abbiamo fatto un sacco di cose pazze, assieme. Tutt'e due diamo i numeri, di tanto in tanto. Norman ha il peggior carattere di questa terra. E lo sa. Beethoven era lo stesso. Io non ho nessun carattere, ed è probabilmente per questo che ho la pressione così alta: non riesco a liberarmi della rabbia che accumulo dentro. Alla fin fine, non potrei dire con chi ce l'ho veramente. Invidio moltissimo Norman perché è capace di liberarsene. È un buon scrittore e un buon amico. È questo che mi da la fantascienza: non i soldi o la fama, ma buoni amici. È questo il suo vero valore, per me. Le mogli3 vanno a vengono, le amiche pure; noi scrittori di fantascienza restiamo uniti fino alla morte, letteralmente... cosa che mi potrebbe succedere in qualsiasi momento (con mio segreto sollievo, probabilmente). Nel frattempo scrivo l‘introduzione di questa antologia, rileggendo racconti che coprono un periodo di trent'anni, e ripenso al Lucky Dog, agli anni passati a Berkeley, al mio impegno politico, e a come la Legge mi stava addosso... mi è rimasta ancora un po' di paura, ma credo che l'epoca della caccia alle streghe sia finita in questo paese (per il momento, almeno). Adesso dormo bene. Ma c’era un tempo in cui restavo alzato tutta la notte, terrorizzato, aspettando che bussassero alla porta. Alla fine mi chiesero di presentarmi alla centrale, e la polizia mi interrogò per quattro ore. Sono stato perfino convocato dall'OSI (il controspionaggio dell'aviazione) e interrogato. Era una faccenda di terrorismo nella Contea di Marin: non il terrorismo delle autorità, questa volta. Saltò fuori che la casa dietro la mia era stata comprata da un gruppo di ex-carcerati neri di San Quentin. La polizia credeva che fossimo d'accordo, io e loro; continuavano a farmi vedere fotografie di neri, chiedendomi se li conoscevo. A quel punto, non ero più neppure capace di rispondere. È stato un brutto momento per il povero Phil.

   Perciò, se credete che gli scrittori vivano la vita dei reclusi, circondati dai libri, vi sbagliate, almeno nel mio caso. Ho vissuto in mezzo alla strada per un paio di anni: droga. In parte è stato divertente e meraviglioso, in parte spaventoso. Ci ho scritto un romanzo, [ndr A Scanner Darkly, 1977) perciò non ne parlerò qui. La sola cosa veramente apprezzabile di quella vita era che la gente non sapeva che fossi un noto scrittore di fantascienza o, anche se lo sapeva, non gliene importava niente. La sola cosa che gli importava, era cosa potessero rubarmi. Alla fine dei due anni, tutto quello che avevo era sparito, letteralmente; compresa la casa. Allora presi l'aereo per Vancouver, in Canada, dove ero Ospite d'Onore alla Convention di Fantascienza, tenni una conferenza all'Università della Columbia Britannica4, e decisi di fermarmi lì. Al diavolo la droga. Avevo smesso di scrivere; era stato un brutto periodo, quello. Mi ero innamorato di parecchie ragazze prive di scrupoli... avevo una vecchia Pontiac convertibile, col motore truccato, le gomme larghe e senza freni; ero sempre nei guai, sempre con problemi che non riuscivo a risolvere. È stato solo dopo aver lasciato il Canada, ed essermi stabilito qui, nella Contea di Orange, che mi sono rimesso in sesto e ho cominciato a scrivere. Ho conosciuto una ragazza normale, mi sono sposato, abbiamo avuto un bambino, Christopher. Adesso ha cinque anni5. Mi hanno lasciato un paio di anni fa. Cose che succedono. Cosa posso dire? È come tutto il resto: o ci si mette a ridere, oppure... si chiude bottega e si muore, penso.

   Una cosa che davvero mi piace è rileggere quello che ho scritto, soprattutto i miei vecchi racconti e romanzi. È come un viaggio nel tempo mentale, qualcosa di simile all'effetto che fanno certe canzoni sentite alla radio. Per esempio, quando sento Don McLean che canta Vincent, immediatamente rivedo una ragazza che si chiama Linda, porta una minigonna e guida una Camaro gialla; stiamo andando a mangiare in un posto alquanto caro, e io sono preoccupato perché non so se avrò i soldi per pagare il conto, e Linda mi racconta di essere innamorata di uno scrittore di fantascienza più vecchio di lei, e io mi immagino (oh vana follia!) che stia parlando di me, ma poi si scopre che sta parlando di Norman Spinrad, a cui l'ho presentata io stesso.


   Ricompare davanti agli occhi tutta la scena; e una sensazione strana, che senz'altro avrete sperimentato anche voi. La gente mi dice che tutto di me, ogni particolare della mia vita, della mia psiche, delle mie esperienze, dei miei sogni e delle mie paure, e riprodotto esplicitamente nelle mie opere, e che potrebbe essere dedotto con precisione da queste. È vero. Perciò, quando rileggo quello che ho scritto, come i racconti di questa antologia, faccio un viaggio nella mia testa e nella mia vita, solo che si tratta della mia vecchia testa e della mia vecchia vita. Si tratta di una abreazione, come dicono gli psichiatri. C'è il terna della droga. C'è il tema filosofico, soprattutto i grandi dubbi epistemologici che ho cominciato ad avere quando ho frequentato, per poco, l'università di Berkeley. Poi nei miei racconti e nei miei romanzi, ci sono gli amici morti. I nomi delle strade! Ci ho messo anche l'indirizzo del mio agente, come se fosse quello di un personaggio (Harlan una volta ha messo in un racconto il suo numero di telefono, cosa di cui poi si è pentito). E naturalmente, c’è costantemente il tema della musica, l'amore e l'interesse per la musica. La musica è il solo filo che da una qualche coerenza alla mia vita.



