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0054 [SPECULAZIONE] Ugo Rosa | Abitare Instant Biennale ovvero il deserto del Gobi dell’intelligenza critica

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di Salvatore D’Agostino

Da qualche mese Ugo Rosa, quasi ogni giorno, scrive lettere –sul suo profilo facebook - alla sua amica F.B. sull'arroganza dell’architettura contemporanea che condanna all’iperattualità. Pubblico, con il consenso dell’autore, l’ultima lettera dedicata allo speciale della rivista Abitare sula biennale di architettura di Venezia.

Prima di leggere la lettera, due note a margine su due miti dell’architetto che legge e cerca la critica.

La prima: un architetto che fa il mestiere dell’architetto non deve avere come obbligo, tra i suoi requisiti, la lettura. Un buon architetto, se non può andare a vedere le architetture, legge i disegni, non ha bisogno di didascalie o scritti di supporto per imparare a progettare. Personalmente sogno libri di architettura senza parole, costituiti da solo disegni. Se è possibile non disegni accattivanti o da quadro da salotto buono e soprattutto senza foto ‘da messa in posa’ del fotografo di architettura. Libri da sfogliare, magari da ridisegnare.

La seconda: ‘critica’ è una parola delicatissima che ancora oggi per l’architettura viene rielaborata sui canoni d’inizio del novecento, quando alcuni bravi critici dell’arte utilizzarono il linguaggio dedicato alle opere d’arte per criticare le architetture. Da quel momento l’architettura diventa, per il nuovo critico di architettura, un’opera d’arte osservata come se fosse un oggetto. L’architettura, per sua natura, non è un’opera d’arte ed è sbagliato continuare a parafrasare, se non a scimmiottare, il linguaggio dei critici dell’arte per parlare di architettura. AAA cercasi un linguaggio specifico per la ‘critica’ di architettura.

Di seguito la lettera del 19 agosto 2014 di Ugo Rosa a F. B.


sfoglia Abitare Instant Biennale




di Ugo Rosa

Cara F.B.
se vuoi avere un quadro del livello della riflessione italiana intorno all’architettura e dei suoi sfoghi editoriali sfoglia, ti prego, l’ultimo numero di Abitare dedicato alla Biennale di Venezia.Dire che si tratta di un prodotto che umilia i suoi redattori mi dispiace un pochino perché tra loro ci sono persone che tu stessa mi hai fatto conoscere e nei cui confronti non ho motivo di disistima, tuttavia è l’unico modo onesto per definirlo. Non vi trova posto una riflessione, non vi si annida il barlume di un’idea, non c’è neppure, propriamente, scrittura. Con brutale immediatezza vi è stenografata solo la stupidità di cui oramai è capace l’editoria di settore.

Non ci si può neppure indignare, proclamando che l’editore avrebbe dovuto vergognarsi di darlo alle stampe perché ho paura che fosse proprio questo ciò che l’amico desiderava (il suo, ahimè, target). Se uno di quei redattori avesse prodotto una riflessione critica qualsiasi, infatti, come avrebbe potuto trovare posto tra quei fogli? Dalla prima pagina all'ultima vi si trascinano penose descrizioni il cui unico scopo sembra quello di arrivare alle tremila battute di prammatica per giustificare i quattro soldi che si guadagnano con quella miserabile cartella (che, tanto, nessuno leggerà, visto che gli architetti, ormai, guardano solo le figure).

Vi sfilano i più triti luoghi comuni giornalistici reperibili tra le impolverate carpette della segreteria di redazione. Si comincia con “Il labirinto della modernità” e col “racconto di un mondo in profonda metamorfosi” si prosegue con “Il futuro è già cominciato” ci si accomoda in gondola per godersi i bagordi “La Mostra Internazionale di Architettura di Venezia è già di per sé un’occasione valida per una gita in Laguna. In più questa edizione è accompagnata da un nutrito calendario di spettacoli di danza e concerti…” per finire alla grande coi fuochi d’artificio “la fascinazione è forte già a partire dall'atrio al piano terreno” su un meraviglioso fondale dove tutto è “strepitoso” e “straordinario” tanto che sembra quasi di sognare e “l’effetto è quello dell’annullamento dello spazio-tempo, una sospensione che assomiglia molto al miraggio”.

Solo che questo non è un miraggio, è il deserto del Gobi dell’intelligenza critica. Attraversarlo non richiede solo forza d’animo, c’è bisogno di temerarietà e di una soglia del dolore assai elevata perché, in caso contrario, alla quarta pagina si comincia ad ululare come il malcapitato sotto i ferri del dentista immemore d’anestesia.

Un doloroso abbraccio
ur



20 agosto 2014
Intersezioni ---> SPECULAZIONE

Pietro Motisi | Sudlimazione

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text by Salvatore D’Agostino

Between 1951 and 1953 the writer and photographer Fosco Maraini, together with the editor Diego De Donato started their trip from Campania to Sicily. His intent was to «put between two covers all, just all our South: magnificence and horrors - writes Maraini - middle class and farmers, sailors, bishops and Mafioso's, everything, i say everything». But, after collecting a huge amount of materials, the project that should have been called Nostro Sud, was abandoned because of a wearing down «owerpowered by the wealth of things, the richness of the aspects, the multitude of faces and destinies, we end up to the immense fire of South». 

Fosco Maraini: Piana degli Albanesi (1952) and La torre nuvolaria near Termini Imerese (1952)


Nostro Sud, if published, it would have been the first narrative for images of the South, just because, before the ambitious Maraini's project, photography in Sicily was used to serve something else instead of being an autonomous tale.

The middle class of the island used photography to produce masturbatory images, often rich of classic and charmy poses. The verist writers such as Luigi Capuana, Federico De Roberto and Giovanni Verga used photography to collect a sample of human types or places to develop later in literature. Elio Vittorini in 1950 commissioned to the photographer Luigi Crocenzi to complete a reportage, to tell by images his romance Conversazione in Sicilia, but a technical incident ruined over a one thousand five hundred negatives. So Vittorini decided to use just some surviving photographs and he completed the book using images from other photographers and Renaro Guttuso's drawings. «Conversazione in Sicilia - writes the young photographer René Burri, after he joined Magnum photos agency - was my Sicilian guide. When i arrived to that village between the mountains, it seemed to me that those stairs were leading to the sky». Those photos of villages and people who he met along is journey in 1956, were sent to worldwide magazines such as Life, Look, Stern, Paris-Match and Epoca and represented one of the first reportages - not about war - realised in Sicily. Finally, film directors that from after the second War to the 60s shot more than thirty films in Sicily, from La terra trema (1948) by Luchino Visconti to L'avventura (1960) by Michelangelo Antonioni, they used this land to fix their typical scenes in their films. The worldwide diffusion of those films chatched the attention of several photographers such as Brassaï, Bruce Davidson, Herbert List, Leonard von Matt, Fulvio Roiter and David Seymour who retraced the scenes seen in the films.

So many photographers then came to Sicily looking for the exotic, the uncontaminated, or just to accompany an anthropology usable for the infinite production of historical, books published as memory books. Sicily, since the end of the second War, becomes a set that reiterates, in most of the cases, useless places about Sicily and the Sicilians. After the never finished book Nostro Sud By Marini, so many photographers wanted to use images. Not so many of them thought of using them as writings; but between those that did, some of them achieved it. There are projects like Paesi dell'Etna by Enzo Sellerio and I siciliani by Ferdinando Scianna.

In the photos of Paesi dell'Etna, work realised between the 1962 and the 1967 with more than three thousand photographs, Sellerio does not look for the Sicilian colour, his eye is often surreal, amused and a little childish. In his journey through Etna's villages he does not seem worried to catch the strain in workers faces. For Sellerio, in those places made of lava stones, coal, agriculture, the man is territory, he is not an independent part, but territory itself: «I think that a real photographer - writes Enzo Sellerio - has to be like a writer who writes and expresses himself by images». The book will never be curated and published by the author.

Enzo Sellerio: Peasantry Maletto (1963) and Harvesters Milo (1963)










I Siciliani or Les Siciliens, published at the same time in Italy by Einaudi and in France by Denoël in 1977, collects photographs of the young wandering, from the early 60s to the 1977, of Ferdinandio Scianna. The photos are simple, often slightly out of focus, frank, and they reveal a natural talent, pure and still, far from the aesthetic of Scianna's photography in which, afterwords, he would trap himself. Quoting an anecdote written by Dominique Fernandez in the prologue of the book, they are patched photographs: «In this way the apron of the woman from Pietraperzia, patched as it is, truly represents the symbol of Sicily; and the woman, wearing it incarnates three thousand years of uncertain history, in motion, always restarted».

Ferdinando Scianna: Gibellina after the earthquake of 1969







The photos by those two last authors do not feed on Sicilian visual stereotypes, they do not make easy connections with the past, do not fall in an excess of aesthetic and do not make an advert to promote the idea of the Isle. I wanted to write about those three photographic narrations, including Nostro Sud because, along the years, the relationship between photography and the photographic narrative in Sicily has been complicated; Fosco Maraini thought that: «The South is still today (in its good way) the most prolific Italian reserve of philosophers, intellectuals, rhetoricians, life mentors, and (in its bad way) the sanctuary of an empty cult of the word, of the noble adjective, of the sentence that sounds great and it does say nothing». Keeping out some photographs with no frills like It is happening that… made by Letizia Battaglia and some unreleased works by Josef Koudelka, in those last years it is been preferred to publish almanacs of verdant photos that, in the end, tell about nothing and it has been forgotten to tell us about the present days: what it is today.

Letizia Battaglia Killed while he was in the garage Palermo (1976) and Josef Koudelka Sicily (2005)





In this Sicilian project, Sudlimazione, Pietro Motisi rereads the notion of paesaggio: a portion of territory to isolate because it is sublime and it deserves attention. He puts inside the landscape the here and now, not to be confused with modernity or contemporaneity, but in the natural and continuous evolving of time. The present day is all it is possible to see, that He wants see, by walking into it. The present day, in its inner essence, what is visible with no redundance, is the visual control of Pietro Motisi. In his journey, he did not look for exotic places, typical, historical and, if they are included, he kept them secret. The elements of the landscape, eroded by the light, natural or artificial, appear in the daily use and abuse of those who live in the territory, they are there, at least in that present day when Pietro Motisi photographed them.

photos by Pietro Motisi










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0002 [MURO] 9 novembre 1989 l'informazione prima del web

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di Salvatore D’Agostino

Con i primi tweet delle nove e tre minuti, qualche secondo dopo l’ultimo distruttivo sisma avvenuto in Italia nel 2012, nei dintorni dell’Emilia, anche la stampa italiana si è trovata spiazzata nei confronti delle informazioni veicolate da chiunque si trovi, suo malgrado, al posto giusto. Quei tweet hanno messo in pensione le vecchie procedure dei dispacci di agenzia. Oggi, chicchessia e in qualsiasi momento, può rilanciare, in contemporanea ad un evento imprevisto, delle informazioni costringendo il giornalismo ufficiale a confrontarsi con le voci informali che anticipano o a volte ridimensionano gli eventi in corso.

Questa della condivisone globale delle informazioni è un’idea che già, circa venticinque anni fa, Tim Berners Lee metteva a punto attraverso la scrittura di un protocollo aperto che, nell'agosto del 1991, porterà alla nascita del World Wild Web. Un’estensione cognitiva dell’uomo che in poco tempo ha trasformato e trasformerà l’umanità del pianeta terra.

Mentre Tim Berners Lee sviluppava la sua idea, nel cuore dell’Europa, il nove novembre del 1989 il corrispondente estero per l’agenzia italiana ANSA, tale Riccardo Ehrman, veniva invitato nella conferenza stampa indetta per le 18 nel ‘sottomarino’, così chiamata in codice la sala della conferenza stampa. L’invito gli era stato rivolto da Günter Pötschke, suo collega dell’agenzia stampa ADN - della allora DDR - nonché suo confidente segreto, attraverso una telefonata in codice (ricordiamoci che c’era allora la guerra fredda e i telefoni, e non solo, venivano controllati dagli agenti segreti di tutto il mondo) con l’intenzione di porre una domanda al Segretario del Comitato Centrale SED delle scienze dell'Informazione (l’equivalente odierno del portavoce del governo) Günter Schabowsk, sulle nuove disposizioni di legge di viaggio all'estero.

Dopo la telefonata, Riccardo Ehrman si avvia con la sua auto verso l’edificio del ‘sottomarino’. Perde del tempo perché non trova parcheggio: negli ultimi tempi queste anonime conferenze stampe cominciavano ad essere sempre più frequentate a seguito dei continui cambiamenti innescati dal 1985, grazie al processo di apertura del presidente dell’URSS Michail Gorbačëv. Essendo in ritardo trova la sala piena, scavalca il cordone di sicurezza e si accovaccia con i suoi sessantanni e il blocchetto degli appunti da buon cronista sul predellino, sotto il tavolo del segretario Günter Schabowsk.

Per cinquanta minuti ascolta le consuete e noiose comunicazioni del portavoce, per poi prendere la parola e porre al segretario la domanda che Günter Pötschke gli aveva suggerito. 

Il portavoce, come si può vedere dal video, quasi ad aspettarsi una domanda del genere, prende un foglio che si trova sul tavolo e legge le nuove norme in materia di viaggio. Legge con precisione per non sbagliare. Fin qui tutto procede secondo la raffinata abilità retorica dei politici di quel periodo, che è quella di usare un linguaggio aperto che si presta a diverse interpretazioni.


Dopo questa lettura, segue una «domanda veloce con un effetto enorme» - come dirà Willy Brandt. Riccardo Ehrman, incalza il segretario Günter Schabowsk, chiedendo una precisazione temporale: “da quando?” La risposta, accompagnata prima da una sbirciata sui fogli della norma, è ambigua ma decisiva: “che io sappia da subito”.



La vicenda di Riccardo Ehrman è ambigua, un po’ come la risposta del segretario, come si vede in un repertorio di spezzoni dei telegiornali di allora raccolti dalla neo nata trasmissione di rai tre, blob, del dieci novembre di quell'anno. Ehrman dice che subito dopo la notizia tutti si catapultarono fuori a scrivere che il muro era caduto.


Parole che ritratterà nelle interviste di questi ultimi anni, dove afferma che solo in due cercano subito di rilanciare la notizia e che solo lui aveva avuto la giusta interpretazione della risposta del segretario che aveva dato il via alla ‘caduta del muro’. Non solo, tiene anche a ribadire che la sua domanda non era per niente casuale, ma era frutto di una soffiata avuta dal collega confidente Günter Pötschke. In seguito, il giornalista Peter Brinkmann cercherà, a tutti i costi, di dimostrare che la domanda decisiva l’aveva posta lui.

Questa storia della prima importate conferenza stampa del ventesimo secolo meriterebbe un racconto parallelo perché è ricca di misteri, umanità e intrecci di politiche globali, in un periodo in cui le informazioni, senza il web, erano in mano a pochi corrispondenti gestiti dalla stampa ufficiale e questi pochi avevano delle vite più da 007 o controspionaggio che da ‘giornalisti della realtà’. 

Un racconto parallelo è il reportage di Pietro Motisi a Berlino, venticinque anni dopo la «domanda veloce con un effetto enorme». Un diario di viaggio ibrido, volutamente ambiguo nella narrazione, che intreccia riflessioni, citazioni, fotografie con pellicola, istantanee polaroid e immagini digitali.

Un racconto che v’invito a leggere e osservare. Un racconto che finisce con una foto digitale che incornicia una foto polaroid dove appare, sulla parete della stanza in cui ha vissuto, un manifesto con su scritto “Show you are not afraid” ossia "Non aver paura di mostrare". Senza punto esclamativo, né intimidazione, né evocazione. È la visione di una narrazione possibile nella Berlino di oggi.



9 novembre 2014
Intersezioni ---> Muro

0003 [MURO] 9 novembre 1989 venticinque anni dopo, circa, di Pietro Motisi

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«[...] Un racconto parallelo è il reportage di Pietro Motisi a Berlino, venticinque anni dopo la "domanda veloce con un effetto enorme". Un diario di viaggio ibrido, volutamente ambiguo nella narrazione, che intreccia riflessioni, citazioni, fotografie con pellicola, istantanee polaroid e immagini digitali.
Un racconto che v’invito a leggere e osservare. Un racconto che finisce con una foto digitale che incornicia una foto polaroid dove appare, sulla parete della stanza in cui ha vissuto, un manifesto con su scritto “Show you are not afraid” ossia "Non aver paura di mostrare". Senza punto esclamativo, né intimidazione, né evocazione. È la visione di una narrazione possibile nella Berlino di oggi.» (Salvatore D'Agostino)
Qui puoi leggere la versione integrale.

Testi e foto di Pietro Motisi


Giovedì 20 febbraio

Si ripropone un nuovo buio da scrivere, l'azione di svuotamento indotta si compie lasciando spazio ad interrogazioni più prosaiche anche se per questo non meno importanti:
Dove inizia il viaggio?
La risposta arriva pronta e dinamica come le ore:
Inizia nel momento stesso in cui di esso comincia il pensiero.
Nuovi stimoli arrivano forti e immediati ma un insolito primaverile crepuscolo rimanda il desiderio stesso. A un domani che non tarderà, almeno per il momento.



«La vera semplicità e nudità della vita dell'uomo nelle età primitive implicavano questo vantaggio, per lo meno: lasciavano l'uomo ospite della natura. Quando si era ristorato con cibo e con sonno, egli meditava nuovamente il suo viaggio.» (da: Henry D. Thoreau, Walden ovvero vita nei boschi)

Venerdì 21 febbraio
Nel suo giorno la luce torna generosa a rivelare.
Il cammino comincia al primo mattino, la mente torna ad eccitarsi e comincia la ricerca.
Il centro, anche se rischioso luogo pregno di cliché, rappresenta un'ottima chance per cercare occhi nuovi.







Fantastico trovarsi travolti da un tale fermento di ricostruzione.
Il nuovo è già un classico, per l'essenza propria del suo processo di realizzazione.



Sabato 22 febbraio
Uno straordinario senso di quiete contraddistingue questa capitale.
Sia che si attraversi il centro, un parco o una periferia industriale ci si ritrova avvolti da questo regalo che è la possibilità di rivolgersi allo spazio e all'altro continuando a sentire il proprio respiro.