   Vedete, se non fossi diventato uno scrittore, penso che adesso mi troverei a lavorare nell'industria musicale, quasi certamente in quella discografica. Ricordo che verso la metà degli anni Sessanta ascoltai per la prima volta Linda Ronstadt, in uno show televisivo, Nessuno ne aveva mai sentito parlare, ma io ne rimasi estasiato. Vedendola e ascoltandola, capii che mi trovavo di fronte a una delle personalità più notevoli nel campo della musica rock; potevo vedere nel tunnel del tempo, fino al futuro. Più tardi, quando ebbe inciso alcuni dischi, nessuno dei quali ebbe molto successo, ma che io comprai tutti, calcolai il mese esatto in cui avrebbe sfondato. Scrissi perfino alla Capitol Records, e dissi loro che il prossimo disco della Ronstadt sarebbe stato l'inizio di una carriera strepitosa. II suo disco seguente fu Heart Like a Wheel



   La Capitol non rispose alla mia lettera, ma non me ne importò un accidente: avevo avuto ragione, e ne ero felice. Comunque, è questo genere di cose che farei ora, se non fossi diventato uno scrittore di fantascienza. Una delle mie fantasie a occhi aperti è questa: ho scoperto Linda Ronstadt, e sono stato quello che le ha fatto firmare un contratto con la Capitol. Sulla mia lapide, avrei voluto che ci fosse scritto:



   I miei amici sorridono con compatimento della mia vita fantastica in cui scopro Linda Ronstadt, e Grace Slick e la Streisand, eccetera eccetera. Ho un buon impianto stereo (per lo meno, sono buoni la testina e i diffusori) e una grossa raccolta di dischi, e ogni notte, dalle undici alle cinque, scrivo con una cuffia elettrostatica Stax sulle orecchie. Il mio lavoro e il mio vizio mescolati: non si può sperare niente di meglio, dalla vita. Sono lì che scrivo, e nelle mie orecchie suona Bonnie Koloc, e nessuno può sentirlo, tranne io. La cosa buffa, è che in ogni caso non ci sarebbe nessuno a sentirlo, dal momento che tutte le mogli e le ragazze se ne sono andate da un pezzo. Questa è un'altra delle disgrazie dello scrittore: dal momento che lo scrivere richiede una concentrazione protratta tanto a lungo, tende ad allontanare mogli e ragazze, o comunque quelli con cui capita di vivere. È probabilmente il prezzo più caro che deve pagare lo scrittore. La mia unica compagnia sono due gatti. Come i miei amici drogati (ex-amici, dovrei dire, dal momento che la maggior parte, adesso, sono morti), i miei gatti non sanno che io sono un noto scrittore e, come nel caso dei miei amici drogati, preferisco così.

   Mentre mi trovavo in Francia, ho vissuto l'interessante esperienza di esser famoso. Sono lo scrittore di fantascienza più amato, in Francia: il più amato di tutti (ve lo dico per quello che può valere la cosa). Ero ospite d'onore al Festival di Metz, come ho già detto, e ho tenuto un discorso, che come al solito era privo di senso. Perfino i francesi non ci capirono niente, nonostante la traduzione.

Frammenti con traduzione in italiano dell'intervento al Metz Science Fiction Convention
Francia, settembre 1977. Qui il video integrale.


   C’è sempre qualcosa che comincia a girarmi storto nella testa quando devo scrivere un discorso; forse mi immagino di essere una reincarnazione di Zoroastro, che porta la parola di Dio. Perciò cerco di fare meno discorsi possibile [sic]. Offritemi pure un sacco di soldi per fare un discorso, e cercherò qualche pretesto per non venire, di solito una palese bugia. Però è stato fantastico (nel senso di non reale) trovarmi in Francia e vedere tutti i miei libri in bellissime e costose edizioni rilegate, invece che in formato economico. I proprietari di librerie venivano a stringermi la mano. Il consiglio municipale di Metz offrì un ricevimento per noi scrittori. C’era Harlan, come ho già detto, e Roger Zelazny, John Brunner, Harry Harrison, Robert Sheckley. Non avevo mai incontrato Sheckley, prima: è una persona molto gentile. Brunner è diventato grasso, come me. Abbiamo fatto mangiate interminabili assieme; Brunner fece in modo da far sapere a tutti che lui parlava francese. Harry Harrison intonò l'inno fascista italiano, a voce alta, il che dimostra quanto gli importi del prestigio (Harry è l’iconoclasta dell'universo conosciuto). Editori e redattori si infilavano dappertutto, e così pure i giornalisti. Sono stato intervistato dalla mattina alle otto fino alle tre e mezzo di notte, e come sempre ho detto cose che torneranno a perseguitarmi.


Mike Hodel In Conversation With Philip K. Dick, Which Aired On The Science Fiction Themed Radio Show Hour 25. Recorded In 1977, Just Before The Release Of A Scanner Darkly.
Qui un’intervista video. Qui un’intervista per un giornale tedesco.

   È stata la settimana più bella della mia vita. Credo di essere stato veramente felice per la prima volta, lì a Metz: non perché era famoso, ma perché tutta quella gente era eccitatissima. I francesi si eccitano come matti quando devono ordinare da mangiare al ristorante; e come le discussioni politiche che facevamo a Berkeley, solo che riguardano il cibo. Decidere quale strada prendere, comporta la presenza di dieci francesi urlanti e gesticolanti, che alla fine corrono via in dieci direzioni diverse. I francesi, come me e Spinrad, vedono le possibilità più improbabili di ogni situazione, il che spiega senza dubbio perché laggiù io sono cosi popolare. Prendete un certo numero di possibilità: io e i francesi sceglieremo le più assurde. Era come ritrovarsi a casa. Potevo diventare tranquillamente isterico fra gente abituata all'isteria, gente incapace di prendere decisioni o di eseguirle a causa del dramma inerente al processo stesso di scelta. Così sono io: paralizzato dall'immaginazione. Per me, una gomma a terra significa:

(a) La Fine del Mondo;
(b) Un Indizio della Presenza di Mostri (anche se ne ho dimenticato il perché).
   Ecco perché amo la fantascienza, mi piace leggerla e mi piace scriverla. Lo scrittore di fantascienza non vede solo possibilità, ma possibilità assurde. Non dice solo Ammettiamo che… Dice: Mio Dio! ammettiamo che... in un isterismo frenetico. I Marziani sono sempre sul punto di arrivare. Il signor Spock è l'unico calmo. Ecco perché Spock è diventato una specie di divinità per noi: calma la nostra normale isteria. Bilancia la tendenza dei cultori di fantascienza a immaginare l'impossibile.
Kirk (disperato): Spock, l'«Enterprise» sta per saltare in aria!Spock (calmo): No, Comandante, è solo saltato un fusibile.
   Spock ha sempre ragione, anche quando sbaglia. È il tono della sua voce, la sua soprannaturale ragionevolezza. Non è un uomo come noi: è un dio. Ecco perché hanno affidato a Leonard Nimoy un programma di pseudo-scienza alla TV. Nimoy riesce a far sembrare plausibile qualsiasi cosa. Sia che cerchiamo un bottone o il cimitero degli elefanti, Nimoy calma i nostri dubbi e le nostre paure. Mi piacerebbe averlo come psichiatra; correrei da lui, in preda alle mie solite paure isteriche, e lui le farebbe svanire.