Domenica 23 febbraio
Ancora nuovo spazio torna a far risuonare il cammino. Suggerisce di non piantare i nostri piedi e ricordarci sempre del cielo.






























Lunedì 24 febbraio
Non solo apologie suggerisce il nuovo.

Se lo si affronta con sincerità esso stanca l'occhio e le membra. Manipolazione e catalizzazione del momento critico sono fondamentali per proiettare la nuova azione.






Il clima primaverile quasi imbarazza e aggredisce con le sue ombre nette. Ogni passo pare riposto dove qualcuno ha già pensato che ciò accadesse.Si lavora al crepuscolo.
















Martedì 25 febbraio
Comincia a delinearsi ciò che, prendendo la luce di questi luoghi per scriverne un'immagine, va restituito in termini di energie.Relazionarsi al paesaggio non può mai essere un'azione avulsa dal contatto di chi vi abita. Essi spesso non dispongono di un filtro estetico attraverso cui suggerire le forme, ma di certo sono i detentori dell'etica attraverso la quale è possibile una lettura più vera.










«È difficile cominciare qualcosa senza prendere nulla a prestito, ma forse questa è la soluzione più generosa per permettere al prossimo di interessarsi alle nostre imprese.» (op. cit. Henry D. Thoreau )









Mercoledì, 26 febbraio
La fisiologia del cammino rallenta e il pensiero si sposta.
La luce perfetta è ormai arrivata e suggerisce nuovi luoghi e nuovi giochi.
Lo spazio trasforma.






Giovedì 27 febbraio
Probabilmente il picco massimo di questo viaggio. Esso offre moltissime possibilità, sono percepite e colte. Tutto però coincide con il massimo scotto da pagare. Lungi dal desistere ho le mie fotografie. Anche un ginocchio fuori uso.






Venerdì 28 febbraio
Il cammino è interrotto.
Tuttavia la stasi genera altro moto e diventa possibile così ripercorrere alcune vie. Si può senz'altro proiettare ed immaginare l'energia necessaria a lasciarsi attraversare da quelle che ormai rimangono le ultime visioni da fissare.
Al di la di facciate, grandi o piccole, tutte le azioni di potere che rendono grandi, piccole, memorabili, detestabili, coerenti, odorabili, desiderabili, percorribili le città; determinati incontri con l'essere umano recano in sé un'emozione che porta a pensare che si è tutti molto più vicini di ciò che vogliono farci credere.






Sabato 1 marzo
Con l'arrivo di marzo il rivolgimento è ad est.
Si recupera il tempo con lo spazio. La bicicletta è la compagna perfetta per asserire questo scopo.
Questo oriente si dilata e spersonalizza. La commistione di una natura sempre più presente e di grossi moduli abitativi ubriaca. Non si comprende con esattezza se si può desiderare più tornare a casa o perdersi nella macchia.



Domenica, 2 marzo
La mente, evolutasi con l'uomo, ha una struttura che contiene virtù e vizi di questo percorso.
C'è una tendenza a rilassarsi, a non cercare quell'eccitazione, a non vedere.

Il doppiare certi luoghi permettendosi così di chiudere nuovi cerchi, acquisire consapevolezza spaziale e trovare occhi nuovi sorprende e torna ad eccitare. Un sentimento ricorrente di appartenenza si può anche avvertire.
La sublimazione di ciò è toccata dall'aver non solo doppiato luoghi, ma addirittura sconosciuti. Mai in nessuna grande città questa esperienza era stata possibile.









Lunedì 3 marzo
Come un "crescendo" in musica, la sorpresa di certo coglie anche il suo compositore nel momento in cui lo pensa e lo vive.





Fissandone le visioni, queste, seppur forti sono tuttavia delle concentrazioni di energia utili alla memoria e alla condivisione. Ma per quanto l'arte possa esser grande, l'aver a che fare con il disagio della vita, nonostante tutto, rimane la base della sua origine.








Il ritmo sorprende e lo spazio offre ancora grandi scambi. La luce è perfetta ed è bello ritrovarsi ancora una volta incapaci di abitudini accecanti.



Martedì 4 marzo
Cominciato col buio, tutto finisce all'alba.
«Più salivo in alto più il mio sguardo s'offuscava, e la più aspra conquista fu un'opera di buio; ma nella furia amorosa ciecamente m'avventai così in alto, così in alto che raggiunsi la preda.» (Juan de la Cruz - La preda)































9 novembre 2014
Intersezioni ---> Muro
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Note: 
Dal 20 febbraio al 4 marzo il fotografo Pietro Motisiè stato a Berlino, in residenza artistica, per realizzare questo reportage per una mostra fotografica collettiva promossa e curata dal Goethe-Institut Palermo.

0055 [SPECULAZIONE] Dialogo di fine biennale con Cino Zucchi

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  Gentile Cino Zucchi,
mi chiamo Salvatore D’Agostino e sono il curatore di Wilfing Architettura le vorrei fare un intervista, da pubblicare in occasione della chiusura della Biennale Architettura di Venezia.

Cordialmente,
Salvatore D’Agostino

  Caro Salvatore,
grazie della richiesta; io però non sono né un critico né un teorico, sono un architetto. Una volta finito un lavoro, lo considero chiuso dal punto di vista intellettuale, e passo al successivo. Le cose che avevo lasciato indietro per fare la Biennale mi sono cadute in testa tutte in un sol colpo, non lasciandomi tempo per altro.

Per cui, declinerei gentilmente il suo invito a rispondere alle domande. Oppure, se preferisce, rispondo a tutte con una sola frase, che ho rubato a Paul Valéry:
Se mi si chiede che cosa ho voluto dire, rispondo che non ho voluto dire, ma ho voluto fare, e che è stata l'intenzione del fare, che ha voluto ciò che io ho detto.
Un caro saluto, mi scusi ancora,
Cino Zucchi :-)

Illustrazione di Laurent Impeduglia remake, per Cino Zucchi, di Smurf house (2008)



23 novembre 2014
Intersezioni ---> SPECULAZIONE

0011 [SQUOLA] Le prime aule del cyberspazio dal carattere europeo

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di Salvatore D’Agostino



La parola scuola è spesso un inciampo, il suo suono trae in inganno.
Non di rado viene scritta sbagliata. 
Squolaè un errore ed è il nome di questa rubrica.

Ieri Manuela Verduci, la responsabile italiana d’iversity, mi ha inviato questa mail:
Ciao Salvatore,

i corsi (ndr iversity) sono oggi online! :) 

Abbiamo più di 100.000 studenti, il che significa che siamo la più grande piattaforma europea! e Design 101 è il secondo corso più seguito, con più di 19.000 iscritti! :)  
buona giornata :) 
In pratica «la prima aula, dall'animo italiano - come scrivevo - ma in lingua inglese, del cyberspazio (parola obsoleta che mi piace riesumare), nonché la prima cattedra MOOC italiana di design» è diventata il corso, con alcuni docenti italiani, più seguito di tutti i tempi. Il linguista Tullio De Mauro, un’analista attento all'evoluzione pedagogica della scuola, ha accolto l’avvento dei nuovi corsi con un semplice ‘arrivano i MOOC’:
«Tre grandi forze – osserva De Mauro- alimentano il ciclone (ndr MOOC):
l’insoddisfazione delle tradizionali lezioni frontali;
la speranza che la rete porti ad apprendimenti interattivi più efficienti della tripletta ascolto silente/lettura individuale/interrogazioni ed esami (che mostrino la capacità di ripetere ciò che il docente ebbe a dire);
il bisogno di internazionalità.»
Per capire meglio che cos'è un corso MOOC, ho fatto delle semplici domande piene di curiosità a Manuela Verduci e, nel frattempo, mi sono iscritto ad un corso per sperimentare su me stesso il nuovo insegnamento; seguendo ciò che il Times ha suggerito di fare con i suoi giornalisti perché, per capire ciò che sta avvenendo bisogna, in questo caso, tornare tra i banchi di scuola, seppur virtuali.








Salvatore D’Agostino Come sei arrivata a Berlino?

Manuela Verduci Dunque, sono arrivata a Berlino circa due anni fa, per un Erasmus. Avevo intenzione di imparare il tedesco per poter intraprendere una carriera da ricercatrice in Italia (il tedesco è una lingua fondamentale per lo studio della Filosofia). Ma non avevo fatto i conti con Berlino. Non voglio dipingere questa città come un eden delle opportunità, com'è di moda fare ultimamente. Non è tutto oro quello che luccica. Ma la verità è che l’atmosfera berlinese non è inquinata da quel fatalismo pluridecennale made in Italy che soffoca le iniziative sul nascere. Mi sono imbattuta in iversity, una giovane startup piena d’idee per rivoluzionare il mondo dell’istruzione universitaria e traghettarlo finalmente nell'era digitale. Avevamo poco budget e una marea d’idee. Oggi - dieci mesi dopo - siamo la prima piattaforma MOOC d’Europa. Io mi occupo delle relazioni con l’accademia italiana. 



'Avevamo' significa che sei una delle 'autrici'' d’iversity?


I fondatori d’iversity sono Hannes Klöpper e Jonas Liepmann, due giovanissimi ragazzi tedeschi. Iversity nasce nel 2008, come piattaforma online per le università. Oggi il suo amministratore delegato è Marcus Riecke. Circa un anno e mezzo fa, quando è esploso il fenomeno MOOC negli Stati Uniti, iversity ha iniziato a muovere i suoi primi passi nell’impresa di produrre e offrire Massive Online Open Courses nel vecchio continente, ripensando il formato dell’istruzione online partendo da una prospettiva europea. Ho avuto la fortuna di arrivare al momento giusto per veder nascere quest’idea e contribuire a svilupparla, insieme al team d’iversity. 

Gli sviluppatori d’iversity



Il progetto era molto ambizioso: ridisegnare gli strumenti didattici del presente, a partire dalla consapevolezza dell’enorme potenziale offerto dalla rivoluzione digitale degli ultimi anni. I 100.000 e più studenti che abbiamo raggiunto già alla vigilia del lancio ci incoraggiano a pensare che abbiamo fatto davvero un buon lavoro.

Quali sono ‘gli enormi potenziali offerti dalla rivoluzione digitale' per iversity?

L’esperienza dell'apprendimento ne esce completamente rinnovata: i MOOC non sono, infatti, semplici lezioni filmate: la lezione frontale classica da 90 minuti è spezzata in brevi video. Mini quiz intermedi forniscono costantemente feedback allo studente sul livello di comprensione, e si può personalizzare il percorso, a seconda delle proprie esigenze e competenze. I MOOC richiedono un altissimo livello di coinvolgimento attivo dello studente e offrono nello stesso tempo grande flessibilità: basti pensare alla possibilità di riguardare un video più volte, o metterlo in pausa per fare degli approfondimenti, o riconsultarlo settimane dopo. Come un normale corso universitario, i MOOC hanno una data d’inizio e delle scadenze, e nello stesso tempo permettono allo studente di gestire autonomamente il proprio tempo. Inoltre, si ha l’opportunità grandiosa di confrontarsi e discutere con una comunità internazionale di studenti, con differenti background culturali e sociali. Questi sono solo alcuni dei vantaggi che mi vengono in mente. Last but not least: i MOOC sono il miglior supporto per le flipped classroom, perché danno la possibilità di dedicare il tempo che in aula alla discussione e al lavoro di gruppo, invece che passivamente, alla lezione frontale.

Perdona la domanda, che cos'è una flipped classroom?

:) dunque, una flipped classroom è un modello d’insegnamento invertito rispetto a quello tradizionale: a casa, si seguono le lezioni grazie a supporti multimediali - come i MOOC ;) - e si utilizza il tempo in classe per la discussione e il lavoro di gruppo. Molto più produttivo!

Manuela non ti arrabbiare, dove si trova la classe? come si lavora in gruppo?

:) Nelle università di tutto il mondo. Ti faccio un esempio: sulla piattaforma abbiamo un corso di filosofia politica, un'introduzione. Ora, metti caso che io e te siamo due studenti di filosofia, tu a Catania e io a Berlino. Possiamo entrambi seguire le lezioni del Prof. Cerutti, che è un rinomatissimo professore di filosofia dell’Università di Firenze e poi utilizzare il tempo in classe per discutere ciascuno con il proprio professore e con i propri compagni di studio. 

In pratica i ragazzi che seguono i corsi nelle loro università, quelle fatte di muri, finestre e porte, utilizzano la classe - e i professori - di Catania o Berlino per frequentare un corso 'online'? 

Esatto, questo nel modello della flipped classroom, che è un modello possibile. I MOOC però sono utilizzabili anche al di là di quest’applicazione. Ad esempio, per permettere a tutti coloro che non possono avere accesso a un’istruzione universitaria di qualità (per mancanza di tempo o di risorse economiche) di formarsi ugualmente nelle migliori università d’Europa e del mondo. 

Come si ottengono i crediti formativi?

È possibile ottenere crediti formativi già solo frequentando un MOOC. Alla fine del corso, puoi recarti nella sede dell’Università che l’ha offerto online e sostenere l’esame di presenza. La tua università poi dovrà riconoscere i crediti formativi. Secondo il modello comune europeo, in pratica utilizzando il sistema di cui già oggi usufruiscono gli studenti Erasmus di tutta l’Europa. 

Quindi, lo studente si deve recare a Firenze per il corso di 'Introduzione di filosofia politica' del professore Furio Cerutti o a New York per il corso di 'Architettura contemporanea' del professore Ivan Shumkov?

Esatto, anche se con queste università non abbiamo ancora accordi precisi. È una conquista giovane, in fase di sviluppo. Ma con due università tedesche abbiamo raggiunto già degli accordi: trovi tutto nel penultimo comunicato stampa d’iversity.

I corsi per i centomila nuovi studenti sono tutti gratuiti?

I corsi sono tutti assolutamente gratuiti, accessibili a tutti, da ogni parte del mondo. Tutto quello di cui si ha bisogno è una connessione internet e sete di conoscenza :)

Come pagate i professori dei corsi, il vostro lavoro, l'evoluzione dei software e il dominio web? In pratica, come vi finanziate?

Il progetto d’iversity è stato finanziato, nella sua fase iniziale, da fondi dell’Unione Europea, dal governo tedesco e da diversi investitori privati. Partner cruciale d’iversity è stata la Stifterverband für die Deutsche Wissenschaft, una prestigiosissima fondazione accademica tedesca che investe nell’innovazione per l’università. La Stifterverband ha finanziato in parte la MOOC Fellowship attraverso la quale gli studenti hanno avuto l’opportunità di selezionare - tra i 500 partecipanti - i MOOC più interessanti, che abbiamo poi finanziato e prodotto. Oggi sono tutti online! 

In una seconda fase del progetto, che è già alle porte, ci finanzieremo attraverso la richiesta di una piccola tassa per sostenere l’esame finale e ottenere una certificazione. Bada bene: i corsi restano gratuiti e fruibili da tutti, la tassa serve a pagare le spese per l’organizzazione degli esami di presenza e a garantire un´entrata per le università - e per noi naturalmente. 

Lo scrittore e giornalista statunitense Thomas Frank in un recente articolo sulla crisi delle università americane s’immagina che: 
«I professori continueranno a perdere prestigio e potere, e saranno sempre più sostituiti da personale precario. Un sistema tutto basato sulle celebrità, reso possibile dai corsi online o da qualche altro espediente, alla fine provocherà l’estinzione in massa dei veri docenti.»*
Vaneggia?

Non vaneggia, è un problema di prospettiva. L’allarme per la perdita di prestigio e potere suona alle mie orecchie come la paura del barone di perdere il suo posto al sole. Questo sistema non è basato sulla celebrità, bensì sulle capacità di comunicazione del docente, sul suo talento nel trasmettere il sapere, talento che diviene con i MOOC finalmente misurabile. Visto che hai citato Internazionale, ti invito a leggere questo articolo di De Mauro, che richiama alla necessità di valutare le capacità del docente di mettere la conoscenza a disposizione dello studente.

La mia opinione personale è che dobbiamo imparare a distinguere lo scienziato, lo studioso, il luminare dal professore. Sono due mestieri differenti. 

«Forse i mooc e iversity - come afferma De Mauro nell'articolo che hai segnalatoaiuteranno» le università a liberarsi dai cattivi insegnanti. Allora, ben arrivati.

Grazie! Faremo del nostro meglio.
Ci incontriamo su iversity.org :)

16 ottobre 2013

Intersezioni ---> SQUOLA
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Note:
* Thomas Frank, Liberare l’università, Internazionale, n. 1019, 27-09/3-10 2013, p. 45

The first european classrooms in cyberspace

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Yesterday Manuela Verduci, the Italian member of the iversity management team, sent me the following email:


"Hi Salvatore,
The [iversity] courses are online! :-)
We have more than 100,000 students, which means we are the biggest platform in Europe!
Design 101 is the second most popular course, with more than 19,000 signed up :-)
Have a nice day :-)"

In fact, as I wrote, "the first Italian-inspired course - though in English - in cyberspace (an obsolete word that I'm happy to exhume) and the first Italian MOOC (massive online open course) faculty in design" has become the most followed course of all time, with several Italian teachers. The linguist Tullio de Mauro, an expert analyst of the development of teaching establishments, greeted the arrival of the new courses simply by saying: "Here come the MOOCs."

De Mauro observed: "Three major forces drive the whirlwind that is the MOOC: 

1)  dissatisfaction with traditional face-to-face courses;
2) the hope that the Internet can bring interactive learning that is more effective than listening/solitary reading/orals or written exams (which simply demonstrate the ability to repeat what the teacher had to say);
3)  the need to be international."

0027 [CITTÀ] Lucia Tozzi | Fondare città - Archeologia della new town

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di Lucia Tozzi

Charley in New Townè un cortometraggio di animazione promosso dal COI - Central Office of Information - del governo britannico nel 1948. L’uomo medio Charley, sfinito dalla vita alienante della metropoli, decide di andare a vivere in un luogo più salubre, tra alberi, biciclette e vicini cordiali. Potrebbe essere nell'America di Roosevelt come nella Mumbai contemporanea. L’elemento che lo rende esotico è che il suo trasferimento non riguarda una generica area rurale o una gated community, ma una New Town pianificata nell'interesse collettivo.