Phil (isterico): Leonard, il cielo sta cadendo!
Nimoy (calmo): No, Phil, è solo saltato un fusibile.

   Così mi sentirei a posto, la mia pressione scenderebbe e potrei riprendere a lavorare al romanzo che devo finire ormai da tre anni.

   Nel leggere i racconti di questa antologia, dovrete ricordare sempre che la maggior parte sono stati scritti in un'epoca in cui la fantascienza era così disprezzata che virtualmente non esisteva, agli occhi dell'America. Non era molto divertente questa derisione, per noi scrittori. Ci rovinava la vita. Perfino a Berkeley (o specialmente a Berkeley) la gente ci chiedeva: Ma scrivete qualcosa di serio, voi? Non si guadagnava da vivere, erano poche le case editrici che pubblicavano fantascienza (la Ace Books era la sola che pubblicasse regolarmente libri di fantascienza), ed eravamo sottoposti a ogni genere di angherie. Scegliere la carriera di scrittori di fantascienza era un atto di auto-distruzione. In effetti, la maggior parte degli scrittori, per non parlare delle gente comune, non riusciva neanche a concepire che qualcuno potesse pensarci. Il solo scrittore non di fantascienza che mi abbia trattato cortesemente e stato Herbert Gold, che ho incontrato a una festa di letterati, a San Francisco. Mi ha dato un biglietto autografo che diceva: A Philip K. Dick, un collega. Ho tenuto il biglietto finché l'inchiostro non è svanito, e gli sono ancora grato per quell'atto di carità (sì, allora trattare con cortesia uno scrittore di fantascienza era un atto di carità). Per ottenere una copia del mio primo romanzo pubblicato, II disco di fiamma, [ndr Solar Lottery, 1955] ho dovuto ordinarlo alla City Light Bookshop di San Francisco, una libreria specializzata in materiale eccentrico e bizzarro. Perciò, nella mia mente devo conciliare l'esperienza del 1977 a Metz, in cui il sindaco mi stringe la mano a un pranzo ufficiale, e l'esperienza degli anni Cinquanta, quando Kleo ed io campavamo con cinquanta dollari al mese, e non potevamo neppure pagare la multa per un libro riconsegnato in ritardo alla biblioteca, e se volevo leggere una rivista, dovevo andare in biblioteca perché non potevo permettermi di comprarla, e vivevamo letteralmente con un cibo da cani. Però penso che queste cose voi dobbiate saperle: soprattutto nel caso che non abbiate ancora trent'anni, siate alquanto poveri e cominciate a sentirvi disperati, sia che siate o no scrittori di fantascienza, e qualunque cosa vogliate fare nella vita. E magari avete anche molta paura, e spesso a ragione. C’è gente che muore di fame in America. Le mie difficoltà finanziarie non finirono negli anni Cinquanta; ancora a metà degli anni Sessanta non riuscivo a pagare l'affitto, né potevo permettermi di portare Christopher dal dottore, di aver la macchina o il telefono. Il mese che Christopher e sua madre mi lasciarono, avevo guadagnato nove dollari, e questo e successo non più di tre anni fa. Solo l'aiuto del mio agente, Scott Meredith, che mi ha prestato i soldi quand'ero sul lastrico, mi ha permesso di tirare avanti. Nel 1971 ho dovuto letteralmente elemosinare il mangiare dagli amici. Sia ben chiaro, non voglio farmi compatire; quello che sto cercando di dirvi è che la vostra crisi, la vostra pena, ammesso che ne abbiate una, non durerà in eterno, e che probabilmente riuscirete a sopravvivere, grazie al coraggio, all'intelligenza, e al puro istinto vitale. Ho visto ragazze di strada, prive di educazione, sopravvivere a orrori che superano qualsiasi descrizione. Ho visto le facce di uomini che avevano il cervello bruciato dalle droghe, ma che ancora riuscivano a rendersi conto di quello che erano diventati; ho visto i loro goffi tentativi di sopravvivere. Come in una poesia di Heine, Atlas: Porto quello che non può essere portato. E il verso seguente dice: Nel mio corpo il cuore vorrebbe spezzarsi!. Ma questa non è la sola componente della vita, e non è il solo tema della letteratura, la mia o quella di chiunque altro, tranne forse che per gli esistenzialisti francesi. Kabir, il poeta Sufi del sedicesimo secolo, ha scritto: Se non avete vissuto qualcosa fino in fondo, non è reale. Così io lo vivo fino in fondo. Solo allora posso capirlo, non mentre lo vivo.

   Se dovessi tentare un'analisi della rabbia che mi tengo dentro, e che si esprime in tante forme sublimate, probabilmente giungerei alla conclusione che la mia indignazione nasce dal vedere quello che è privo di senso. Il disordine, la forza dell'entropia: secondo me, non c’è nessuna redenzione per quello che non può essere compreso. La mia opera, considerata complessivamente, è un tentativo di ripensare alla mia vita, a tutto quello che ho fatto e ho visto, e di dargli un senso. Non so se ci sono riuscito. Per prima cosa, non posso falsificare quello che ho visto. Vedo disordine e dolore, e questo devo scrivere; ma ho visto anche coraggio e situazioni comiche, e scrivo anche questo. Ma alla fine cosa resta? Qual è la visione complessiva in grado di dare un significato a tutto?

   Quello che mi aiuta, se di aiuto si tratta, e scoprire il granello del comico all'interno dell'orribile e del futile. Studio da cinque anni solenni tomi di teologia, per il mio romanzo, e gran parte della saggezza del Mondo è transitata dalla carta stampata nel mio cervello, per essere qui elaborata e distillata sotto forma di parole nuove: parole che entrano, parole che escono, e, in mezzo, il cervello, che cerca stancamente di trovare un senso in tutto quanto. Comunque, ieri ho cominciato a leggere la voce «Filosofia indiana» sull'Enciclopedia della filosofia, un'opera in otto volumi che stimo molto. Erano le quattro di notte, ed ero esausto; è un'infinità di tempo che lavoro sul mio romanzo in questa maniera.

   E, a un certo punto, ho trovato questo passo.
Gli idealisti buddisti hanno usato varie argomentazioni per dimostrare che la percezione non è una fonte di conoscenza degli oggetti esterni distinta da chi li percepisce... Il mondo esterno si può immaginare composto da una quantità di oggetti diversi, ma possono essere visti come diversi solo perché esistono diversi tipi di esperienze di essi. Ma se le esperienze sono distinguibili in questa maniera, non c’è alcuna necessità di mantenere l'ipotesi superflua di oggetti esterni…
   In altre parole, applicando il rasoio di Ockham al problema epistemologico di fondo Cos'è la realtà?, gli idealisti buddisti giungono alla conclusione che il credere a un mondo esterno è una ipotesi superflua, ossia viola il principio dell'economicità, che sta alla base di tutta la scienza occidentale. Perciò, abolito il mondo esterno, possiamo dedicarci a faccende più importanti... quali che siano.

   Quella notte andai a letto ridendo. Continuai a ridere per un'ora. Sto ridendo ancora. Portiamo la filosofia e la teologia al loro punto estremo (e l'idealismo buddista è probabilmente il punto estremo per entrambe), e cosa ci resta? Niente. Non esiste niente (sono riusciti anche a provare che non esiste l’Io). Come ho detto prima, c'è una sola via d'uscita: vedere tutto come qualcosa di fondamentalmente comico. Anche Kabir, che ho citato prima, vide la danza, la gioia e l'amore come via d'uscita; scrisse una poesia sul suono dei braccialetti ai piedi dell'insetto che cammina. Mi piacerebbe sentire quel suono; forse, se ci riuscissi, la mia rabbia e la mia paura, e la mia pressione alta, sparirebbero.


Philip K. Dick



22 luglio 2014
Intersezione ---> Calendario
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Note: 

Questo testo è stato tratto dal numero 896 della collana Urania edito dalla Mondadori, uscito il 12 luglio 1981, pp. 7-20 dal titolo Non saremo noi. Introduceva una raccolta, in due volumi, di racconti inediti di Philip K. Dick. Il secondo volume è uscito il 26 luglio 1981, numero 897 con il titolo Piccola città.

1 Vladimir Nabokov: A proposito di un libro intitolato Lolita
2 Alberto Arbasino, Sessanta posizioni, Feltrinelli, Milano, 1971 *
3 P. K. Dick ha avuto cinque matrimoni:
  1. Jeanette Marlin (dal maggio al novembre '48)
  2. Kleo Apostolides (dal 14 giugno 1950 al 1959)
  3. Anne Williams Rubinstein (dall'1 aprile 1959 all'ottobre 1965)
  4. Nancy Hackett (dal 6 luglio 1966 al 1972)
  5. Leslie (Tess) Busby (dal 18 aprile 1973 al 1977)
4  metà febbraio del 1972 lesse un saggio dal titolo L’androide e l’umano all'Università della Columbia Britannica di Vancouver e alla seconda Science Fiction Convention di Vancouver
5 P. K. Dick ha avuto tre figli con tre mogli differenti:
  1. 3° matr. Laura Archer (25 febbraio 1960)
  2. 4° matr. Freya (Isa Dick Hackett ora) (15 marzo 1967). Qui si può leggere un'intervista rilasciata dal figlio
  3. 5° matr.  Christopher Kenneth (25 luglio 1973)

0015 Colloquio Italia ---> Inghilterra con Davide Del Giudice

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di Salvatore D’Agostino

Dopo diversi dialoghi è arrivato il momento di eliminare da Wilfing Architettura la tag fuga di cervelli poiché quando sei anni fa nasceva, l’intento era quello, e continua ad esserlo, di smontare i luoghi comuni e capire, attraverso la voce dei protagonisti, la vita dietro le parole di plastica amate dai media mainstream. Dopo sei anni la retorica dei politici e la pigrizia del giornalismo italiano, bloccati come per incanto sulla parola ‘fuga di cervelli’, usata come calco mimetico per descrivere un problema senza mai analizzare le cause, mi porta a non reiterare più questo stereotipo privo di senso e a sostituirlo con una semplice indicazione - freccia - di viaggio.

Con questo dialogo a Davide del Giudice ci spostiamo, solo logisticamente, a Londra per parlare dell’architettura terrestre. Davide del Giudice non è un cervello in fuga è un architetto laureatosi nell’Università di Torino, ma che si è formato nel pianeta Terra, leggete il suo blog - o, se volete, un vecchio dialogo su Wilfing - per capire l’incredibile rete di relazioni che ha dilatato la sua cultura formativa. Dopo la laurea ha iniziato a lavorare, prima nello studio italiano, e adesso nello sede londinese di Zaha Hadid.


Salvatore D’Agostino In una breve biografia tratta dal Free Press magazine cityvision scrivevi:
"Davide Del Giudice: is an architect who deals with computational design and digital fabrication and currently is working at Zaha Hadid Architects."
Che cosa intendi per progettazione computazionale o fabbricazione digitale?

Davide del Giudice La progettazione computazionaleè la disciplina che applica approcci computazionali ai problemi della progettazione, siano esse legate al design, all'analisi o alle espressioni estetiche. Lo spazio in cui viviamo è costituito da gradienti di dati-informazioni in continua evoluzione e cambiamento. Uno dei maggiori vantaggi degli strumenti parametrici è quello di poter informare i processi progettuali con flussi di dati accurati e variabili nel tempo e nello spazio.

La digital fabricationè il processo per il quale si ottengono oggetti tridimensionali partendo da disegni digitali. Le tecniche più utilizzate sono la stampa 3d che è una tecnica di tipo additivo e il laser cutting o la fresatura CNC che sono tecniche di tipo sottrattivo.

La rapida velocità di realizzazione di modelli e prototipi ha portato ad un costante miglioramento delle tecniche e ad un abbassamento dei costi sia per quanto riguarda il materiale che l’hardware che produce i modelli. Macchine che stampano 3d homemade sono molto diffuse e accessibili a tutti. La fabbricazione digitale è molto di più che una semplice stampa 3D. Si è creata una vera e propria community sia virtuale che reale (i fab-lab) dove si possono condividere idee, tecnologie e modelli digitali. Progettazione computazionale e fabbricazione digitale sono la mente e il braccio del computational designer.

Quali sono le fasi di un approccio computazionale? 

Dall'uso di metodologie di disegno manuali agli strumenti sperimentali del design generativo le tecnologie hanno assunto un ruolo di impatto nel design architettonico. Il tema centrale di questi anni è se le tecnologie digitali possono aiutarci davvero a disegnare le città.