   Il modello promosso dal cartone animato governativo era quello definito dal New Towns Act (1946), che rielaborava le città giardino di Ebenezer Howard adattandole all'era del welfare e della ricostruzione postbellica. Queste celebratissime New Towns inglesi erano il prodotto di un pensiero molto evoluto, che affrontava la congestione urbana evitando a un tempo i tappeti di villette dei suburbi e il ricatto della densificazione selvaggia, dando priorità alla questione dei trasporti e dei servizi e garantendo una complessità relazionale sconosciuta alle soluzioni imposte nei decenni a venire dagli esiti più ottusi del modernismo. Questo non significa che quelle città o le loro imitazioni sparse per il mondo siano le più belle, le più intelligenti, le più radicali sotto il profilo urbanistico mai concepite, anzi. E tuttavia incarnavano ideali egualitari e redistributivi che forse nessun progetto successivo, per quanto eccelso, ha più potuto o voluto incarnare.


   Gli anni Sessanta e Settanta hanno prodotto delle città che nel migliore dei casi manifestavano un eccesso di disegno, di astrazione, di determinismo sociale, di carica utopica, ma spesso erano semplicemente piatte riproduzioni di uno standard privo di qualità (i tanto deprecati casermoni). Dagli anni Ottanta in poi invece la pianificazione di nuove città ha abbandonato ogni velleità egualitaria, per mettersi al servizio del mercato immobiliare. Come racconta Federico Ferrari in La seduzione populista (Quodlibet, 2013), la pianificazione viene in quegli anni subordinata al marketing, all'imperativo di «ciò che piace alla gente» - in funzione del guadagno privato, naturalmente, e non dell’interesse collettivo. Celebration, la città fondata in Florida dalla Walt Disney (detta anche Mickey Mouse Utopia), è uno dei simboli più importanti di questo cambio di paradigma: voluta da una corporation e non da un’istituzione pubblica, è un’enclave omogenea di ricchi bianchi.


Celebration, Florida

   Sul piano estetico è una giustapposizione di case in stile che ciascun acquirente ha potuto scegliere da un catalogo: la Mediterranea, la Vittoriana, la Coloniale, etc., mentre le regole della convivenza tra i suoi abitanti sono decise dall'immobiliare piuttosto che dalle leggi comuni. Mentre la retorica neoliberale demonizzava la pianificazione urbana, frutto del razionalismo modernista, attribuendole un’azione invariabilmente nefasta nei riguardi delle libertà individuali e del senso estetico comune, di fatto le grandi società immobiliari avocavano a sé il diritto di pianificare le città plasmandole intorno ai propri interessi, e lasciando agli individui lo spazio ristretto della scelta legata al puro consumo. 


   La quasi totalità delle New Towns sorte negli ultimi trent’anni è conforme a questo modello, peraltro non meno seriale del canone modernista – a Dubai o nei satelliti di Shanghai si trovano le medesime case in stile messicano o toscano, un vernacolo standardizzato. E, fenomeno ancora più inquietante, sono moltissime, ma la maggior parte della popolazione mondiale non ne sospetta l’esistenza. L’attenzione globale è distratta, mentre le terre si affollano di nuovi centri urbani distopici. 

   Un gruppo olandese di storici dell’architettura, Crimson, in collaborazione con INTI (International New Town Institute), ha analizzato questa situazione in un progetto intitolato The Banality of Good, indagando tra le altre cose il ruolo che architetti e urbanisti hanno avuto in questo processo. «La posizione dell’architetto è cambiata radicalmente in 60 anni di pianificazione: da un ruolo discreto ma di un certo peso dietro le quinte a una grande visibilità come designer di icone ed edifici commerciali che interviene solo nelle ultime fasi. La pianificazione delle nuove città in sé è diventata roba da burocrati e ingegneri. Gli architetti non vengono neppure consultati sulla struttura e gli obiettivi».


   È possibile invece, si chiedono i Crimson, un rinnovato coinvolgimento in un processo di così ampie proporzioni? Bisogna decretare il fallimento definitivo delle politiche di welfare urbano espresso dalle New Towns postbelliche o invece si può tentare di cambiare il corso progettuale di centinaia di future città dirottandolo verso un maggiore benessere dei milioni di abitanti che le popoleranno? 

   Una simile ostentazione di fiducia nel potere benefico, quasi salvifico, della progettazione urbana è il segno dell'olandesità dei Crimson. L’idea (positiva, dal mio punto di vista) che si possa tornare a pianificare delle città nuove inclusive, in funzione del principio di uguaglianza invece che della segregazione sociale imposta dal marketing urbano, non può che provenire da uno dei pochissimi paesi al mondo dove il welfare resiste ancora – benché a fatica, e con mille contraddizioni –, e soprattutto dove si continuano a fondare città che potremmo definire “innocenti” o “miti”. Meglio ancora, più che le città in sé è il movente della loro fondazione ad apparire meno aggressivo, meno violento rispetto alle altre città di fondazione: nei Paesi Bassi si creano nuove città perché ci sono i nuovi polder, perché continua quell'opera secolare di sottrazione di spazio all'acqua che ha impregnato la sua cultura, e il loro scopo primario è fornire nuovo spazio da abitare e da vivere per gli abitanti, in maniera non dissimile dalle New Towns inglesi. 

   La fondazione delle città nel mito e nella storia anche contemporanea è invece quasi sempre un atto di grande violenza materiale e simbolica. Frutto dell’espansione coloniale, di una volontà di propaganda o di brame capitaliste, e il più delle volte di differenti combinazioni di questi elementi, le fondazioni sono un affare di sangue. Da Romolo e Remo agli insediamenti israeliani in Cisgiordania, dai massacri nelle Americhe ai milioni di lavoratori in stato di semischiavitù che stanno costruendo le metropoli cinesi e mediorientali, lo scenario non è quello di una pacifica cooperazione tra Hobbit, ma di un’aggressione. E anche i casi più solenni e apparentemente inoffensivi come la pianificazione di nuove capitali amministrative e politiche, di cittadelle utopiche prodotte da comunità di hippy o da sette religiose, sono carichi di valenze tutt'altro che innocue. 

   Ma ha senso pensare di democratizzare un processo violento attraverso una prestazione professionale, una competenza culturale estranea al contesto politico che l’ha generato? Un piano eccellente potrebbe forse attutire l’orrore dell’occupazione israeliana o di un regime autoritario o dello sfruttamento capitalista? La risposta è no, e in queste pagine il saggio di Hou Hanru sulle nuove utopie antiurbane cinesi e le riflessioni di Gianluigi Simonetti sulla vita nelle New Towns aquilane ne sono una conferma esemplare (ndr si possono leggere sulla rivista Alfabeta2, n, 27, marzo 2013, pp. 16-18).

   Per riproporre l’archetipo benevolo delle New Towns gli architetti da soli servono a poco, bisogna prima riappropriarsi del welfare e di una cultura politica. E poi possiamo inventarci le nuove città.


23 ottobre 2013
Intersezioni ---> CITTA'

COMMENTA
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Nota:
quest'articolo è stato pubblicato con il titolo 'Fondare città - Archeologia della new town' su Alfabeta2, n° 27, marzo 2013, p. 16.* Rieditato per Wilfing architettura grazie al consenso dell'autrice.


Lucia Tozzi | Founding cities: Archaeology of the new town

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   Charley in New Town is a short animated film created by the British government's Central Office of Information (COI) in 1948. Charley - an "everyman" - is weary of the alienating life of the big city and decides to head for somewhere more salubrious, with trees, bicycles and friendly neighbors. It could be Roosevelt's America, or Mumbai today. What makes it original is that his move isn't to some generic rural area or gated community, but to a new town, designed with the common good in mind.


   The model put forward by this government cartoon was that set out in the New Towns Act(1946), which adapted Ebenezer Howard's "garden city" concept to an age of welfare and post-war reconstruction. These widely celebrated English new towns were the result of highly advanced thinking that tackled urban congestion by eschewing both suburban sprawl and uncontrolled high-density development. They gave priority to transport and services, offering a relational complexity that is lacking in the solutions imposed in subsequent decades by the dullest products of modernism. This is not to say that those towns, or their imitations scattered around the globe, are the most attractive, intelligently conceived, or most radical from an urban planning point of view - far from it. Nevertheless, they embodied ideals of egalitarianism and redistribution of wealth that no project since, however outstanding, has managed - or even aimed - to embody.



0021 [POINTS DE VUE] Steve Bisson | Viaggio in Italia?

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di Salvatore D’Agostino

   Nel 1954 usciva nelle sale cinematografiche ‘Viaggio in Italia’ di Roberto Rossellini. Nel film una coppia inglese, Alex e Katherine Joyce, durante un viaggio in auto in Italia è costretta a ritrovare il dialogo, ormai rovinato dalla reciproca indifferenza. L’abitacolo diventa il loro forzato confessionale, mentre il paesaggio italiano scorre non osservato attraverso i finestrini. Rimasti intrappolati, a causa di una festa religiosa in un paese campano, sono costretti a scendere dall'auto e strattonati dagli eventi aprono gli occhi sulla realtà, se pur umanamente diversa dalla loro cultura, che li circonda. Un miracolo della vista apre gli occhi chiusi dall'indifferenza.

   Nel 1984 Luigi Ghirri invitava venti fotografi ad attraversare l’Italia «dove non c’è niente da vedere», come scriverà Gianni Celati, per osservare l’Italia che non veniva rappresentata dalle immagini del bel paesaggio da cartolina o dalle foto spendibili e sensazionalistiche dei paparazzi, come lì definì Federico Fellini. Ghirri intitolerà la mostra e il libro ‘Viaggio in Italia’ aprendo gli occhi verso un paesaggio dove i cultori dell’estetica e del bel paese non sarebbero mai andati.

   Nel 2014 Steve Bisson ai ‘viaggi in Italia’ precedenti ha aggiunto un punto interrogativo. Ha invitato un gruppo di fotografi, artisti e amici a fermarsi per tracciare un pensiero a mano libera sulla fotografia e sul paesaggio senza utilizzare apparecchi fotografici. Facendosi inviare per posta gli appunti per un’installazione dal titolo ‘Viaggio in Italia?’ del 2014. Un invito ad aprire gli occhi sul paesaggio ‘presente’ senza mediazioni visive.

   In questi giorni, fino al 10 novembre 2013, è possibile vedere un’anteprima dell’installazione presso la Galleria Browning di Asolo. Di seguito, ho estratto dall'anteprima qualche ‘pensiero a mano libera’:



La traccia del progetto curatoriale di Steve Bisson

   Nel 1984, 30 anni dopo il celebre film di Roberto Rossellini con Ingrid Bergman e George Sanders ‘Viaggio in Italia’, il fotografo Luigi Ghirri, con lo stesso titolo, inaugura il progetto che segna la storia della fotografia e della ricerca sul paesaggio italiano. All'indagine partecipa un folto gruppo di fotografi da Gabriele Basilico a Olivo Barbieri, da Guido Guidi a Vincenzo Castella per citarne solo alcuni. Questi autori hanno segnato un momento di discontinuità fondamentale nel modo in cui il fotografo si rapporta al territorio, influenzando nei decenni successivi intere generazioni, non solo di fotografi.

   A distanza di altri 30 anni, vale la pena interrogarci su dove questo viaggio ci ha portato, ma ancora di più su dove stiamo andando?

   Quale è il futuro? 

   Friedrich Nietzsche oltre un secolo fa ci ha avvertito, prospettando il nichilismo, che Dio è morto, nel senso che Dio non fa più mondo, e quindi collassa l’ottimismo alla base della cultura occidentale perché il futuro non è più una promessa, è imprevedibile e forse addirittura una minaccia. E allora si vive in un eterno presente perché lo sguardo al futuro è angosciante e il rischio esistenziale è di rotolare verso un infinito nulla. Non c’è nulla in realtà di più attuale se penso all'Italia in cui vivo e ai più giovani di me. Se è vero che oggi viviamo una cultura nichilista che non ha più nulla a che vedere con il futuro, la cosa importante, come Heidegger ha suggerito, non è di metterla alla porta ma di guardarla bene in faccia. Nessuna rassegnazione ma volontà di prenderne atto. Ed è questa l’attitudine che ereditiamo da Ghirri e da altri fotografi consapevoli. La critica consiste nella problematizzazione dell’ovvio, che in termini di “paesaggio”, significa mettere in crisi, non accontentarsi di ciò che si vede.

   Per questa ragione occorre prendere coscienza della situazione in cui viviamo, e della novità principale che l’uomo non è più il soggetto della storia ma è stato deposto dalla tecnica, forma più alta di razionalità, superiore anche all'economia che ancora soffre di una passione, quella del denaro. L’età della tecnica è stata anticipata intuitivamente da Hegel che ha scritto che quando un fenomeno aumenta quantitativamente provoca una variazione qualitativa del paesaggio. Con Marx possiamo dire che la tecnica da mezzo è divenuta fine. Oggi non si capisce più quello che è bello o sacro, bensì ciò che è utile. I processi decisionali, la democrazia, si è spostata dalla politica all'economia, e da questa alla tecnica. 

   Per tutto ciò non resta credo che interrogarci se siamo tutti incompetenti rispetto al futuro, e alla complessità di informazioni che la digestione tecnologica comporta. Il rischio in un tale scenario è davvero quello di decidere solo sulla base di fattori retorici? Come uomo e come curatore sento la necessità di una pausa interiore, ma anche di un confronto esteriore. Perciò ho studiato per il 2014 una installazione che porterà ancora lo stesso titolo ma con un punto di domanda ‘Viaggio in Italia?’, un po’ per allacciarsi al passato e un po’ per rivolgersi al futuro. Adottando nuovamente un metodo condiviso, ho invitato un gruppo stimato di fotografi, artisti e amici italiani a portare un proprio pensiero sulla fotografia e il paesaggio. 

   Cosciente che il modo di porre una domanda spesso determina la risposta, ho chiesto loro di mettere da parte la macchina fotografica e di tracciare questo pensiero a mano libera, stando fermi in qualche modo. Un gesto più antiquato rispetto al click di una macchina, ma forse meno iscritto in uno sguardo scientifico. Provocatoriamente ho chiesto poi a ciascuno di inviarmi una cartolina postale senza troppo pensare, estraendola da quell'immaginario confuso che è il paesaggio italiano.


6 novembre 2013
Intersezioni ---> POINTS DE VUE

Salvatore Iaconesi | Infoscapes: Emerging Human Ecosystems

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By Salvatore Iaconesi


A cultural ecosystem for Rome: here is a new geography composed of atoms and bits. We have created an observation platform for a new anthropology of the city.

We find ourselves amid a strange normality.

I'm immersing myself in the streets of Rome, focused on getting to the places where I have errands today and intent on observing the intense physicality of this city. As a result, I'm constantly running the risk of walking into people, slipping while getting off a crowded tram or simply getting lost in the fascination of turning off into a narrow street in the old center instead of heading straight for my destination.

I feel a vibration... and everything changes. Although physically I remain in the same place, I'm somewhere else. I glance at my smartphone, which has notified me of a new message and I am in another place. It is hard to describe. I'm still there - at a crowded intersection by Largo Argentina (a square in Rome's old center, full of ancient ruins), trying to avoid being run over by a car as I cross the street along with many other people. But I am also elsewhere.

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...a proposito di nuova generazione, un viaggio dietro l’Italia del telegiornale e A.M.O. Venezia...

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di Salvatore D’Agostino


... a proposito di nuova generazione, 

ci sono quattro parole passepartout, usate per comunicare bene e in fretta, che in questo inizio del ventunesimo secolo dovrebbero essere cancellate dal vocabolario, eccole:

  • ‘Festival’ e il suo epigono ‘evento’;
  • ‘Workshop’ ovvero lezioni istantanee su tutto;
  • ‘Nuova generazione’ e la speculare, ma glamour ‘new generations’;
  • Under x, y, z per fissare una barriera ‘evolutiva’ alle idee fresche e innovative.

Queste quattro parole li trovate al Festival NEW GENERATIONS che si terrà a Milano il 28, 29 e 30, ma non fatevi ingannare dalla mia introduzione perché i curatori Gianpiero Venturini e Carlo Venegoni hanno selezionato i migliori studi di architettura osservando, non l’Italia delle regioni, ma l’Italia come regione dell’Europa. Tutti gli interventi avranno il pregio della sintesi, poche ma chiare benedette idee, evitando così l’effluvio incontrollato, spesso zeppo di opinioni personali, dei convegni del ventesimo secolo.

Qui, se sei interessato, trovi il programma.









un viaggio dietro l’Italia del telegiornale, 
si è appena concluso intraverso 2013, il viaggio di @immaginoteca (Francesco Cingolani) e farine00 (Valentina Brogna), nato da un’idea di Nelle tasche del tricheco (Fabio Curzi) «che ha attraversato le Marche a piedi, su sentieri poco battuti, e che essendo un po’ introverso aveva battezzato il suo viaggio così: “intraverso”.»

Francesco e Valentina hanno percorso l’Italia alla scoperta di luoghi e idee in cerca di un’altra Italia, come scrive Valentina: l’Italia dell’«altro lato del telegiornale».
Fuori dall’inconcludenza e dall’enfasi giornalistica della ‘notizia’, hanno trovato persone che sembrano aver rifiutato qualsiasi dialogo con la generazione dei padri. Padri, secondo loro, colpevoli di aver pensato alla ricchezza immediata, soldi facili e subito, a discapito di qualsiasi valore sociale e distruggendo qualsiasi prospettiva ai propri figli. Nel loro viaggio, si sono ritrovati a dialogare con ‘nuovi partigiani’ simili nell’intento agli ideali dei loro vecchi, e forse mai conosciuti, nonni capaci di lottare per la libertà preservando una relazione con il territorio e un’idea per un futuro condiviso. Si sono trovati di fronte una generazione che sente la responsabilità di costruire il proprio futuro per sé e per i propri figli.

Hub Firenze (Riccardo), Gnammo (Gianluca), Il panificio Davide Longoni, Libreria Gastronomica Malafarina. (Anna), Cene sociali - Frigoriferi Milanesi (Antonietta), Il Tango delle Civiltà (Anna), Pizzarium (Gabriele), The fooders (Marco e Francesca), I Ciclonauti (Francesca), Scup, Officine Libetta (Romina e Pietropaolo), WOOF, (Doris), Open bosco (Alex), Casanatural (Andrea e Mariella), empty space (Antonio e Anna) sono i nomi (per fortuna oggi non servono più i cognomi, ma i propri siti web) di un’Italia che non non ha più nulla da condividere con le parole vuote, sentite e spesso urlate, alla televisione; sono uomini e donne pratici che amano sporcarsi le mani, aperti, istintivi, sociali e sanno bene che il web è una bacheca dove scambiare e condividere idee non solo nel virtuale ma anche nel reale; in tre parole: ‘dialogo con la natura, sacrificio e semplicità’ ma per capire meglio ti suggerisco di leggere gli appunti di viaggio di Valentina:The tour of Italy by Farine Zero Zero.

Domenico e Anna disegnano il futuro...




A.M.O. Venezia …
non è la succursale del ramo concettuale dello studio O.M.A. di Rem Koolhaas a Venezia ma ‘A.M.O. Venezia’, sta per ‘Ancient Maps Of Venezia’ ed è un'app gratuita elaborata dal Laboratorio di Cartografia e GIS dell’Università Iuav del professor Francesco Guerra con la collaborazione di Massimo Mazzanti e Mauro Calzavara. L’app permette di visualizzare le trasformzioni urbane di Venezia attraverso le sue mappe storiche, provenienti dall’archivio di Cartografia e GIS Iuav. Al momento si possono percorrere cinque mappe: De Barbari 1500, Combatti 1846, Querci ed. 1887, fotopiano 1911 e fotopiano 1982.

«L'APP - come afferma il comunicato stampa - consente di muoversi oggi in uno spazio antico documentato e rappresentato nella mappa. Questo permette di sapere che cosa c’era in passato, punto per punto, lungo il cammino dell'utente. La navigazione può essere orientata dal sistema GPS, ma può essere anche statica: per muoverci tra le mappe non siamo costretti a camminare assieme a loro, ma possiamo rimanere fermi e voler vedere/studiare la mappa muovendola liberamente sotto i nostri occhi. Possiamo spostarci in punti precisi e poi vedere altre mappe mantenendo inalterato l'inquadramento definito.»

Sarebbe interessante registrare ogni giorno approcci così validi e condivisi da parte delle università italiane.


22 novembre 2013
Intersezioni --->...a proposito di...


A Journey through an Italy You Don't See on the News

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[...] You will find these four words at the New Generations festival held in Milan on November 28, 29, and 30, but do not be deceived by my introduction, because the curators, Gianpiero Venturini and Carlo Venegoni, have chosen the best architects' studios observing, not the Italy made up of different regions, but Italy as a region of Europe. All the speeches will be pithy and to the point, with a limited number of clear ideas, thus avoiding the verbal diarrhea, often full of personal opinions, of 20th-century conferences.

[...] these are the names (and luckily today we don't need their surnames, only their web addresses) of an Italy that shares nothing with the empty, often shouted words of television. These are practical men and women who love to get their hands dirty: open, instinctive, social. They know full well that the web is a notice-board where ideas can be exchanged and shared not just in the virtual world but in the real one as well. Their approach can be summed up as "dialogue with nature, sacrifice and simplicity".

[...] A.M.O. Venezia ... is not the Venice branch of the conceptual arm of the Rem Koolhaas's O.M.A. studio. "A.M.O. Venezia" stands for "Ancient Maps of Venice". It's a free app developed by Venice university's cartography and geographical information system under Professor Francesco Guerra. The app enables you to see the changes that have taken place in Venice through historic maps from the cartography and geographic information system.


0052 [SPECULAZIONE] Alberto Pugnale | Engineering Architecture: come il virtuale si fa reale

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di Salvatore D'Agostino 
«Dopo un lungo periodo di progressiva separazione, con lo sviluppo delle tecnologie informatiche architettura e ingegneria si stanno gradualmente riavvicinando. È un fenomeno che ho qui semplicemente tentato d’introdurre e che personalmente chiamo ‘Engineering Architecture’.» (Alberto Pugnale)
Engineering Architecture è un termine che Alberto Pugnale ha cesellato in questi anni di esperienza didattica e lavorativa, attraverso un’accurata analisi dello sviluppo storico delle tecnologie e una ricca comparazione con testi ed esperienze globali.

Engineering Architecture chiarisce tre aspetti (ma ce ne sono molti altri):

  • il primo spiega molti termini nati con l’uso delle tecnologie informatiche attraverso un’attenta ricostruzione storica;
  • il secondo ci aiuta a diffidare dei neologismi che cercano di incasellare le diverse esperienze delle tecnologie informatiche in architettura e ingegneria;
  • il terzo c’invita a non classificare i processi storici attraverso nette separazioni concettuali tra l’era attuale e quella storica.
Ringrazio il professore Alberto Cuomo per aver acconsentito alla pubblicazione di questo saggio scritto per la rivista da lui diretta ‘Bloom’, n.14, settembre/ottobre/novembre 2012.*





ENGINEERING ARCHITECTURE: COME IL VIRTUALE SI FA REALE

   Negli ultimi vent'anni l’impatto del digitale in architettura è cresciuto esponenzialmente, manifestandosi nei ‘BLOB’ informi di Greg Lynn1, come anche nelle cosiddette ‘free-form’ dei NOX2. L’aggettivo ‘free’ identifica la libertà di generare forme architettoniche a prescindere da ogni principio compositivo, statico o costruttivo, e si estremizza, ad esempio, nella ‘trans-architettura’ puramente virtuale di Marcos Novak3. Il computer insidia il lavoro concettuale del progettista come la realizzazione delle sue opere. Attraverso la fabbricazione a controllo numerico, il ‘file-to-factory’, il gruppo Objectile4 sfida la produzione seriale dell'industrial design. Così un unico modello digitale parametrico si concretizza in molteplici variazioni spaziali uniche, sempre nuove.

   Già citando questi pochi esempi, probabilmente i più conosciuti tra quelli esposti al Centre Pompidou di Parigi nel 2003-4, in occasione della mostra “Architectures non-standard5, si evidenzia l’intrinseca difficoltà nell'inquadrare teoricamente e storicamente l’uso di tecnologie digitali in architettura.

   L’eterogeneità dei progetti sperimentali coinvolti è etichettata dai curatori Zeynap Mennan e Frédéric Migayrou con il termine ‘non-standard’. Originariamente coniato da Bernard Cache del gruppo Objectile con riferimento alla fabbricazione a controllo numerico di elementi diversi6, cioè non seriali, allo stesso costo progettuale e costruttivo di quelli comunemente standardizzati, è qui semplicemente usato per richiamare la natura organica dei lavori esposti7.


   Il ‘non-standard’ si presta però a un’interpretazione anche più specifica, che tende a far risaltare le peculiarità e le diversità dei progetti sviluppati con l’ausilio di computer, ma non ne preclude necessariamente una lettura in continuità con periodi e movimenti architettonici passati.


   Gli approcci di critici e riviste di settore come “Architectural Design”, che invece coniano nuove etichette per il fenomeno del digitale a un ritmo incessante8, come architettura generativa, evolutiva e il ‘performative design’, fanno pensare all'informatizzazione come a una pesante massa omogenea catapultata improvvisamente sull'architettura dal nulla. Sono termini che rivendicano una distanza dal passato e ne ignorano le eventuali interrelazioni.


   L’integrazione di tecniche informatiche nelle varie fasi progettuali e costruttive si radica nell'architettura stessa passando attraverso i suoi specialismi. Ricerca e innovazione ne scrivono gradualmente la storia. È un intreccio complesso che attraversa l’ingegneria strutturale e il disegno industriale, ispirandosi a campi apparentemente lontani dal mondo delle costruzioni, come l’intelligenza artificiale e il cognitivismo.



   Alcune brevi storie possono guidarci nell'impresa di sbrogliarlo, mettendo in risalto i dettagli di vicende originariamente separate, purtroppo sempre più accorpate sotto la generica etichetta ‘digitale9.

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  Il Computer-Aided Design (CAD) automatizza il lavoro paziente e preciso della rappresentazione tecnica. Non si predispone per sua natura a stravolgere le fasi concettuali del progetto, ma facilita e velocizza il flusso di lavoro, diffondendosi a macchia d’olio negli studi professionali. Acquisito direttamente dal mondo della meccanica, si colloca cronologicamente agli albori dell’informatizzazione in architettura, ed erroneamente si tralasciano alcuni importanti tasselli, antecedenti il rilascio dei principali software commerciali datati Ottanta e Novanta.

   Nello studio americano SOM (Skidmore, Owings and Merrill) i computer iniziano, infatti, a popolare il settore amministrativo già negli anni Cinquanta. Nell'arco di un decennio si allargano poi al gruppo progettuale, che vanta l’acquisto di un IBM-1620 da dedicare a studi strutturali complessi ed energetici degli edifici.


   Architetti e ingegneri messi di fronte a rudimentali calcolatori privi di programmi seppero immaginare, più liberamente di oggi, come sviluppare una sinergia con i loro nuovi e inseparabili compagni di viaggio.

   Col supporto di programmatori ed esperti d’informatica, tra i quali il partner Douglas Stoker, nonché con accordi direttamente stipulati con IBM, il gruppo di SOM, capitanato da Bruce Graham e dall’ingegnere Fazlur Khan, concepisce poi negli anni Ottanta un programma denominato Building Optimization Procedure (BOP), volto all'abbattimento dei costi di costruzione degli edifici.

   Concettualmente, è un rozzo predecessore dei software che oggi chiameremmo Building Information Modeling (BIM)10, i quali attraverso un unico modello tridimensionale ‘ricco’ d’informazione raccolgono e gestiscono non solo dati geometrici, ma anche strutturali, energetici e costruttivi dell’edificio, relazionandoli tra loro e migliorando così l’interazione e il dialogo tra le figure progettuali coinvolte nel processo.

   Seppur lontane anni luce da tale definizione, le doti del BOP sono comunque affini ai prodigi dei più recenti BIM per principio e concezione, ispirandosi e rispondendo direttamente a specifiche esigenze progettuali.

   La potenza delle grandi case informatiche non concede a questo e ad altri programmi firmati SOM una lunga sopravvivenza sul mercato. L’inevitabile vendita a IBM non frena però John Zils, partner associato e attuale responsabile del gruppo strutturisti di SOM Chicago, di riflettere così su un nodo chiave dell’informatizzazione in architettura:
«Eravamo abituati a crearci da soli il software su misura per quello che volevamo fare… E adesso ci troviamo a dipendere da altri che fanno le cose per noi e che, naturalmente, non le fanno nel modo in cui noi vogliamo farle. Ci troviamo sempre a dover valutare i diversi software per trovare quello che si avvicina di più alle nostre esigenze.»11

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   L’amore/odio per i computer può in parte ricondursi alla continua presenza di tale tensione, cioè alla naturale distanza tra il programma ideale, ipoteticamente rilasciato su misura del progettista, e il software commerciale di massa, che tenta di adattarvisi per quanto possibile.

   È il dilemma al centro delle ricerche di Robert Aish, informatico di formazione e specializzato nello studio dell’interazione uomo-macchina, che, prima in collaborazione con ARUP, poi Bentley, e infine all'interno del gruppo Autodesk Research, concepisce e sviluppa software specifici per la progettazione architettonica.

   Consapevole di come i tradizionali CAD automatizzino i dati progettuali a un livello semantico troppo basso, avvalendosi di semplici linee, archi e cerchi per supportare il lavoro concettuale dell’architetto, non vuole però ingabbiare potenziali sprazzi di creatività promuovendo all'opposto, e in maniera altrettanto inefficace, lo sviluppo di programmi che già forniscono librerie di muri, porte e finestre.

   Aish s’interroga quindi sull'esistenza d’invarianti all'interno del processo progettuale, ricercando quei pattern ricorrenti e generali che ne svelino il potenziale di standardizzazione informatica.

   Il rilascio di prodotti come GenerativeComponents e Autodesk Revit gli permettono di affermare che ogni processo progettuale è sempre e comunque basato sulla definizione di elementi e di relazioni tra essi14. È cioè fondato sulla costruzione di spazi topologici piuttosto che metrici.

   Un muro di mattoni si può quindi descrivere attraverso le proprietà base dei suoi componenti, cioè i ‘parametri’ di lunghezza, larghezza e altezza dei laterizi, nonché sfruttando una serie di equazioni che ne stabiliscono le interrelazioni geometriche, in questo caso la reciproca posizione spaziale. L’informatizzazione garantisce integrità a questo sistema, permettendo all'architetto di concentrarsi sulle modifiche numeriche delle sue ‘variabili’, all'interno di domini continui o discreti.

   È in sintesi il concetto di ‘progettazione parametrica’, sul quale Gramazio & Kohler13, architetti e ricercatori prezzo l’ETH di Zurigo, fondano la concezione di progetti come la cantina Gantenbein, in Svizzera.


   Col fine di garantire ventilazione agli spazi interni e protezione dalla luce diretta, reinventano ad esempio l’uso del laterizio disposto a ‘treillage’. Studiano attraverso un modello parametrico del muro, sopra descritto sinteticamente, nuovi motivi che richiamino figurativamente l’uva. Realizzano poi la facciata in moduli prefabbricati a controllo numerico, assemblati in un telaio strutturale di calcestruzzo armato.

   Gramazio & Kohler riciclano poi lo stesso modello parametrico del muro per progettare l’installazione del padiglione svizzero alla Biennale di Venezia 2008, come anche il prototipo Pike Loop, costruito ed esposto nel cuore di Manhattan nel 200914.

   Con un singolo sistema consistente di elementi e interrelazioni esplorano rapidamente molteplici configurazioni spaziali, in quella che Lars Spuybroek, del gruppo NOX, ribattezza nel suo ultimo libro come ‘architettura della variazione’.15>

   Lo stupore è assicurato se a tale lettura si affiancano un paio dei vecchi articoli di Luigi Moretti. In Forma come struttura, pubblicato su “Spazio” nel 195716, e in Ricerca matematica in architettura e urbanistica, stampato su “Moebius” nel 197117, si ritrova infatti una curiosa definizione di ‘architettura parametrica’, nella quale Moretti identifica come ‘parametri’ tutte quelle variabili progettuali che l'architetto deve considerare, e alle quali deve rispondere, per soddisfare esigenze e requisiti funzionali di programma.

   Peccando d’ingenuità, il suo intento è di comprendere, sistematizzare e formalizzare per quanto possibile il processo progettuale. Un’impresa che sfiora l’impossibile, ma merita una menzione per metodo, tentando d’inquadrare l’architettura all'interno di un programma di ricerca scientifico, uno dei primi svolti fondando l’IRMOU, che sta per ‘Istituto per la Ricerca Matematica e Operativa applicata all'Urbanistica’.

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   Tali accezioni del termine ‘parametrico’ non vanno però confuse con la sua declinazione prettamente geometrica. Nella modellazione tridimensionale CAD, in programmi come Rhinoceros o 3D Studio Max, si definiscono parametriche quelle curve e superfici utilizzate per rappresentare accuratamente forme libere, organiche o particolarmente complesse, cioè non riconducibili, se non con l’approssimazione, a geometrie semplici. Nascono nel mondo dell’automotive design come frutto di una ricerca Citroën, e diventano rapidamente un supporto indispensabile dei progettisti, che possono così visualizzare e studiare virtualmente le forme dei futuri modelli di automobili.

   Il primo standard di curve parametriche fu introdotto dal matematico Paul de Casteljau nel 1959, il quale ne definì l’algoritmo di calcolo basandosi sui polinomi di Bernstein. Pierre Etienne Bézier, ingegnere Renault, ne permise poi la diffusione durante il decennio successivo e fu quindi lui a darne il nome definitivo di ‘curve di Bézier18. Ormai obsolete per la modellazione tridimensionale di forme libere, resistono invece nel settore grafico, e sono ancora implementate in programmi come Adobe Illustrator e CorelDraw.

   L’attuale standard per la rappresentazione di curve e superfici parametriche si chiama NURBS (Non Uniform Rational B-Splines)19. Si diffonde in architettura attraverso il software CAD Rhinoceros, e sostituisce i predecessori principalmente perché permette all'utente un miglior controllo delle geometrie create, caratteristica imprescindibile per uno strumento di progetto, quindi di modifica, più che di restituzione grafica.

   Le superfici NURBS si ottengono per interpolazione di curve e si classificano, in base al metodo generativo, in skinned, proporzionali, spine, swept e d’interpolazione bidirezionale. Massimiliano Ciammaichella, descrivendo queste cinque tipologie in “Architettura in NURBS”20, evidenzia come la genesi di tali superfici segua logiche affini ai modi attraverso i quali gli architetti concepiscono gli spazi a esse sottesi. I NOX, per esempio, progettano forme libere sulla base del criterio ‘skinned’, cioè interpolando curve di sezioni giacenti su piani paralleli. Zaha Hadid, invece, rappresenta spesso la dinamicità dei flussi con NURBS ‘proporzionali’, vale a dire ottenute da generatrici convergenti in un punto.

   Ben diverso era l’approccio degli architetti e ingegneri del Secondo Dopoguerra. Opere caratterizzate da un’elevata complessità spaziale, come il Kresge Auditorium di Saarinen, la stazione di servizio BP sull'autostrada Berna-Zurigo di Isler, o il ponte sul Basento di Musmeci, erano, in quel periodo, il frutto di un processo creativo-generativo che saldava indissolubilmente il contributo disciplinare strutturale a quello della ricerca formale. All'inizio del secolo, neppure Gaudí poté disegnare le guglie della sua Sagrada Familia senza prima di studiarne il comportamento meccanico: dovette simulare le proprietà base della pietra con modelli di funi catenarie, e ricondurre quindi il progetto alla risoluzione di un problema di ‘form-finding’, o ricerca di forma strutturale.

   Separare la componente rappresentativa dell’architettura dalla sua anima conformativa era, di fatto, impossibile.