Sembra che stia nascendo una nuova epoca del design, con l’applicazione di questi strumenti è iniziato lo spostamento di scala da un prodotto architettonico ad un livello più macro e viceversa. Se prima si parlava di digital o parametric urbanism ora siamo tornati all'oggetto di produzione disegnato con sofisticati algoritmi generativi e realizzato con materiali intelligenti, da un sistema di rappresentazione del prodotto alla diretta materializzazione del prodotto attraverso processi specifici, definendo un nuovo bilanciamento tra autonomia dei processi e la volontà del designer.

Una moda attuale è il disegno computazionale applicato nel campo del fashion design, vediamo esoscheletri su corpi di modelle e superfici sempre più complesse generate dall'interazione di migliaia di agents che increspano le stesse superfici o le irrigidiscono o le rendono più performanti. La potenzialità degli strumenti digitali è forse stata sopravvalutata se li intendiamo come mezzi per creare migliori città del futuro, ma sottovalutata se li intendiamo per capire ed analizzare le nostre città attuali, navigando all'interno di esse per mezzo di nuovi percorsi.

Sfidando la celebre ortogonalità di Le Corbusier, gli strumenti digitali lavorano a favore di una ricerca della forma performante come faceva Frei Otto. La simulazione di agents per sistemi di adattamento complessi accoppiata alle strategie di form-finding è un percorso di ricerca che relaziona la materia con la forma. Gli strumenti digitali sono maturati fino al punto che scenari urbani possono essere previsti proiettando la ricchezza dei processi della vita contemporanea all'interno di un ordine urbano variegato e complesso. La domanda è se gli scenari urbanistici sono reali e se gli strumenti digitali possono diventare tradizionali e aspirare ad essere la rappresentazione delle dinamiche contemporanee e di un ambiente sociale imprevedibile.

Qual è il tuo processo creativo? 

II mio processo personale al computational design è la ricerca della correlazione formale negli oggetti che disegno. Secondo la distinzione della decomposizione funzionale VS quella formale prendo in considerazione tre tipi di correlazione: formale, funzionale e form-function. Quando disegno cerco di individuare questi tre tipi di correlazione con lo scopo di ottenere oggetti equilibrati nella forma e che rispondano a concetti di funzione quali l’utilizzo dell’oggetto stesso, capacità dei materiali che la compongono e resistenza propria dell’oggetto. Sono concetti molto semplici usati da secoli ma che con l’utilizzo di strumenti digitali acquistano un nuovo significato e molteplici scenari.

Le fasi ad un approccio computazionale sono l’individuazione di un problema da risolvere o di un design da raggiungere, la scomposizione del sistema complesso in molteplici sotto sistemi più semplici, lo studio della relazione dei vari sottosistemi, l’esplicitazione delle variabili del sistema, la traduzione dei processi nel linguaggio dello strumento che stiamo usando, la fase di debug (cioè svariati test per capire se il sistema funziona in diversi scenari) e infine la ricerca del design che soddisfa i requisiti che abbiamo imposto all'inizio del processo. La descrizione potrebbe confondere e portare il lettore a pensare che questo tipo di design sia completamente lineare, ma è tutt'altro.

Patrik Schumacher, in una lecture del febbraio 2012 all’Havard University, ha sostenuto che il disegno è morto poiché i progettisti invece di disegnare delle linee inerti con un righello sulla carta, stanno allestendo sistemi parametrici. Ci fai capire meglio questo nuovo mondo?

Il disegno a mano è stato abbandonato per lasciare spazio al disegno computazionale, non è un semplice passaggio dall'analogico al digitale ma si tratta di un nuovo processo di "costruire" il disegno di architettura. Ogni parte del sistema ha la propria funzione e bellezza e attraverso le relazioni stabilite dal processo di design computazionale ogni parte del disegno mantiene un'associazione con le parti reali dell'edificio diventando un intero sistema funzionante e intelligente.

Parlando del processo progettuale i team degli architetti lavorano con gli ingegneri e insieme coordinano il design attraverso un modello di scambio. Questo modello è descritto da un singolo o più script, una griglia strutturale e dei fogli di calcolo Excel che producono una singola superficie di riferimento che è usata come set-out per guidare la posizione della struttura, il cladding e la posizione dei solai. L'abilità che hanno entrambe le parti di lavorare su una superficie di riferimento come starting point permette di evolvere indipendentemente sullo sviluppo ingegneristico e sul dettaglio architettonico. Questa è l'unica via per assicurare la riuscita del coordinamento, perché il design strutturale si appoggia sulla superficie di riferimento e i dettagli del cladding di rivestimento su di essa. Durante lo sviluppo del design il disegno globale della "proto" superficie subisce diversi cambiamenti, la forma cambia dopo i vari feedback tra architetti e ingegneri attraverso una modifica sostanziale dello script mantenendo il design della proto superficie, questo permette modifiche globali al design dell'edificio e modifiche sostanziali al design di dettaglio, eliminando i tempi morti.

Sia gli architetti che gli ingegneri accedono al 3D finale e alle tabelle di valori in Excel come parte dei documenti di costruzione. L'uso di piattaforme parametriche (es.grasshopper) e strumenti di scripting (es. VB, C# e Python) permettono che il design possa venire testato e guidato con un alto livello di dettaglio da ogni subcontractors che può lavorare indipendentemente. Il focus di questo sistema che va dal parametrico verso il BIM e verso il processo di fabbricazione rimane fedele al design principale senza perdere la visione di coerenza estetica e la realtà costruttiva con le fasi di fabbricazione prima e di costruzione dopo.

Disegnare con strumenti parametrici significa poter disegnare più parti, più accuratamente, in ogni stage e infine costruire nuovi metodi per consegnare informazioni di costruzione. Mentre il disegno parametrico permette a noi di disegnare le variazioni il BIM è il processo attraverso il quale possiamo coordinare la costruzione.

Attualmente tutte le free form strutturali sono dei lattice system, cioè griglie tridimensionali, coperte dal cladding di metallo o vetro, perché questo è l'unico sistema che si può usare per negoziare le complessità geometriche con i costi di produzione. Il prossimo step sarà l'integrazione delle varie funzioni, come il trasferimento dei carichi o l'isolamento termico in sistemi multifunzionali. Questo richiederà nuovi strumenti per il design e nuove lavorazioni, ma più di ogni altra cosa nuove forme di interazione tra i vari designer, architetti e ingegneri coinvolti.