   La natura parametrica di curve e superfici NURBS ne consente l’utilizzo anche come geometrie guida per lo studio e la progettazione di configurazioni spaziali più complesse. Nel caso specifico delle superfici, il più delle volte questo significa compiere un’operazione di ‘paneling’, cioè che discretizza la NURBS in una mesh strutturale e/o una serie di componenti assemblabili, anch’essi parametrici.

   I grid-shell della Fiera di Milano e del centro commerciale MyZeil di Francoforte, entrambi progettati da Massimiliano Fuksas, sono due recenti esempi di procedura di paneling. Da pure e astratte superfici NURBS, le società d’ingegneria incaricate della progettazione esecutiva, rispettivamente Schlaich Bergermann und Partner e Knippers Helbig, hanno ricavato, o meglio progettato e calcolato, i reticoli strutturali, come anche le esatte geometrie degli elementi vetrati di rivestimento21. Il forte impatto estetico delle superfici iniziali ha guidato i progettisti nella ricerca di pattern sobri, che discretizzassero le NURBS senza aggiungervi nuovi elementi decorativi.





   Tuttavia, in parecchi altri progetti, la geometria di partenza è relativamente semplice, e gli sforzi dell’architetto si concentrano proprio nello studio del paneling per conferire organicità o dinamismo all'insieme. È questo il caso del Research Pavilion 2011 dell’università di Stoccarda, frutto del lavoro congiunto dei gruppi di Achim Menges e Jan Knippers22. Il padiglione è infatti un poliedro relativamente semplice dalle facce ottagonali, e che si ispira liberamente ai gusci dei ricci di mare per modularità e comportamento strutturale. Il cuore del progetto è qui nello studio di tali moduli portanti a piastra, nonché nel modo in cui tra loro si giuntano formalmente e assemblano costruttivamente.

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   I comandi base dei CAD commerciali difficilmente permettono agli architetti di gestire complesse operazioni di paneling. Ancor meno consentono di progettare muri parametrici come quelli di Gramazio & Kohler. Le case costruttrici di software, consapevoli di tali limiti, implementano quindi nei loro prodotti dei semplici ambienti di programmazione, basati, ad esempio, sui linguaggi interpretati come Visual Basic o Python. In altre parole, invitano l’utente esperto a estendere da sé le potenzialità native dei programmi, concependo nuove funzionalità attraverso lo sviluppo di piccoli codici, detti ‘script’.

   All'inizio degli anni Novanta, quando le prime versioni di AutoCAD implementavano solamente il macchinoso linguaggio LISP, l’architetto Neil Katz, associato di SOM, già ne vantava una discreta collezione. I suoi codici formulavano parametricamente complessi pattern geometrici, e più volte hanno ispirato l’attività progettuale dello studio: l’involucro della Lotte Tower di Seoul è stato così rapidamente disegnato e calcolato in quanto definito come entità parametrica, allo stesso modo dell’antenna per la Freedom Tower di New York23.

   Da mezzo impiegato passivamente, la tecnologia digitale si trasforma in risorsa progettuale per formulare diversamente i problemi e costruirne poi interattivamente gli strumenti e le strategie di risoluzione.

   È il crescente fenomeno del ‘tooling’ che, seppur etichettato comunemente anche con il termine di ‘scripting’, non ne è concettualmente il sinonimo ma, al contrario, l’evoluzione24. Ricordiamoci, infatti, che lo scripting nasce negli anni Sessanta col mero obiettivo di automatizzare operazioni lunghe e ripetitive, che necessitavano periodiche esecuzioni dalla riga di comando25.

   Rhinoceros, il software CAD di casa McNeel, è il programma in assoluto più utilizzato per sviluppare script in architettura. Le ragioni di tale successo sono molteplici. Nella versione 3.0, rilasciata nel 2003, già implementa un potente motore grafico NURBS, ideale per creare e gestire forme libere, combinato con RhinoScript, un ambiente di programmazione semplice ma completo, basato sul linguaggio Visual Basic. Dalla versione 4.0, invita poi anche i meno esperti a cimentarsi nello sviluppo di codici grazie a Grasshopper, un plug-in che, ispirandosi concettualmente ai diagrammi di flusso creati in Simulink di casa MathWorks, consente agli utenti di ‘modellare’ gli script attraverso un linguaggio grafico.

   Grasshopper si basa sull'utilizzo di semplici routine e funzioni già compilate che, senza alcuna conoscenza di un linguaggio di programmazione, possono essere assemblate tra loro, direttamente dall'interfaccia grafica, per sviluppare algoritmi più complessi. Si tratta di tante piccole scatole nere che, forniti specifici dati in ingresso, eseguono una serie di istruzioni e restituiscono nuovi dati in uscita.

   I limiti di tale approccio sono evidenti e richiamano alla mente la sfortunata esperienza della ‘programmazione automatica’ degli anni Quaranta. I suoi fautori, tra i quali spicca il nome di Grace Murray Hopper, famosa per essere stata la principale responsabile del tanto temuto ‘millenium bug’, si proponevano di realizzare quello che Ford concepì originariamente per la produzione di automobili: impostare, cioè, un sistema basato su parti intercambiabili, per sviluppare nuovi programmi scrivendo semplicemente codici di collegamento tra routine preconfezionate26. Un’idea valida per la catena di montaggio che, nel mondo dell’informatica, irrigidì la procedura di programmazione e si trasformò in un fallimento. La diagnosi è chiara: standardizzazione prematura e a uno sbagliato livello di astrazione.

   Grasshopper è per certi versi più flessibile, e ben si configura come strumento per lo studio di modelli parametrici, da implementare poi in codici più complessi. È pura illusione però presentarlo come la versione semplificata di RhinoScript. Infatti, la difficoltà del tooling non sta nell'apprendere un linguaggio di programmazione, ma nel saper formulare correttamente i problemi da risolvere in maniera parametrica.

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   Le tecnologie digitali stanno radicalmente modificando anche il lavoro degli ingegneri civili. Le tecniche numeriche di calcolo come il FEM (Finite Element Method) rimpiazzano in toto i metodi sperimentali di progetto e verifica delle strutture. Allo stesso modo, non si realizzano più modelli fisici per il form-finding di gusci leggeri in calcestruzzo armato o tensostrutture27. Si passa invece attraverso l’ottimizzazione matematica che, sulla base di uno o più criteri di selezione, sfrutta la potenza di calcolo del computer28 per ricercare iterativamente la soluzione ottimale a un problema tra una serie di candidate29.

   Dal punto di vista progettuale, questo cambiamento è rilevante per almeno tre motivi.

   A differenza del form-finding classico, la topologia del sistema strutturale non è più necessariamente fissa. Può diventare quindi l’oggetto stesso del processo di ottimizzazione, come nel caso del progetto per la nuova stazione TAV di Firenze, sviluppato da Isozaki e Sasaki in occasione del concorso internazionale del 200330. Un’immensa copertura piana è qui sospesa in cielo da una struttura organica, della quale sia la topologia sia la forma finale ad albero derivano dall'uso di una versione perfezionata della tecnica ESO, cioè Evolutionary Structural Optimization31.

La nuova stazione TAV di Firenze di Isozaki e Sasaki

   Data una configurazione spaziale iniziale, e calcolando le tensioni di Von Mises tramite analisi FEM, tale algoritmo rimuove iterativamente le parti di struttura inefficienti, minimizzando in generale lo spreco di materiale. In questo caso, è poi anche in grado di aggiungerne di nuove nei punti più critici, garantendo così all'insieme un comportamento meccanico ottimale.

   Con l’ESO è stata concepita la facciata dell’edificio per uffici Akutagawa West Side, opera dell’architetto Hiroyuki Futai e del gruppo di ricerca di Hiroshi Ohmori della Nagoya University32. Ed è stata poi anche curiosamente riprogettata la facciata della passione della Sagrada Familia. Si tratta di una ricerca coordinata da Jane Burry della RMIT University di Melbourne, volta a studiare eventuali analogie tra i risultati di un’ottimizzazione topologica e le forme naturali originariamente concepite da Gaudì con modelli di funi catenarie33.


Edificio per uffici di Hiroyuki Futai

   Rispetto ai lavori di Heinz Isler e Frei Otto, l’ottimizzazione permette poi anche di mutare il concetto originario di form-finding, letteralmente mirato alla ricerca della forma ottimale, in quello che potremmo definire di ‘form-improvement34, cioè atto invece a migliorare le prestazioni di una configurazione spaziale preesistente, senza che per questo si debba raggiungere l’ottimo strutturale.

   Nel crematorio di Kakamigahara, per esempio, nessun modello fisico col quale ricavare l’inverso della membrana tesa35 avrebbe potuto tradurre in struttura l’idea dell’architetto Toyo Ito. Attraverso l’ottimizzazione, invece, la copertura fluttuante in calcestruzzo armato, figurativamente ispirata a una nuvola, è stata modellata in una prima fase come se fosse pura scultura, e in seguito affinata strutturalmente attraverso un’analisi di sensibilità, o Sensitivity Analysis (SA)36.

   Con questa tecnica di ottimizzazione, Mutsuro Sasaki riduce l’energia potenziale elastica della membrana di copertura, modificandone iterativamente la curvatura. Basandosi sul calcolo del gradiente, infatti, l’analisi di sensitività gli permette di automatizzare il tradizionale metodo progettuale di ‘trial and error’, e di evitare così un ripetitivo e lento processo di disegno/verifica della forma, che richiede molteplici lanci manuali di analisi strutturali FEM37.


Crematorio di Kakamigahara di Toyo Ito

   È la strategia utilizzata anche per il Grin Grin Park di Fukuoka e il Kitagata Community Centre di Gifu: altri due casi nei quali il progettista ha potuto considerare configurazioni spaziali free-form, strutturalmente sub-ottimali, solo grazie all’uso dell’analisi di sensitività38.

   Da semplici strumenti risolutivi, questa e altre tecniche di ottimizzazione numerica diventano, in architettura, efficaci strumenti esplorativi a supporto delle fasi concettuali del progetto. Per questa ragione, sono anche spesso identificate nella letteratura scientifica come strategie di ‘morfogenesi computazionale’39.

Le ricerche che da qualche anno conduco con Mario Sassone e altri colleghi del nostro gruppo si collocano a pieno titolo all'interno di questo filone40. L’obiettivo è chiaro: sviluppare e applicare tecniche di ottimizzazione per la progettazione architettonica, studiando in che misura, e secondo quali logiche, possano esse configurarsi anche come strumenti di pensiero41.

   Si parte sempre da un problema progettuale ben definito, cioè chiaramente formulabile in maniera parametrica. Per esempio, quando nel 2007 abbiamo riprogettato strutturalmente il crematorio di KaKamigahara, ne abbiamo rappresentato il guscio di copertura con una superficie NURBS in Rhinoceros: vincolati i suoi punti di controllo in corrispondenza dei pilastri, le coordinate spaziali dei restanti sono automaticamente diventate le variabili progettuali del sistema42.

Vi si abbina poi una strategia di ottimizzazione che, sulla base di uno o più criteri di selezione, svolge il ruolo di guida nel processo di studio e valutazione della forma architettonica. In parallelo con la geometria parametrica NURBS, abbiamo quindi sviluppato, attraverso uno script, un algoritmo genetico43. Si tratta di una tecnica di ottimizzazione meta-euristica che, ispirandosi al principio dell’evoluzione naturale, genera ‘popolazioni’ intere di soluzioni progettuali (in questo caso configurazioni spaziali free-form), tra le quali seleziona, e ricombina iterativamente fra loro, solo le migliori. Nel nostro caso, fa così metaforicamente sopravvivere quelle superfici NURBS che, dal punto di vista strutturale, presentano in media bassi valori di spostamento verticale.


   Un ultimo aspetto fondamentale dell’ottimizzazione è che non si limita però a risolvere unicamente questioni di statica, caratteristica invece intrinseca del form-finding basato sui modelli fisici. Tecniche come gli algoritmi genetici si possono usare, infatti, in tutti quei casi in cui una prestazione architettonica sia formulabile attraverso una funzione matematica e, tecnicamente parlando, sia quindi ‘minimizzabile’.

   All'interno del nostro gruppo di ricerca44, Tomás Méndez Echenagucia45 ottimizza così l’acustica delle sale da concerti, Dario Parigi studia la geometria e il comportamento cinematico delle strutture reciproche46 e Paolo Basso risolve problemi economico-costruttivi dei grid-shell a forma libera47.

   Quest’ultimo tema è di particolare interesse per società d’ingegneria come la RFR parigina, originariamente fondata da Peter Rice nel 1982. Ad esempio, nella realizzazione di progetti come la stazione TGV di Strasburgo, dove il grid-shell di copertura free-form è composto di elementi vetrati a forma quadrilatera, la presenza della doppia curvatura nelle lastre diventa economicamente non trascurabile48.

   Interi gruppi di ricerca lavorano su tale problema di ottimizzazione49 che, prima dell’avvento del digitale, non si poteva altrimenti risolvere. Tutt'altro che a forma libera erano quindi i primi grid-shell a maglia quadrilatera di Jörg Schlaich: per garantirne la costruzione con lastre di vetro piane, egli doveva infatti disegnarli attraverso rigide regole geometriche, cioè solo per traslazione e scalatura di curve generatrici50.

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Parametrico e ottimizzazione cambiano il modo di progettare l’architettura dalla sua concezione. La fabbricazione a controllo numerico ne trasforma invece le tecniche costruttive.

   La Son-O-House dei NOX e il muro parametrico di Gramazio & Kohler sono due esempi di come un’estrema complessità geometrica, gestita solo grazie al supporto dell’informatica, possa razionalmente realizzarsi attraverso il ‘file-to-factory’, cioè traducendo con delle macchine di derivazione industriale dei modelli digitali direttamente in costruzione51

   Le stazioni di Zaha Hadid per funicolare di Innsbruck sono invece un caso in cui le forme fluide dei grid-shell di copertura, riproducibili solo con l’uso di vetri a doppia curvatura, ancora richiedono costi di costruzione elevati. In pochi anni, potranno però ridursi con lo sviluppo di ‘casseforme dinamiche’, che permetteranno, cioè, una produzione industrializzata dei componenti trasparenti. A questo scopo, è nata ad esempio la piccola azienda start-up di Christian Raun Jepsen, ad Aalborg (DK), che sta attualmente testando un primo prototipo di ‘dynamic mould’ con getti di gesso e calcestruzzo52.



   Dopo un lungo periodo di progressiva separazione, con lo sviluppo delle tecnologie informatiche architettura e ingegneria si stanno gradualmente riavvicinando. È un fenomeno che ho qui semplicemente tentato d’introdurre e che personalmente chiamo ‘Engineering Architecture’.

PDF versione cartacea rivista Bloom


3 dicembre 2013
Intersezioni ---> SPECULAZIONE
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Note:
In questa versione web del testo, si sono aggiunti tutti i riferimenti web, l’asterisco* rimanda ai link di riferimento.

1 LYNN G., Folds, Bodies & Blobs: collected essays, La lettre volée, Bruxelles, 1998.*

2 SPUYBROEK L. (NOX), Nox - Machining Architecture, Thames & Hudson, Londra, 2004.*

3 Le più significative pubblicazioni di Marcos Novak sono:
NOVAK M., Next Babylon, soft Babylon, in “Architectural Design”, n°136, novembre 1998, pp. 20-29;* NOVAK M., Speciazione, trasvergenza, allogenesi: note sulla produzione dell’alien, in SACCHI L., UNALI M. (a cura di), “Architettura e cultura digitale”, Skira, Milano, 2003;* 
NOVAK M., “Architectural Design”, n°157, maggio-giugno 2002, pp. 64-71;
NOVAK M., Transmitting architecture, in “Architectural Design”, n°118, ottobre 1995, pp. 42-47.* * *

4 Il gruppo Objectile è format dagli architetti Bernard Cache e Patrick Beaucé.*


5 MIGAYROU F. (a cura di), Architectures non standard, Centre Pompidou, Parigi, 2004.*

6 CACHE B., BEAUCE P. (OBJECTILE), Vers une mode de production non-standard, in “Architectures non standard”, Centre Pompidou, Parigi, 2003 (pubblicato parzialmente). * Traduzione italiana a cura di Teresanna Donà: Verso un modo di produzione non-standard,pubblicato integralmente su ARCH’it, 5 gennaio 2004.*

7 Mennan Z., The question of non standard form, in “METU Journal of the Faculty of Architecture”, Vol.25, n°2, 2008, pp.171-183.*

8 Vedi ad esempio il recente numero di Architectural Design edito da Rivka e Robert Oxmanv: “The New Structuralism: Design, Engineering and Architectural Technologies”, luglio 2010.*
Sul termine ‘performative design’: OXMAN R., Performance-based Design: Current Practices and Research Issues, in “International Journal of Architectural Computing”, Vol.6, n°1.*
Sul termine ‘digital tectonics’: OXMAN R., Morphogenesis in the theory and methodology of digital tectonics, in “Journal of the International Association for Shell and Spatial Structures, Vol.51, n°165, pp. 195-205.*

9 Franco Purini, ad esempio, tenta una classificazione dell’architettura ‘digitale’ identificandone tre ambiti, tra loro compenetrabili e sovrapponibili: il primo strumentale, cioè non organico alla concezione progettuale ma puramente di servizio, un secondo creativo, complementare al precedente, e un ultimo utopico, cioè di pura sperimentazione virtuale. Partendo però da una base così generica, tale suddivisione diventa anch'essa troppo vaga e non aiuta quindi a comprendere le reali logiche del fenomeno. Il saggio è pubblicato in: PURINI F., Digital Divide, in SACCHI L., UNALI M. (a cura di), “Architettura e cultura digitale”, Skira, Milano, 2003.*
Un testo più specifico è invece: PICON A., Digital Culture in Architecture, Birkhäuser, 2010.*

10 Per una guida completa sulla tecnologia BIM vedi: EASTMAN C., TEICHOLZ P., SACKS R., LISTON K., BIM Handbook: A Guide to Building Information Modeling for Owners, Managers, Designers, Engineers, and Contractors, Wiley, 2008.*

11 L’intervista è interamente citata da Adams N., Skidmore, Owings & Merrill. SOM dal 1936, Electa, 2006, pp.34-36.*
Recentemente l’uso delle tecnologie digitali all’interno di SOM è stato discusso in una conferenza intitolata “Digital Design at SOM: The Past, the Present and the future”