Michael Graves, in un articolo apparso sul New York Times, scrive: il disegno architettonico può essere diviso in tre tipi:
  1. referential sketch (schizzi referenziali);
  2. preparatory study (studio preparatorio);
  3. definitive drawing (disegno definitivo).
Il disegno definito, spiega Graves, ormai è universalmente affidato ai computer. Lo schizzo referenziale è un lavoro di scoperta quotidiana frammentato e selettivo, un diario visivo che potrebbe non contenere solo disegni ed hanno lo scopo di catturare un’idea e non può essere replicato al computer. Lo studio preparatorio è una progressione di disegni, via via sempre più dettagliati che elaborano un progetto. Come per lo schizzo referenziale non può riflettere il processo lineare espresso dal ‘disegno assistito’. In entrambi questi tipi di disegno c’è la gioia nel creare qualcosa che derivi dall’interazione tra la mente e la mano. In un disegno eseguito a mano, sia esso su una tavoletta elettronica o su un foglio di carta, ci sono intonazioni, tracce di pensiero e ragionamenti che non possiamo ritrovare in una progettazione parametrica. Il processo lineare del disegno assistito non contiene le emozioni di un disegno a mano libera e conclude: «un disegno a mano libera ci rende veramente vivi.»

La progettazione parametrica non è un processo lineare? o se vuoi: quali sono le tipologie di disegno per un approccio computazionale?

La caratteristica che contraddistingue un architetto da un altro è la sensibilità, una qualità che si traduce nella capacità di soddisfare l’esigenza umana usando codici e tecniche algoritmiche verso territori non previsti. Nella storia del disegno una limitazione importante nell’architettura è stata la rappresentazione dei territori: l’uso della prospettiva, il compasso e le proiezioni assonometriche hanno sempre avuto il compito di valutare e analizzare l’architettura, mostrandoci però sempre una visione limitata. La società contemporanea inizia a riconoscere i fenomeni complessi come aspetti del nostro mondo, gli architetti iniziano ad applicare modelli di complessità presi in natura attraverso algoritmi in modo più efficiente impiegandoli nella progettazione e fabbricazione e dotandosi di nuove competenze e strumenti digitali.

Queste tecniche consentono l’accesso a livello teorico ad un risultato tramite strumenti di programmazione. Lo ‘Script’ è l’azione di scrivere un semplice programma al computer per controllare e automatizzare risultati più complessi; una serie di operazioni possono essere automatizzate per produrre un risultato in risposta a una serie di input. I software si trasformano da strumenti per disegni semplici a motori che realizzano oggetti intelligenti. Ad oggi le tecniche di progettazione computazionali sono per lo più utilizzate per l’ottimizzazione, la razionalizzazione o l’ornamento di una superficie ma la nuova ricerca nel design sugli algoritmi si concentra invece nelle potenzialità intrinseche della computazione generando spazi e traducendo fenomeni naturali in algoritmi matematici e geometrici, con lo scopo di produrre sistemi auto organizzati. Questo nuovo mestiere computazionale crea coerenza e precisione all’interno di esplorazioni formali essendoci una cognizione che ridefinisce i vincoli attraverso pattern e codici e che progressivamente migliorano i metodi di fabbricazione digitale.

Creare quindi un sistema auto organizzato e quindi imprevedibile per quanto riguarda forma e consistenza finale significa scrivere un codice come sistema non lineare, cioè non più dettato da un processo causa-effetto ma da un processo regole geometrico spaziali – geometria imprevedibile.

Ecco alcuni link per approfondire: Agents in fashion design e agents in architecture: qui e qui.

In un tuo post del 2008 avevi coniato un termine CODE MONKEY per spiegare questa nuova evoluzione del lavoro dell’architetto, scrivevi: 

«Dopo l'uso della matita e del tecnigrafo siamo passati al mouse e agli strumenti cad, diventando dei cad monkeys. Il futuro sarà quello di creare i nostri disegni senza tracciare nemmeno una linea ma scriptnado i codici direttamente, diventeremo così dei code monkeys come i programmatori dei videogiochi. Uno strumento che i coder usano è appunto monkey, lo script editor che ha la funzione molto utile di debugger e di help sui rhinoscript che inseriamo. Il titolo del post è nato da una puntata che ho visto in tv su un nuovo cartoon x adulti. "I due vengono definiti ‘Code monkey’, espressione che indica in termini dispregiativi i componenti più giovani e meno esperti di un team di programmatori ai quali tocca scrivere codici su codici per sopravvivere.»

Dopo sei anni, in pratica un secolo fa per l’evoluzione dei linguaggi e delle tecnologie odierne, resta ancora valida la tua previsione sui cad monkeys?

La mia previsione resta valida e aggiungo che ormai è stata anche già superata. Se prima i code monkeys erano figure che operavano nell'ombra all'interno di un team progettuale ora questa figura professionale si è evoluta ed è parte integrante del team di progettazione. Facciamo un passo indietro e capiamo di cosa si tratta. 

Quando un architetto scrive un programma per risolvere un problema, ulteriori opzioni possono essere esplorate attraverso modifiche al programma scrivendo algoritmi. Un algoritmo è un particolare set di istruzioni che devono essere scritte in un linguaggio che il computer capisca, un codice.

Gli architetti disegnano i loro progetti usando linguaggi di scripting come RhinoScript ( VBA o Python), JavaScript ( Processing) ecc. per scrivere programmi che personalizzano il loro design all'interno del software di disegno. La potenza e la disponibilità di questi linguaggi di script si è diffusa grazie alla nascita di Grasshopper, un software di visual programming language che ha portato l'incremento dell'utilizzo dell'uso computazionale nella professione. Pensare in modo algoritmico significa prendere posizione nel ruolo interpretativo e capire i risultati che genera il codice, conoscendo come modificare il codice per esplorare nuove opzioni e speculando su eventuali sviluppi del design. Ci stiamo muovendo da un'era dove gli architetti usavano il software verso un'era in cui scrivono il software. 

il computational designer costruisce il modello 3D e crea gli strumenti del disegno, ma la sua esperienza va oltre queste tasks. Egli genera ed esplora gli spazi architettonici e i concept attraverso la scrittura e la modifica degli algoritmi che sono relativi alla posizione degli oggetti, alla configurazione degli elementi e alla relazione tra gli elementi. La creazione di queste tools personalizzate prendono posizione durante il processo di design e diventano parte integrante di essa. Questi due punti sono la chiave per capire le possibilità del computational designer e il suo ruolo nelle pratiche professionali. Perchè le tecniche computazionali siano utili, esse devono diventare flessibili e si devono adattare costantemente ai cambiamenti parametrici del design architettonico. La struttura degli studi di architettura sta cambiando in risposta al lavoro del computational designer, attualmente ci sono quattro figure professionali che fanno parte di questo mondo : gli specialist group interni allo studio, i consulenti specialisti esterni allo studio, studi di minore dimensione che fanno consulenza computazionale e gli sviluppatori e disegnatori del software. 