14 AISH R., Extensible computational design tools for exploratory architecture, in KOLAREVIC B. (a cura di), “Architecture in the Digital Age: Design and Manifacturing”, Routledge, 2005, p. 17. *
Vedi anche: SHEA K., AISH R., GOURTOVAIA M., Towards integrated performance-driven generative design tools, in “Automation in Construction”, Vol.14, n°2, 2005, pp. 253-264.*

13 I progetti e le ricerche di Gramazio & Kohler sono raccolti in: GRAMAZIO F., KOHLER M., Digital Materiality in Architecture, Lars Müller Publishers, 2008.* 
Vedi anche: Converso S., Il progetto digitale per la costruzione: Cronache di un mutamento professionale, Maggioli editore, 2010, pp. 61-63, 82-87*; e YUDINA A., Matthias Kohler & Fabio Gramazio: Digital Empirics, in “Monitor”, n°56, 2009, pp. 50-65.*

14 Il modello parametrico del prototipo “Pike Loop” è ben descritto in: BÄRTSCHI R., KNAUSS M., BONWETSCH T., GRAMAZIO F., KOHLER M., Wiggled Brick Bond, in “Advances in Architectural Geometry 2010”, Springer, 2010, pp. 137-147.*

15 SPUYBROEK L. (a cura di), Research & Design: The Architecture of Variation, Thames & Hudson, 2009.*

16 MORETTI L., Forma come struttura, in “Spazio” (Estratti), giugno-luglio 1957. Anche in: BUCCI F.,MULAZZANI M., Luigi Moretti: Opere e scritti, Electa, 2000.*

17 MORETTI L., Ricerca matematica in architettura e urbanistica, in “Moebius”, n°1, pp. 30-53, 1971. Anche in: BUCCI F., MULAZZANI M., Luigi Moretti: Opere e scritti, Electa, 2000.*

18 Una buona introduzione storica sui vari standard di curve e superfici parametriche si può trovare in: ROGERS D.F., An introduction to NURBS: with historical perspective, 1°Ed., Morgan Kaufmann, 2001.*

19 PIEGL L., TILLER W., The NURBS Book, 2° Ed., Springer, 1995 (1966).*

20> CIAMMAICHELLA M., Architettura in NURBS: il disegno digitale della deformazione, Testo&Immagine, 2002.*

21 I dettagli del progetto del grid-shell della Fiera di Milano sono pubblicati in: SCHLAICH J., SCHOBER H., KÜRSCHNER K., New Trade Fair in Milan – Grid Topology and Structural Behaviour of a Free-Formed Glass-Covered Surface, in “International Journal of Space Structures”, Vol.20, n°1, 2005, pp. 1-14.*
Il progetto costruttivo del MyZeil di Francoforte è invece descritto in: KNIPPERS J., HELBIG T., The Frankfurt Zeil Grid Shell, in “Proceedings of the IASS Symposium 2009: Evolution and Trends in Design, Analysis and Construction of Shell and Spatial Structures”, Valencia, Spagna, 2009, pp. 328-329.*
Vedi anche: KNIPPERS J., Digital Technologies for Evolutionary Construction, in “Computational Design Modeling. Proceedings of the DMSB 2011”, Springer, 2011, pp. 47-54.*

22 LA MAGNA R., WAIMER F., KNIPPERS J., Nature-inspired generation scheme for shell structures, in “Proceedings of the IASS-APCS Symposium 2012: From Spatial Structures to Space Structures”, Seoul, Corea del Sud, 2012.*

23 AQTASH A., KATZ N., Computation and design of the antenna structure – Tower One, in “Proceedings of the 6th International Conference on Computation of Shell and Spatial Structures IASS-IACM 2008: Spanning Nano to Mega”, Ithaca, NY, USA, 2008.*

24 Non a caso alcune recenti pubblicazioni didattiche per lo sviluppo di script in architettura riportano il termine ‘tooling’ invece di ‘scripting’. Vedi ad esempio: ARANDA B., LASCH C., Pamphlet Architecture 27: Tooling, Princeton Architectural Press, 2005.*

25 Maggiori dettagli sono riportati in: CERUZZI P.E., Storia dell’informatica. Dai primi computer digitali all’era di internet, Apogeo Editore, 2005.*

26È bene precisare che all'epoca scrivere codici significava perforare delle schede e non utilizzare editor di testo. Per i dettagli sulla storia della programmazione automatica si può consultare: WILKES M.,WHEELER D.J., GILL S., The preparation of Programs for an Electronic Digital Computer, The MIT Press, 1984, pp. 26-37*; e CAMPBELL-KELLY M., Programming the EDSAC: Early Programming Activity at the University of Cambridge, in “IEEE Annals of the History of Computing”, Vol. 2, n°1, 1980, pp. 7-36*. Vedi anche: CERUZZI P.E., Storia dell’informatica. Dai primi computer digitali all’era di internet, Apogeo Editore, 2005.

27 Lo stato dell’arte sul form-finding classico si può trovare in: OTTO F., RASCH B., Finding Form: Towards an Architecture of the Minimal, Axel Menges, 1996.* O anche in: HENNICKE J. et al., IL 10. Grid shells, Stuttgart: Institute for Lightweight Structures (IL), 1974; e in: ISLER H., New Shapes for Shells -Twenty Years After, in “Bulletin of the International Association for Shell Structures”, n°71, 1979.*

28 La potenza di calcolo è identificata da John Frazer come la più importante caratteristica dei computer nel suo libro “An Evolutionary Architecture”, edito dall’Architectural Association Publications nel 1995.*

29 Una buona introduzione sulle principali tecniche di ottimizzazione ingegneristica si trova in: DELLA CROCE F., TADEI R., Ricerca operativa e ottimizzazione, Esculapio, 2002.*

30 Vedi: CUI C., OHMORI H., SASAKI M., Computational Morphogenesis of 3D Structures by Extended ESO Method, in “Journal of the International Association for Shell and Spatial Structures, Vol. 44, n°141, 2003, pp. 51-61.* Il progetto di concorso per la nuova stazione TAV di Firenze è anche descritto in: SASAKI M., Flux Structure, TOTO, 2005.*

31 La tecnica ESO è stata originariamente sviluppata da Xie e Steven, i quali hanno pubblicato i loro risultati in: Xie Y.M.; Steven G.P., Evolutionary Structural Optimization, Springer, 1997.*

32 Vedi: LEE D., SHIN S., PARK S., Computational Morphogenesis Based Structural Design by Using Material Topology Optimization, in “Mechanics Based Design of Structures and Machines, Vol. 35, n°1, 2007, pp. 39-58.* Vedi anche: OHMORI H., Computational Morphogenesis: Its Current State and Possibility for the Future, in “International Journal of Space Structures”, Vol. 25, n°2, 2010, pp. 75-82.*

33 I risultati di questa ricerca sono stati inizialmente pubblicati in: BURRY J., FELICETTI P., TANG J., BURRY M., XIE M., Dynamical structural modeling: A collaborative design exploration, in “International Journal of Architectural Computing”, Vol. 3, n°1,* 2005, pp.27-42. Poi anche in: BURRY J., BURRY M., The New Mathematics of Architecture, Thames and Hudson, 2010.*

34 Il termine ‘form-improvement’ è stato coniato dal sottoscritto a puro scopo esplicativo, e non si riferisce quindi ad alcuna tecnica riconosciuta e consolidata nella comunità scientifica di riferimento.

35 Per inversione della membrana tesa s’intende quella procedura di form-finding che, sottoponendo a carico gravitazionale una superficie elastica priva di alcuna rigidezza flessionale, ricava prima uno stato di pura trazione, e ottiene poi dal suo inverso quello nel quale viga la sola compressione.

36 Il progetto del crematorio di KaKamigahara è stato pubblicato su: Casabella, n°752, febbraio 2007, pp. 30-37; Architectural Review, n°1326, Agosto 2007, pp. 74-77; Detail, Vol. 48, n°7/8, luglio/agosto 2008, pp. 786-790; The Plan, n°27, giugno/luglio 2008, pp. 42-52.

37 L’analisi di sensitività è spiegata brevemente in: SASAKI M., Flux Structures, TOTO, 2005.*

38 Ibid.

39 Da una conversazione informale con Makoto Katayama, professore presso il Kanazawa Institute of Technology, sembrerebbe che sia stato Yasuhiko Hangai, ex docente dell’università di Tokyo, il primo a coniare il termine inglese ‘Computational Morphogenesis’. Con tale nome, non è però chiaro se egli volesse mettere in risalto delle differenze rispetto alla pura ottimizzazione, o se intendesse invece crearne un semplice sinonimo. Ancora oggi, è usato in maniera ambigua nella letteratura scientifica, il più delle volte col mero significato di form-finding computazionale, cioè non basato su modelli fisici ma simulazioni al computer. È questo il caso di: BLETZINGER KAI-UWE, Form-finding and Morphogenesis, in MUNGAN I., ABEL J.F. (a cura di), “Fifty Years of Progress for Shell and Spatial Structures”, Multi-Science, 2011; o anche di: OHMORI H., Computational Morphogenesis: Its current State and Possibility for the Future, in International Journal of Space Structures, Vol. 25, n°2, 2010.*

40 Vedi ad esempio: PUGNALE A., Engineering Architecture: Advances of a technological practice, Tesi di Dottorato discussa presso il Politecnico di Torino, Aprile 2010.

41 Il rapporto tra tecnologia e pensiero è stato ad esempio affrontato da Walter Ong per studiare le differenze tra culture orali e quelle invece alfabetizzate. I risultati di tale ricerca sono pubblicati in: ONG W., Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, 1986.* Nello specifico delle tecnologie digitali, Donald Norman è probabilmente l’autore più interessante a riguardo. Si può citare ad esempio: NORMAN D., Il computer invisibile, 2a Ed., Apogeo, 2005.*

42 PUGNALE A., SASSONE M., Morphogenesis and Structural Optimization of Shell Structures with the Aid of a Genetic Algorithm, in “Journal of the International Association for Shell and Spatial Structures”, Vol. 48, n°155, 2007.*

43 Una buona introduzione sugli algoritmi genetici, in inglese Genetic Algorithms (GAs), si può trovare in: FLOREANO D., MATTIUSSI C., Manuale sulle reti neurali, Il Mulino, Bologna, 2002 (1996).* Libri tecnici più completi sono invece: GOLDBERG D.E., Genetic algorithms in Search, Optimizaion & Machine Learning, Addison-Wesley, Boston, 1989;* e MITCHELL M., An introduction to genetic algorithms, The MIT Press, Cambridge, 1998.*

44 Con “nostro gruppo di ricerca” intendo quella rete ufficiosa di ex studenti e dottorandi che, sotto la guida di Mario Sassone, iniziarono a lavorare presso il Politecnico di Torino sui temi della Morfogenesi Computazionale. Alcuni membri del gruppo hanno poi continuato le loro attività all'estero, ma tuttora mantengono regolari rapporti di collaborazione professionale.

45 Vedi: MÉNDEZ ECHENAGUCIA T.I., ASTOLFI A., JANSEN M., SASSONE M., Architectural acoustic and structural form, in “Journal of the International Association for Shell and Spatial Structures”, Vol. 49, n°159, 2008.* Vedi anche: SASSONE M., MÉNDEZ ECHENAGUCIA T.I., PUGNALE A., On the interaction between architecture and engineering: the acoustic optimization of a RC roof shell, in “Sixth International Conference on Computation of Shell & Spatial Structures: Spanning Nano to Mega, Ithaca NY, USA, 2008, p. 231.*

46 Vedi: PARIGI D., KIRKEGAARD P.H., SASSONE M., Hybrid optimization in the design of reciprocal structures, in “Proceedings of the IASS Symposium 2012: From spatial structures to space structures”, Seoul, 2012.* Vedi anche: PARIGI D., KIRKEGAARD P.H., Towards free-form kinetic structures, in “Proceedings of the IASS Symposium 2012: From spatial structures to space structures”, Seoul, 2012.* Sull'ottimizzazione delle strutture reciproche, si possono anche citare: BAVEREL O., NOOSHIN H., KUROIWA Y., Configuration processing of nexorades using genetic algorithms, in “Journal of the International Association for Shell and Spatial Structures”, Vol. 45, n°142, 2004, pp. 99-108;* e: DOUTHE C., BAVEREL O., Design of nexorades or reciprocal frame systems with the dynamic relaxation method, in “Computers and Structures”, Vol. 87, n°21-22, 2009, pp. 1296-1307.*

47 Vedi ad esempio: BASSO P., DEL GROSSO A., PUGNALE A., SASSONE M., Computational morphogenesis in architecture: cost optimization of free form grid shells, in “Journal of the International Association for Shell and Spatial Structures”, Vol. 50, n°162, 2009.* Una ricerca analoga è stata anche pubblicata da Mario Sassone e dallo scrivente in: SASSONE M., PUGNALE A., On optimal design of glass grid shells with quadrilateral elements, in “International Journal of Space Structures”, Vol. 25, n°2, 2010.*

48 Vedi: POTTMANN H., SCHIFTNER A., BO P., SCHMIEDHOFER H., WANG W., BALDASSINI N., WALLNER J., Freeform surfaces from single curved panels, in “ACM Transactions on Graphics (TOG) - Proceedings of the ACM SIGGRAPH 2008”, Vol. 27, n°3, 2008.*

49 Vedi ad esempio: POTTMANN H., ASPERL A., HOFER M., KILIAN A., Architectural Geometry, Bentley Institute Press, 2007.*

50 Vedi: HOLGATE A., The Art of Structural Engineering. The work of Jörg Schlaich and his Team, Edition Axel Menges, 1997.* Vedi anche: SCHLAICH J., SCHOBER H., Glass-covered Lightweight Spatial Structures, in ABEL J.F., LEONARD J.W., PENALBA C.U. (a cura di), “Spatial, Lattice and tension structures: Proceedings of the IASS-ASCE International Symposium”, Atlanta, 1994, pp. 1-27.*

51 Secondo i ricercatori del gruppo danese Digital Crafting, questo è un processo di automazione del cantiere che potrebbe in futuro anche configurarsi come un nuovo ‘artigianato digitale’.

52 Diversi ricercatori e compagnie start-up stanno lavorando su questo tema. Vedi per esempio: PRONK A., VAN ROOY I., SCHINKEL P., Double-curved surfaces using a membrane mould, in “Proceedings of the IASS Symposium 2009: Evolution and Trends in Design, Analysis and Construction of Shell and Spatial Structures”, Valencia, 2009, pp. 618-628;* e anche: RAUN C., KRISTENSEN M.K., KIRKEGAARD P.H., Dynamic Double Curvature Mould System, in “Computational Design Modeling: Proceedings of the Design Modeling Symposium Berlin 2011”, 2011.*

Paesaggi ibridi | Atelier Crilo

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di Salvatore D'Agostino

   Il sei novembre alle ore 19.00 si inaugurerà Paesaggi ibridi di Atelier Crilo, mostra che ho curato e immaginato per lo spazio espositivo catanese di Viale Africa 42 e che resterà aperta fino al sei dicembre. La mostra inaugura un programma di eventi culturali nati sotto la direzione artistica di Salvatore GozzoIl sette novembre alle 17.00 l'Atelier Crilo racconterà la propria esperienza e dialogherà con i presenti. Chiunque volesse porre una domanda, anche se non sarà presente, può farlo qui, scrivendo un commento.










Apertura 6 novembre ore 19:00 fino al 6 dicembre 2015
Lecture 7 novembre ore 17:00
Orari 9:00 – 12:30 / 15:30 – 20:00
SicilCima - Viale Africa 42, Catania 

Per informazioni o richieste si prega di contattare l'Ufficio Comunicazione e Pubbliche Relazioni di SicilCima s.r.l 
Salvatore Gozzo Tel. 392.9169493 - comunicazione@sicilcima.it
SicilCima s.r.l. Via Falcone e Borsellino, 20 95042 - Grammichele (CT)

Note sulla mostra Paesaggi ibridi di Atelier Crilo

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di Salvatore D'Agostino

   Lo sviluppo continuo delle tecnologie oggi affronta sfide immaginate, solo qualche decennio fa, dagli scrittori di fantascienza: mentre la sonda spaziale della Nasa Kepler, di recente, ha scoperto Kepler 452b, un pianeta simile alla terra, gli scienziati dell’acceleratore di particelle del CERN di Ginevra, stanno cercando di scoprire l’origine del nostro pianeta verificando le teorie del bosone di Higgs. Se la prima ricerca tenta di scoprire nuovi mondi, la seconda si concentra sull'origine del mondo; entrambe inseguono due linee di tempo differenti e opposte: il futuro e il passato.

   Sin dall'inizio della civiltà, queste antitetiche spinte temporali, futuro e passato, convivono nello sviluppo quotidiano delle tecnologie cercando di rispondere a domande semplici: chi siamo? da dove veniamo? cosa ci sarà domani? Per capire meglio questo strano inghippo temporale immaginiamo di utilizzare un qualsiasi software di disegno, e in pochi passaggi, anche da non esperti disegnatori, ci accorgiamo che gli sforzi degli sviluppatori del programma si concentrano su due aspetti principali: elaborare nuove gamme disegnative e riportare tutta la tavolozza espressiva del passato in digitale. Ogni tecnica disegnativa per tradizione - intesa nel suo significato latino di tradere che vuol dire tramandare - è tramandata nel software. Futuro e passato presenti in un solo programma.

   In architettura, queste opposte spinte temporali si ritrovano sia nel campo del disegno sia nei materiali da costruzione, ad esempio alla fine del quattrocento, l’invenzione della tecnica di rappresentazione prospettica e la riscoperta delle architetture del passato, sia greche sia romane, ha generato il linguaggio del rinascimento; come l’invenzione del cemento armato ha regalato agli architetti una nuova spazialità che, per osmosi, ha dato vita al movimento moderno. Ogni evoluzione tecnica ha offerto e offre all'architetto nuove grammatiche espressive, il passato si tramanda nell'inarrestabile futuro. I due tempi non sono scindibili, sono informazioni genetiche del pensiero umano che costituiscono il DNA di partenza di ogni civiltà. 

   Il dibattito massmediatico sull'aspetto del recente sviluppo delle tecniche di disegno nel campo dell’architettura, spesso riduce l’immaginario dell’architettura ad una disputa tra i fautori del futuro da una parte, tra cui Patrik Schumacher, per il quale il disegno a mano è morto poiché i progettisti di oggi invece di disegnare delle linee inerti con un righello sulla carta, stanno allestendo sistemi parametrici1, e i fautori del passato dall'altra, tra cui Michael Graves, il quale sostiene che in un disegno eseguito a mano, sia esso su una tavoletta elettronica o su un foglio di carta, ci sono intonazioni, tracce di pensiero e ragionamenti che non possiamo ritrovare in una progettazione parametrica, il processo lineare del disegno assistito non contiene le emozioni di un disegno a mano libera, concludendo: «un disegno a mano libera ci rende veramente vivi2 Il dibattito passato futuro s’impernia sulle qualità passate e future delle matite, confondendo la matita con l’architettura. L'architettura prima di essere costruita è sempre disegnata e, indipendentemente dalle matite usate, vive nel virtuale o visualizzata per mezzo dei plastici, modelli, stampe tridimensionali o vive in Flatlandia, ovvero rappresentata su supporti bidimensionali sia su carta sia su schermo. L’architetto non può fare a meno del disegno per comunicare l’idea virtuale al committente e il processo costruttivo alle varie maestranze.

«Il disegno nell'architettura– scrive Maurizio Sacripanti in un breve saggio sul disegnoè un mezzo tecnico attraverso il quale descrivere un pensiero che già a priori è “costruttivo” e che nella sua fase realizzativa si definirà concretamente.» La perizia disegnativa, riprendendo il termine di Sacripanti, è uno strumento per visualizzare un’idea costruttiva di architettura, un mezzo tecnico che è in continua evoluzione: ai pigmenti naturali, i pittori nei secoli, hanno sovrapposto quelli artificiali e oggi quelli elettrici digitali. Ogni pigmento ideato, durante questa fase evolutiva, ha offerto un mezzo diverso di dipingere. Nella realtà ogni nuova tecnica ha introdotto nuove grammatiche espressive. Nell'elaborare un disegno di architettura non esiste un mezzo disegnativo standard, adatto per tutti, ogni architetto o gruppo di architetti, usa la propria matita la cui grafite può essere naturale, artificiale, elettrica o, alternativamente, tutte quante ai fini del processo ideativo. Le tecniche disegnative del passato non sono mai state escluse dal processo creativo dell’architetto, anzi oggi è vero il contrario, c'è un interesse per la qualità ideativa dei disegni a mano che sta generando nuove opportunità per l’architettura, come scrive Helen Castle in un recente volume tematico su Architectural Design. Nell'editoriale, Helen Castle, si preoccupa di chiarire al lettore che il numero speciale della rivista, dedicato a Lebbeus Woods, non è un revival sul disegno a mano poiché è una tecnica mai morta, anzi, è molto viva dato che c'è un rinnovato entusiasmo per la spontaneità del disegno a mano, che porta a numerose combinazioni generando diversi ibridi tra mano e computer. Ibridi che prefigurano nuovi scenari di architettura.

L’architetto che ibrida il proprio disegno unendo a queste tecniche di rappresentazione quelle utilizzate in passato non lo fa per melanconia, per gusto del tradizionale, per estetica vintage o perché è un hipster, viceversa perché ricerca nuove potenzialità espressive, definendo altri protocolli per l’architettura. Tra i tanti sperimentatori di queste tecniche ibride, come promemoria, vanno ricordati: i taccuini del coerano Hoon Moon, che raccolgono centinaia di progetti di fantasia che, a suo parere potrebbero essere realizzati, tracce di questi disegni li ritroviamo nelle sue architetture che sembrano essere uscite dalle tavole dei fumettisti; la ricerca dello statunitense Perry Kulper sulla rappresentazione e le varie metodologie offre nuovi inaspettati immaginari architettonici; la libertà del disegno a mano con la precisione del computer sono, infine, alla base dello studio del londinese Tom Noonan che utilizza la duplice espressività dei disegni ibridi per analizzare il paesaggio, tecniche che gli permettono di visualizzare il paesaggio a due velocità - landscape two-speed.

Tra gli innovatori delle tecniche di disegno ibrido, in Italia si distingue il lavoro dell’Atelier Crilo, duo di architetti nato nel 2010, che utilizza nel processo di rappresentazione discipline e contributi diversi come digital painting, modellazione 3D, disegno su carta, acquerello. Ibridi disegnativi usati come mezzo per trovarescoprire, dal greco heurískein, nuove spazialità architettoniche. Il disegno dell’Atelier Crilo, nella prima fase, è un mezzo d'indagine intuitivo. Nella seconda fase attua un rigoroso controllo delle caratteristiche tecniche e costruttive per verificare se l’architettura disegnata sia coerente con la fattibilità degli spazi. La dualità espressiva tra il disegno a mano e quello al computer crea nuovi paesaggi. L’innovazione di questo scarto grammaticale che l’Atelier Crilo sta operando nel campo dell’architettura è il tema della mostra Paesaggi ibridi, mostra creata per lo spazio espositivo catanese di SicilCima, il cui titolo sintetizza il processo creativo dell’Atelier Crilo, l’uso ibrido del disegno che ridefinisce il concetto di paesaggio, per sua natura non è mai statico ma soggetto a infinite ibridazioni tra il passato paesaggio e il futuro paesaggio.

I paesaggi ibridi dell’Atelier Crilo sono paesaggi immaginifici che speculano, con ironia, su alcuni temi controversi dell’architettura degli ultimi anni: lo sviluppo intensivo, anche in un periodo di forte recessione economica, dell’architettura verticale dei paesaggi metropolitani del pianeta terra Eva Concept Tower, Atreo Skyscraper, Beijing Filter Tower; spazi non edificati in città densamente edificate Arsia Infiltration Building; ruderi dentro la città di edifici che hanno dismesso da poco il proprio ciclo economico Mark Infiltration Building; la fascinazione per le case isolate ad alto valore estetico ed economico Mo-Nei House, Vi House e Oteiza House. Una sequenza che merita uno sguardo attento, e non solo estetico, per scoprire le storie che l’Atelier Crilo dissimula.

11 novembre 2015
COMMENTA
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La mostra inaugura un programma di eventi culturali nati sotto la direzione artistica di Salvatore Gozzo per lo spazio espositivo catanese #VialeAfrica42 di SicilCima e sarà visibile fino al sei dicembre.

Tutti i giorni 17:00 – 20:00 e domenica su appuntamento
SicilCima - Viale Africa 42, Catania
Per informazioni o richieste: Tel. 392.9169493 - comunicazione@sicilcima.it

Note al testo: 
1lecture: Parametric Order—21st Century Architectural Order, febbraio 2012 all’Havard University*
2Michael Graves, Architecture and the Lost Art of Drawing, New York Time, 1 settembre 2012*

Note sul percorso espositivo Paesaggi ibridi di Atelier Crilo

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di Salvatore D'Agostino


   Il percorso espositivo di paesaggi ibridi è, a sua volta un ibrido, creato interpretando le caratteristiche dello spazio di #VialeAfrica42, dove si alternano visualizzazioni a video con illustrazioni. S'inizia con un video che riprende l’Atelier Crilo mentre realizza Etna, un acquerello creato in occasione della mostra. L’acquerello apre e chiude la mostra. In simultanea, sulle altre quattro pareti sono proiettati dei video, con un montaggio più ritmato, dove ogni paesaggio ibrido è stato rielaborato seguendo il processo creativo, screenshot, video e disegni tecnici che svelano il tavolo da disegno dell’Atelier Crilo.




   Eva Concept Tower, stampato su alluminio, posta sull'unica parete libera, è il primo paesaggio ibrido che inizia il percorso delle illustrazioni Atreo Skyscraper, Arsia Infiltration Building, Mark Infiltration Building, Beijing Filter Tower stampati su tela e di seguito il ciclo delle case Mo-Nei House, Vi House e Oteiza House stampati su carta fotografica semilucida. Queste illustrazioni ci conducono nello spazio finale più intimo: i disegni originali fatti a mano. In uno schermo è possibile vedere le pagine dei taccuini e nella parete, su passepartout bianchi, gli acquerelli ed Etna.



   Paesaggi ibridi si snoda in una duplice possibilità visiva tra proiezione multipla e illustrazioni: la prima racconta la storia del processo ideativo dell’Atelier Crilo e la seconda invita a scoprire la storia dei paesaggi ibridi.

I paesaggi ibridi in mostra:

[Stampa su alluminio]

Paesaggi ibridi inizia con Eva Concept Tower, un’idea per una torre, che prende spunto dalla torsione della donna in Kneeling girl with red-organge cloth, quadro di Egon Schiele del 1911. L’arte per Egon Schiele è essere se stessi, puro spirito creativo, nel suo diario scritto in carcere il 22 aprile 1912 annota: «L'Arte non può essere moderna, l'Arte appartiene all'eternità.» Eva è una torre non moderna.

[Stampa su tela con telaio a spessore]

Atreo è, tra le figure mitologiche greche, quella più irascibile, accecato dal male che subisce in vita. La reinterpretazione del mito si basa sulle tensioni umane che appartengono ad ogni periodo della storia. La torre è lacerata nella corazza di metallo nero e vetro scuro con squarci che rivelano il suo interno. Le protesi sporgenti a diverse altezze sono eliporti. Nel sotterraneo c’è il nodo infrastrutturale e il cuore della salita alla torre. La natura spaziale è simile alle camere funerarie etrusche e ricorda la tomba di Atreo, il cui tesoro è parte del mito.

[Stampa su tela con telaio a spessore]

Il nome Arsia deriva da una formazione vulcanica del pianeta Marte Arsia Mons, presente nella regione equatoriale di Tharsis. Arsia s’inerpica in uno stretto angolo abbandonato di città e non si appoggia in continuità con gli edifici preesistenti è corpo estraneo. Le sue parti metalliche contengono spazi serventi, scale e risalite verticali e quelle in cemento gli spazi serviti uffici e sale riunioni. 

[Stampa su tela con telaio a spessore]

Una città non è un quadro ma uno spazio di conflitti in continuo mutamento. Il ciclo di vita degli edifici si lega al ciclo economico della città. Mark è un’icona del conflitto economico, un edificio industriale in disuso, un corpo morto invaso da una nuova struttura in corten che lo penetra dall’esterno verso l’interno, ricreando nuovi spazi attraverso dei solai intermedi e una nuova superficie calpestabile. 

[Stampa su tela con telaio a spessore]

L’inquinamento della città e il grado di tossicità dell’aria sono in gran parte legati al soprannumero di cantieri e all'industria legata alla crescita del paese. La torre incorpora al suo interno una serie di strategie di filtraggio dell’aria e il suo monitoraggio. Il belvedere a sbalzo sospeso è una stazione metereologica con attività di controllo dell’aria che indica come un livellometro l’altezza dello smog e dei VOC (volatile organic compounds) presenti per strada. Beijing Filter Tower è un totem indicatore del livello di inquinamento ed è una macchina per l’attività di filtraggio dell’aria.

[Stampa su carta fotografica semilucida]

Mo-nei richiama, per assonanza, la parola inglese Money e introduce il tema della case Mo-nei per famiglie ad alto reddito. In questo paesaggio ibrido, una casa bi-familiare si estende in lunghezza e, sotto lo stesso tetto, vivono in relazione due famiglie attraverso l’uso condiviso di patii interni, orti e spazi di separazione dove le due famiglie possono crescere come comunità. Mo-nei ironizza sulla fascinazione della villa dalla grande estensione in un periodo di forte crisi economica.

[Stampa su carta fotografica semilucida]

Al numero 15 di una città c’è una casa dal tetto a falde. Il tema della casa a falda, che il moderno ha negato, è affrontato disarticolando lo spazio interno e creando una continuità spaziale senza divisori, differenziando le zone funzionali attraverso i salti di quota. VI si riferisce all'impianto planimetrico a forma di V e all'uso del tetto come una V capovolta anche se in questo paesaggio ibrido ci sono altre storie da raccontare.

[Stampa su carta fotografica semilucida]

«Meter una pala en el aire y sacar el aire» - mettere una vanga nell’aria e tirar fuori l’aria - è la metafora creativa dello scultore basco Jorge Oteiza, una ricerca che cerca di far uscire fuori l’aria da uno spazio compatto. Oteiza è una casa immersa in un bosco ed è scolpita alla ricerca dei vuoti per permettere all’aria del bosco di abitarla.

12 novembre 2015

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La mostra inaugura un programma di eventi culturali nati sotto la direzione artistica di Salvatore Gozzo per lo spazio espositivo catanese di #VialeAfrica42 di SicilCima e sarà visibile fino al sei dicembre.

Tutti i giorni 17:00 – 20:00 e domenica su appuntamento
SicilCima - Viale Africa 42, Catania
Per informazioni o richieste: Tel. 392.9169493 - comunicazione@sicilcima.it

Le fotografie del post sono di Roberta Nanfitò e Atelier Crilo

Racconto video e twitter della mostra Paesaggi ibridi di Atelier Crilo

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L'inaugurazione del sei novembre della mostra dell'Atelier Crilo e la lecture raccontati in un video di Mauro Maugeri e un live streaming twitter.

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streaming twitter della lecture del sette novembre #paesaggiibridi

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La mostra inaugura un programma di eventi culturali nati sotto la direzione artistica di Salvatore Gozzo per lo spazio espositivo catanese #VialeAfrica42 di SicilCima e sarà visibile fino al sei dicembre.

Tutti i giorni 17:00 – 20:00 e domenica su appuntamento
SicilCima - Viale Africa 42, Catania
Per informazioni o richieste: Tel. 392.9169493 - comunicazione@sicilcima.it

Buon compleanno Caccia!

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di Salvatore D'Agostino

   Il giorno di Sant’Ambrogio di centotre anni fa a Milano nasceva Luigi Caccia Dominioni, architetto milanese morto lo scorso tredici novembre poco prima di festeggiare il suo compleanno. Lo ricordiamo con un’intervista inedita a cura di Pierfrancesco Sacerdoti e Tommaso Cigarini, laureandi del Politecnico di Milano, che in due giorni, il quattro e il dieci novembre del 2005, si recarono nella casa in piazza Sant’Ambrogio a porre un profluvio di domande ricevendo delle risposte spontanee e spesso divertite da parte del novantunenne architetto. Pubblichiamo una riduzione dell’intervista mantenendo il tono informale e rilassato delle risposte, augurando buon compleanno Caccia!

Disegno di Pierfrancesco Sacerdoti regalato a Luigi Caccia Dominioni per il suo centesimo compleanno


Pierfrancesco Sacerdoti, Tommaso Cigarini: Quali sono i requisiti per essere un bravo architetto?


Luigi Caccia Dominioni: Essere una persona onesta. Un architetto deve essere una persona perbene, una persona onesta negli intenti. Non deve fare per sé, deve fare per gli altri. Deve far bene per tutti e due. La priorità è il cliente, chi ti domanda. Naturalmente se domanda una cosa immorale io non gliela faccio.


Che consigli darebbe a un giovane architetto alle prime armi?


Di fare tutto quello che gli capita, tutti i lavori che gli capitano per poter fare, e di non darsi delle arie, di essere semplice, cercare di fare quello che è possibile nel modo migliore possibile. Continuare a impegnarsi su quello che gli si presenta come caso occasionale.


Ci sono architetti giovani che stima ed apprezza?

Non ne ho perché non ne conosco. Siccome non ho fatto il professore universitario, non conosco i giovani. Vedo che tanti giovani cercano di fare quello che faccio io, ma lo fanno in modo diverso. Per me è difficile conoscere i giovani. Conosco i miei nipoti, ne ho tanti, quelli che per caso conosco, ma non è che abbia la possibilità di sapere quello che fanno. Io vedo dei nipoti che fanno delle cose un po’ simili alle mie, poi ce ne ho qualcuno che invece fa per conto suo, e io preferisco quello che fa per conto suo. Apprezzo di più chi cerca una sua strada.


Ci sono architetti della sua generazione, oggi dimenticati, che meritano di essere riscoperti? 

Ci sono i miei compagni di scuola che sono stati: Renato Castellani, Comencini e Lattuada, che hanno fatto i registi; poi Castiglioni, che ha fatto l’architetto, ma soprattutto il designer, ha organizzato i fotomontaggi, i fonomontaggi, i suonomontaggi, tutte queste cose qui. Un altro è il Castiglioni Piergiacomo, grandissimo designer. Poi: Zanuso, grande architetto e grande designer; poco dopo di me, Magistretti, grande architetto e grande designer. Poi Banfi, Belgiojoso, Peressutti, tutti bravi. Secondo me è più difficile fare una sedia che fare un grattacielo. Quando sento parlare di Norman Foster o di Frank Gehry, secondo me sono bravissimi scultori. Renzo Piano è bravissimo, ma io preferisco Magistretti, che è capace di fare certe cose che questi non hanno mai fatto. Foster ti fa la pigna a St. Moritz, alta duecento metri, splendida, poi vado a vedere le piante: c’è da aver vergogna. Sono entusiasta di Jean Nouvel, vado a vedere l’albergo che ha fatto in Provenza: ci sono delle piante da far paura. Non lo dico per invidia, perché io sono un grande sostenitore di questi qui, ma non riesco a capire come si può fare questo e quello. Si deve fare questo e quello, capisci? Questa è la differenza. Lo dico con passione, ma con sicurezza. Insomma, c’è tutta questa architettura fatta per farsi vedere, che segue le mode. Invece, secondo me, bisogna essere più seri, un pochettino più tranquilli. La serietà, insomma. Non so, io ancora oggi, che ho fatto l'edificio in corso Europa nel 1955/60, è una bella facciata, simpatica ma dentro di me ho ancora oggi un certo scrupolo ad aver fatto quella facciata perché penso che dietro quelle finestre di vetro c’è un tavolo, che va contro la finestra. Qualche ripensamento l’ho avuto, eh, pensando a certi tavoli che vanno contro i vetri, insomma, qualche errore lì c’è stato, qualche errore, insomma. Questi vetri che si aprono, ho preoccupazioni anche morali.