L'approccio più comune è avere i computational designers interni che lavorano insieme al team di designer. Essi esistono in grandi firme come Zaha Hadid Architects, Foster+Partners, Herzog &deMeuron, Grimshaw, Aedas, UnStudio, Som.

Dal maggio 2009 lavori presso lo studio Zaha Hadid, dove hai iniziato subito con un’installazione per la biennale ‘BAAM’ d'arte e di architettura del Mediterraneo di Reggio Calabria.

Progetto redatto per la biennale BAAM’

Qual è il processo formativo per un neo architetto all'interno di uno studio con una forte connotazione autoriale?

In un'intervista di qualche anno fa Zaha Hadid ha dichiarato che non ama quando i suoi collaboratori disegnano come se dovessero imitare il suo design ma che preferisce che i designer all'interno dello studio sperimentino un proprio stile personale, sempre fresco e maturo allo stesso tempo. È un susseguirsi di micro linguaggi che si amalgamano con coerenza al linguaggio architettonico della Hadid, rendendolo sempre innovativo e pronto a rispondere alle esigenze del cliente e del programma.

Per un neo-laureato lavorare in uno studio-atelier del genere è come sprofondare in un vortice di forme sperimentali, superfici e volumi fluidi che racchiudono al loro interno tutto ciò che è richiesto dal programma funzionale. La vera magia è riuscire a progettare "liberamente" usando forme continue che non si staccano da terra ma che si ergono come un involucro naturale e vedere come il tutto è pensato nel minimo dettaglio e che funziona; i vincoli progettuali ci sono ma sono completamente inglobati nel design dell'edificio stesso.La mia esperienza personale è stata al contrario molto più tecnica, lavorando su tematiche quali facciate controllate con strumenti parametrici, disegni esecutivi e di cantiere, discretizzazioni di geometrie complesse, automatizzazioni di processi ecc... Tutto questo però mi ha portato a scegliere una branca della progettazione che è quella del design computazionale. Solo nell'ultimo anno ho potuto lavorare progettando un edificio da zero e applicando le tecniche di modellazione poligonale per generare geometrie continue e coerenti al programma. Dopo questa esperienza ho partecipato a tre concorsi di design internazionali applicando ciò che avevo imparato e migliorando le mie skill, potendo così progettare degli oggetti di arredo che ho definito con il nome di "lusso accessibile".

Lusso accessibile”!? Mi spieghi meglio in che cosa consiste?

Gli oggetti che disegno li definisco appartenere ad un lusso accessibile, perché si inseriscono in una delle nuove tendenze di mercato seguendo le nuove strategie di prodotto adottate dai più famosi brand di lusso. È un lusso accessibile che fa riferimento non più alle caratteristiche intrinseche di un prodotto, ma a quello che rappresenta, ampliando così le prospettive alle quali siamo tradizionalmente abituati. Per un prodotto appartenente al nuovo lusso è opportuno utilizzare i migliori materiali e metodi di lavorazione. Per quanto riguarda la qualità, si parla di una via di mezzo tra l’artigianato e il bene di serie, parliamo quindi di “mass artigianal”. 

Mi fai vedere un esempio concreto?

Il Papilionidae table.












Facciamo un passo indietro, dicevi: «Solo nell'ultimo anno ho potuto lavorare progettando un edificio da zero»; mi potresti raccontare come si evolve un progetto nello studio-atelier di Zaha Hadid? quali sono i parametri iniziali? come viene costituito il gruppo di progettazione? che ruolo ha la figura, se c’è, di intermediazione tra Zaha Hadid e il gruppo? come vengono gestite le fasi intermediarie del processo progettuale?

Durante le esperienze progettuali che ho avuto negli anni passati presso lo studio ZHA ho lavorato sempre a progetti già in fase avanzata dove mi occupavo solo di parti specifiche dell'edificio. Nell'ultimo anno ho avuto l'occasione di partecipare ad un progetto per un cliente come direct commision e ho partecipato fin dall'inizio alla fase di design.

I parametri iniziali sono quelli dello studio del sito sotto il punto di vista dei collegamenti e degli accesi, il sistema del landscape e una prima versione del programma tradotto dai valori delle aree e dei volumi in blocchi tridimensionali assemblati già con una prima idea di connessione tra le parti. Successivamente si affina la continuità di questi protovolumi per mezzo di field parametrici per quanto riguarda il landscape e per mezzo di mesh-involucro che racchiudono al loro interno i blocchi del programma.

Le fasi progettuali sono molto veloci e intense, svariate versioni vengono prodotte per avere un catalogo ricco di opzioni progettuali in stretta relazione tra il team di progetto e gli associate architects dello studio ZHA. Le fasi intermedie sono divise in mid term e final submission: la prima è una fase dove le diverse opzioni di progetto vengono presentate al cliente come prima proposta, nella seconda invece si scelgono solo le opzioni da portare avanti e si realizzano gli schemi architettonici, si definisce più in dettaglio l'involucro e gli interni e si producono render e filmati per il cliente, oltre al modello realizzato con tecniche di prototipazione rapida.

Dopo l'esperienza nello studio romano ti sei trasferito nella sede principale di Londra, che cosa è cambiato nella tua vita, dal punto di vista progettuale e lavorativo?

Dal punto di vista progettuale questa esperienza si sta rivelando molto formativa, c'è molta energia e creatività nello studio e poter seguire lecture all'interno dello studio e poter accedere ad un archivio di progetti in continua evoluzione è un'ulteriore possibilità per migliorare il proprio bagaglio culturale. I colleghi con cui lavoro provengono dalle migliori scuole di architettura o hanno un'esperienza precedente in altri studi internazionali, il clima è molto positivo e si cresce professionalmente di giorno in giorno. 

Come saluto finale mi fai uno screenshot del tuo attuale desktop - tavolo di disegno?

Eccolo:

desktop_delgiudice s.jpg

29 luglio 2014
  Intersezioni ---> Fuga di cervelli

0015 [WILFING] Come leggere l'architettura transnazionale e vivere felici

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Salvatore D’Agostino

Pubblico l'introduzione eliminata dal post 0015 Colloquio Italia ---> Inghilterra con Davide Del Giudice, come promesso a @aRCHIfETISH autore del blog Archifetish.
È arrivato il momento di cambiare il punto di osservazione (ndr per l’aporia/rubrica fuga di cervelli) e scrutare le dinamiche del nostro paese osservando la vita dei cittadini che abitano il pianeta terra, oggi, nel 21° secolo. Una dilatazione di prospettiva che da subito si rileva complicato perché è impossibile semplificare le infinite culture abitative esistenti nel nostro pianeta. Per orientare questo dialogo ci aiutiamo dell’analisi del sociologo Leslie Sklair e le usiamo come linea guida:
«In architettura, come in altri ambiti - scrive Sklair -, la classe capitalistica transnazionale è transnazionale perché: gli interessi economici dei suoi membri sono sempre più collegati a livello globale, piuttosto che di origine esclusivamente locale e nazionale: la TCC (ndr Transnational Capitalist Class) cerca di esercitare il controllo economico nei luoghi di lavoro, il controllo delle politiche interne e internazionali, e il controllo ideologico - culturale nella vita quotidiana attraverso forme specifiche di retorica e pratica del consumo e della concorrenza; i membri della TCC tendono a condividere l'alto livello di istruzione e il consumo i beni e servizi di lusso. Infine, i membri della TCC vogliono dare un'immagine di se stessi come dei cittadini del mondo, oltre che dei propri luoghi di nascita».1

Da quest’angolazione ipotizziamo un uomo nato sul suolo inglese o italiano o cinese o emirato arabo e consideriamo che faccia parte della classe capitalistica transnazionale TCC (come ipotizzato da Leslie Sklair) per domandarci: che abitante è?

La descrizione involontaria ma verosimile, potrebbe essere quella fatta da Marc Augé all'inizio del suo fortunato - ma bislacco - libro ‘Non luoghi’ dove immagina un abitante ipotetico chiamato signor Pierre Dupont (ndr come dire il signor Rossi) che prima di prendere l’auto fa un prelievo al bancomat, prende l’autostrada e paga il casello automatico, parcheggia pagando dalla macchinetta, si reca all'imbarco dell’aeroporto avendo già fatto tutto online (ndr una mia prima aggiunta poiché nel 1992 non esisteva), passa il metal detector, compra al duty-free una bottiglia di cognac e una scatola di sigari pagando con la carta di credito, si relaziona con i suoi collaboratori o gli affetti familiari utilizzando un computer o la vasta gamma di telefonini di nuova generazione (ndr nuova aggiunta poiché non si usano più fax o Videotel come scritto nel libro) e sull'aereo si rilassa sfogliando riviste o vedendo film o ascoltando musica.

Oggi, aggiungo al racconto di Augè, Pierre Dupont andrà a Londra per chiudere un contratto e rientrare in tempo per la festa di compleanno del figlio, per poi ripartire l’indomani mattina per Dubai, dov’è stato invitato all'inaugurazione del TCC hotel. Dicevo bislacco perché Marc Augé, e di conseguenza i suoi emuli, hanno usato il neologismo non luoghi come tag letteraria per descrivere tutti gli abitanti del mondo, riducendo il mondo attraverso l’artificio analogico della vita dell’abitante Pierre Dupont (o il dispositivo Pierre Dupont come direbbero i critici di architettura) senza mettere in dubbio che Pierre Dupont è un abitante di una minima parte del mondo.

Nel pianeta Terra, ritornando alle tesi di Sklair, ci sono sempre più abitanti globali, con lavori globali e relazioni globali per usare la metafora di Augé dei Pierre Dupont TCC. Una popolazione transnazionale che non abita i non luoghi ma che vive il non luogo, per essere più chiari, che hanno un’identità e senso civico globale e vivono il pianeta terra non in un luogo specifico ma nella sua interezza.

Per intuire la vita degli ipotetici Pierre Dupont TCC v’invito a leggere i cinque pedinamenti, che la rivista Abitare ha dedicato a Renzo Piano, Norman Foster, Zaha Hadid, Jean Nouvel e Bjarke Ingels fondatore di BIG2. Senza cadere nella trappola delle semplificazioni linguistiche, la vita nel pianeta terra degli abitanti TCC è molto più complessa e impossibile da catalogare usando l’espediente di un’etichetta linguistica che la raggruppi. Ad esempio, i cinque architetti transnazionali proposti da Abitare hanno idee e linguaggi progettuali l’uno diverso dall’altro, sarebbe un grave errore liquidarli con tag stereotipate. Questa lettura ci aiuta a capire uno degli aspetti delle infinite declinazioni del modo di abitare il mondo. Viceversa è un errore livellare la lettura dell’architettura, come unica possibile, sul senso dell’abitare della ‘classe capitalistica transnazionale’ ovvero sui Pierre Dupont TCC.


Con questo dialogo con Davide del Giudice incrociamo alcuni aspetti dell’architettura degli ipotetici abitanti TCC. Davide del Giudice non è un cervello in fuga ma un architetto che si è laureato nell'Università di Torino, ma si è formato nel pianeta Terra - leggete il suo blog o, se volete, un vecchio dialogo su Wilfing - per capire l’incredibile possibilità di relazioni che ha espanso la sua cultura formativa. Dopo la laurea ha lavorato prima nello studio italiano e adesso nella sede centrale londinese di Zaha Hadid, un architetto che progetta città ed edifici per la TCC. 

Da Londra, dove si trova, gli ho rivolto qualche domanda: 0015 Colloquio Italia ---> Inghilterra con Davide Del Giudice

5 agosto 2014
Intersezioni ---> WILFING



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Note: 
1Leslie Sklair, La classe capitalistica transnazionale e l’architettura contemporanea nelle città globali, Lotus, n. 138, giugno 2009, pp. 4-5.
2 Nello specifico:
  • Un anno: Bjarke Ingels fondatore di BIG, Abitare 528, Dicembre-Gennaio 2012*
  • Un anno: Being Jean Nouvel, Abitare 518, Dicembre-Gennaio 2011*
  • Un anno: Being Zaha Hadid, Abitare 511, Aprile 2011*
  • Tre mesi: Being Norman Foster, Abitare 507, Novembre 2010*
  • Sei mesi: Being Renzo Piano, Abitare 497, Aprile 2009*
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