Ad esempio questa qui è la pianta che io ho già fatto un paio di volte [inizia a indicare su un disegno che si trova sul suo tavolo il progetto a La Punt], perché l’ho fatta e poi ogni tanto mi torna sotto tiro e vedo che ci sono dei piccoli errori, e allora la cambio questa pianta qui, questa pianta è una pianta che praticamente è definita da che cosa? Succede che c’è un piano regolatore che mi determina questa linea, più o meno, c’è una riga qui, e c’è una riga qui, così. Poi là, ho la strada a cui devo stare a 2.50 metri di distanza. Poi ho la lista. Questa qui è una casa che deve venir lì, quindi io non posso più muoverla, deve venir lì. La forma, questa forma qui, gliela do io, queste, uno, due, e questa linea generale è data dal piano regolatore. L’altezza è data dal piano regolatore, e io sono lì bloccato. La dimensione vien fuori 280 metri circa, totale; è troppo grande, non si vende: devo farne due. E io mi arrangio, però io so che la vista di questa casa è la sua forza ed è data da questa finestra qui. Sono circa tre metri per due, son sei metri quadri, io devo giocare su questo punto. E allora ci giro intorno, la scala è là, la scala deve essere larga 2.50 metri, gli obblighi fissi di larghezza. Entro qui, a me va benone. Ma devo riuscire a combinare queste cose, in modo tale che ci sia una possibilità di arredamento per cui, cosa succede, che queste forme che io do, partono in un certo senso da questa finestra qui e praticamente da questo camino qui. Allora cosa faccio: qui vedi che è nell'angolo, però, m’arrangio perché è nell'angolo; qui non so se lo farò o non lo farò, perché può darsi che sia troppo in dentro e allora non lo farò, magari. Però c’è una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci persone che godono questa vista. Poi, tac! Vado là, scavo qui, prima era qui, poi pian piano ho scavato di più, sono andato indietro e ho creato un posto dove eventualmente ci sta un tavolo da pranzo di otto, dieci persone, lì, separati. Poi, trovo il modo di mettere le camere, pazienza, non avranno quella qual vista, praticamente guardano su verso la montagna, pazienza, non si può aver tutto.

E lì c’è una vista proprio dal letto, cioè sdraiato sul letto.

Sdraiato sul letto, qui uno tenta di vedere qualcosa. E la metto lì. Ma, soprattutto, ho: un ingresso qui, metto i cappotti qui, poi qui piazzo un bagno che c’è e non c’è, ma comunque è lì, abbastanza vicino all’ingresso, quindi vedrò come la userò e poi ho uno slargo qui, per andare nella zona cucina. Zona cucina che in pratica è qui, è a cinque metri dalla sala da pranzo, perché non è lontana, perché il tragitto qui non è lungo. Quindi io sono abbastanza vicino, posso mangiare anche lì; però, se voglio fare un pranzo, qui è abbastanza vicino. Poi, dico, uno che entra mette giù il paltò, ha una certa emozione venendo avanti, insomma, vede quattro quadri che ho messo qui, qui, qui, vede qualche cosa, ha una prospettiva, ha una lunghezza che gode, è bella perché più è lunga, più è bella; la casa è piccola, però avere una lunghezza di questo genere non è facile, e uno la gode tutta, la vede, la vista, là in fondo, insomma e quindi è un certo godimento, e poi un certo modo di muoversi, eccetera. Poi, le camere sono messe, sembrano messe così, ma invece sono messe molto bene - adesso lo dico io, non lo dite voi, lo dico io – sono messe molto bene nel senso che questo letto è là, la testa è là, la testa è qui, diciamo: un angolo dritto, un angolo dritto, cioè: una parete dritta, un angolo retto, un angolo retto, qui c’è una punta – non importa niente, ci metto un comodino – e questi si allargano, si fa bene il letto qui, questi si allargano, si fa bene il letto qui, qui c’è un angolo così, e vi è un bell’armadione per questi due qui, questo qui non hanno l’armadio qui ma hanno l’armadio qui, ce l’hanno di qui, e hanno il gabinetto qui. Qui entro, e ho una porta diritta che si ribalta giusta, che va là, poi una porta giusta che si ribalta giusta contro di qui, l’altra che si ribalta giusta e va di qui. Io normalmente, quando mi danno da mettere a posto gli appartamenti, vedo che ho sempre un paio di letti da scavalcare. Eh, no, qui non ci sono mai da scavalcare, qui uno cammina diritto e va, qui cammina diritto e va, a parte che l’uomo si muove sempre per linee curve, cioè non fa mai l’angolo retto, non fa mai. Però io quando posso, non è che sia tutto storto, tutto storto per modo di dire: è tutto dritto. È tutto storto e tutto dritto. Cioè, è storto nel senso che qui uno va, viene, gira, gira, fa quel che vuole, va, e poi si mette e va lì. Però, poi, questo è dritto, questo è dritto, però, naturalmente, uno qui va inclinato, va lì, insomma il letto è là, in un angolo, non è davanti.

Quindi, questo flettersi delle pareti è generato proprio dai flussi delle persone.

Dai flussi delle persone; da un rigore, è generato da un rigore. Non è da una voluttuosità, stupida. E anche di qui, se voi guardate, questa camera qui è là, però questa apertura qui che va a guardare, siccome la vista è questa, bella, eh! Eh, poi questa camera qui non ha vista, poverina, guarda di là, eh bè, pazienza. Pazienza, è punita, però queste due, ce l’hanno. Eh insomma, c’è tutto, qui è perpendicolare, questa fa perpendicolare con questa, io arrivo di qui, e vado e vado e vado e vado e vado, ma però non trovo niente tra i piedi, eh! Trovo là in fondo il letto, là in fondo. C’è una prospettiva, qui i letti sono di qui, qui i letti sono nascosti di là, insomma, è mestiere, queste cose non sono cose così semplici, naturalmente vanno elaborate, vanno fatte tre volte, quattro volte, dieci volte. Ogni millimetro è pensato e la posizione del water, del bidet, insomma non è mai in faccia alla porta, insomma, tutte cose curate, insomma.

Lo stesso pavimento riflette.

Il pavimento gioca che va perpendicolare a questa vista qui, perpendicolare a questa vista qui, e poi va, viaggia. Però dopo, tac! Quando trova la porta, sul questo angolo posso cambiare la direzione, cambia la direzione, e van per così, insomma. Quindi, sai, tutte quelle domande lì, non lo so io, ci son dentro tutte, eh. È un mestiere il mio, è un mestiere, o è un’arte, fai come vuoi, insomma. Va bene, ma così non rispondo più alle vostre domande.

Quali sono a suo avviso le architetture e i quartieri più significativi per l’architettura del Novecento a Milano?

I bravi sono stati De Finetti, Gio Ponti. Ponti faceva le case secondo i clienti che aveva, e, quando gli capitava di poter fare, faceva abbastanza bene. Esemplari sono le case che ha fatto in via De Togni. Le case che ha fatto per la Montecatini, per Donegani, che sono fior di case, insomma. Questo per dire. E Portaluppi cos’era? Un tipo che faceva qualsiasi cosa che gli veniva in mente, però la Cascami Seta, che sta qui in via Santa Valeria è molto bella, secondo me di alta mano. Uno grande, uno che invece era un grande piantista, era Tomaso Buzzi. Il quale faceva porcate a non più finire, perché era servo del cliente, faceva troppa roba, eccetera, però era un piantista. Era l’unico piantista che ho conosciuto io bravo. L’altro era Gigi Vietti.

Io non ho imparato niente a scuola, eh. Ho imparato da Portaluppi lo spirito, la vivacità, così, e da Ponti la correttezza. Ma, dai professori, non ho imparato niente: un po’ io ero negato a imparare perché sono sempre stato molto distratto a scuola, io non esistevo, era come se non ci fossi. Però Ponti a me è capitato, Ponti presiedeva la Triennale e ci ha fatto fare, a me e a Castiglioni, le posate, e quando abbiamo fatto queste posate non eran mai pronte, e allora lui s’è messo a far posate, e c’era la Sezione Metalli che mancava di ‘ste robe. E fatte le posate - ne ha fatte quattro o cinque tipi - noi siamo arrivati all’ultimo giorno, le abbiamo messe fuori e lui ha ritirato le sue e ha messo fuori le nostre. E poi, il mese dopo è uscito con “Stile”, dicendo: “Le più belle posate del mondo”. Questo è gran classe, insomma. Una persona che ha dieci anni più di me e che si comporta così, vuol dire avere la classe. Portaluppi, invece, era spiritoso, brillante; quando correggeva gli schizzi ex tempore che facevo, foglietti qualsiasi, non facevo niente, e lui alla fine degli schizzi ex tempore prendeva uno che aveva fatto dodici tavole e diceva: “Lei, senta, lei, cosa fa, lei, non fa niente, non fa!” Dieci, dodici tavole! Fatte in un giorno, da mattina a sera. Poi andava ai miei schizzacci schifosi, mezzi bruciati perché, nel frattempo, avevano sparato delle bombe, così, fatto sta che diceva: “Caccia sì, è un’altra roba!” Era proprio lo spirito, eh. Voglio dire: lo spirito dell’uomo. Ecco. 

Da quanto ci risulta lei non ha mai insegnato all'università, diversamente da alcuni suoi compagni di strada.

Ogni tanto facevo conferenze. Anzi, non faccio mai delle conferenze, faccio dei colloqui. Per esempio l’altro giorno sono venuti qui in studio da me quindici studenti di Zurigo, l’anno scorso altri quindici, poi vengono studenti di Mendrisio, poi quelli nostri.

Le sarebbe piaciuto insegnare, oppure è contento di aver dedicato tutte le sue energie alla professione?

Mi sarebbe piaciuto insegnare. Perché avevo da dire qualcosa, insomma, nel senso che forse sapevo fare imparare il mestiere a qualcuno. Ma non l’ho fatto perché non ritenevo di essere portato per questo mestiere, poi mi sono accorto che in fondo potevo dire qualcosa anch’io. Mi sono accorto, andando a fare gli esami di Stato, che c’era gente che cercava di fare le cose che facevo io, che avrei potuto fare io, ma le facevano in modo un po’ deformato, come maniera. Mentre non è una maniera, è un’essenza. Non è frivolezza, questa. Può sembrare.

Alcuni ritengono che un architetto per essere bravo debba anche essere un intellettuale. Lei cosa ne pensa?

Io penso di sì, che sia giusto. Io non lo sono [ride]. Mi sono sposato con una persona che era intellettuale, e io non lo ero. Ah, però sono andato d’accordissimo. Perché era talmente intelligente, mia moglie, che sapeva dosare il giusto.

Sua moglie che studi aveva fatto?

Mia moglie si era laureata in Lingue, poi aveva fatto Psicologia. Ma poi era una che scriveva benissimo, parlava molto bene, insomma, era quello che si dice una persona intellettuale e colta. Io, invece, sono un rusticano, di rustica progenie.

Ma sua moglie le dava dei consigli, nei progetti.

No, no, mai, mai! Era di una delicatezza, estrema.

E lei non le chiedeva consigli.

Non le chiedevo consigli. Dovrebbe essere proibito, intanto, il matrimonio tra architetti, secondo me [ride].

Però capitano!

Io lo proibirei [ride]. No, credo che sia meglio di no.

Ci sono architetti che si riconoscono sempre per una specifica cifra stilistica ed altri che cambiano registro a seconda delle circostanze in cui si trovano, preferendo mantenere una unità di metodo. Sono entrambe strade valide?

Io credo che uno deve avere un suo stile. La questione è che io faccio delle cose completamente diverse una dall’altra, perché è l’esigenza, insomma. Se mi dicono di fare un’automobile per città, è una cosa, se mi dicono di fare un’automobile da corsa, è un’altra questione. Io credo che bisognerebbe fare le case come le automobili. O le automobili come le case. Bisognerebbe adattarsi volta a volta alle condizioni. Certo, io non riesco mai a fare una casa uguale all’altra, perché non capitano mai le stesse condizioni. L’architetto è come un computer: deve decidere delle informazioni e poi fare il lavoro. Se uno registra bene le informazioni, è ben difficile che gli capiti una cosa uguale all’altra, che siano identiche, le cose. Perché, se ti capita una casa da fare sul lago di Como, che ha il sole davanti, è una cosa. Se ti capita di fare una casa a Stresa, che ha il sole dietro le spalle, e la vista è davanti, come fai? È tutto diverso; basta che il vento sia da una parte, basta che l’arrivo alla proprietà sia in un dato modo, la pendenza del terreno. Insomma, tutte queste cose, sono delle registrazioni che uno deve fare. Poi deve mettere insieme queste cose, e orientarsi come un piccione viaggiatore. Ci pensa su un po’ e poi trova la soluzione della strada. E va. Poi dopo, naturalmente, qualche cosa devi sacrificare, non è che puoi ottenere tutto da tutto. Però, in quel momento c’è la soluzione che è quella che si impone.

Vista la sua lunga collaborazione con Francesco Somaini, cosa pensa del rapporto arte-architettura?

Penso che va benissimo, basta essere affiatati, insomma. Sì, ci vuole, è importantissimo. A Somaini facevo fare il pavimento e gli facevo fare anche le sculture. Gli ho fatto fare tutto, insomma. Certe volte ho paura a usare certi generi di artisti, perché o l’artista è tuo amico e capisce e collabora. Non posso preparare delle pareti così, per poi chiamare un pittore che fa quel che vuol lui, ho paura. Se ci fossero Leonardo da Vinci o Michelangelo Buonarroti li chiamo subito, ma se viene questa gente che possono essere anche bravissimi, per carità, ho paura. Ho lavorato con Fontana, con Somaini, e mi sono sempre trovato bene. Le altre volte, chiamo la gente per fare una vetrata, e se te la sbagliano cosa fai? La getti via? Non è facile il rapporto.

Le è capitato di…

Di gettar via no, ma di trovarmi fregato sì. Ho sempre subìto, quindi sto molto attento.

C’è una componente di rischio.

Una componente di rischio altissima. Oggi gli artisti fan dei quadri che son fatti di quattro linee o di quattro colori. Non è che a me non piaccia Rothko, per carità, io lo adoro Rothko. A Fontana volevo un bene dell’anima. Però, insomma, io ho paura. Se mi fido, allora mi fido.

Ci sono architetti, come Le Corbusier e Mendelsohn, che legavano la loro ricerca architettonica alla musica. Ama la musica? Crede ci sia un rapporto tra architettura e musica?

Penso di sì, ma io non conosco la musica purtroppo. Insomma, mi piace, ma non me ne intendo. A me piacciono i Cherubini, mi piacciono questa gente qui. Da Mozart, insomma. Wagner a me non piace. Sono un po’ frivolo, ecco. Mi piacciono le cose un po’ leggere.

Dopo molti anni di stasi Milano sembra volersi dare un profilo simile a quello di molte città europee. Ne sono un esempio i concorsi banditi per aree strategiche per il futuro sviluppo della città, che da anni richiedono una soluzione: i progetti per la Fiera, la Città della Moda, la nuova sede della Regione Lombardia, la città ideale di Santa Giulia. Cosa pensa dei progetti vincitori? Ha delle proposte in merito?

Non penso niente, non voglio dare risposte a niente. Io sono preoccupatissimo e ho l’impressione che tutte queste cose siano fatte con concorsi-appalto. Quindi sono concorsi che vengono assegnati a chi vince l’appalto. E fatte, secondo me, da personaggi che non sono all'altezza. Sono degli ingegneri, degli affaristi, gente che si intende di altre cose ma non di architettura. E cosa succede? Succede che vince chi fa il prezzo minore. Ma non si va a fondo dei problemi. Fanno un concorso per sistemare la Fiera fuori Milano. Il concorso lo vince l’Astaldi, con Fuksas. Benissimo. Io non l’ho vista ancora, può essere bellissima, non lo so. Risultato: c’era una bella vetrata, con questa grande cosa, anche lì si va a cercar l’effetto. È una cosa per una mostra, per far vedere agli altri che cosa? E invece si fa una cosa dove entra il sole, che devi difenderti dal sole, devi consumare dell’energia per difenderti dal sole, inquinare l’atmosfera. Insomma, la razionalità, la funzionalità che fine hanno fatto? Però vince il concorso e fanno la Fiera. Adesso devono vendere la Fiera di Milano per pagare le spese di questa cosa qui: altro concorso. Il concorso è lì: i grandi nomi vanno. Ma insomma, gli architetti di Milano non dico che debbano vincere i concorsi, ma che siano almeno in commissione per decidere chi vince. Ve l’ho già detto, insomma: Albini, Gardella, Rogers, Peressutti, Banfi, Belgioioso, Zanuso, Magistretti, Mangiarotti. Eh, insomma, dico! Si contano quindici giocatori, una squadra di quindici da rugby, quindici persone di altissima qualità, di Milano. Adesso Non ci sono. In commissione c’era Marco Romano, figlio di Giovanni Romano, una brava persona, fa l’urbanista, politicizzato. Basta. Poi c’era il professor Rumi, mio amico, professore di Storia. Io ho paura.

Poi Zunino chiama Foster, eh, Foster ha fatto la famosa zucca a S. Moritz, dove io costruisco. Io costruisco a La Punt, lui a S. Moritz. La zucca ha gli appartamenti da 380 metri con due letti matrimoniali, due, 380 metri! Nella sala, per andare in cucina, ci sono sei gradini o cinque gradini. Cioè, una parte di casa è alta, un’altra più bassa. Ora, a S. Moritz, che tutti, novanta per cento prima o poi hanno la gamba rotta, per via delle piste da sci, non possono far le scale. Io mi auguro che gli vada bene, a questa gente, a comprar le case. A comprar le case, a questa gente. Ora, se ti trattano le case in quel modo lì, che fai 350 metri, ma con la camera da letto, una delle camere da letto di Foster, è fatta così [disegna]. Pressappoco, eh, pressappoco. Uno dei due letti matrimoniali, è qui. Qui c’è la finestra. Qui c’è la porta d’ingresso, insomma. Il bagno è qui dietro. Si entra qui. Qui c’è una fila di armadi, qui c’è una fila di armadi, così. Pressappoco. Qui c’è la finestra. Questa parete qui è inagibile perché è tutta armadi; e questa è inagibile perché è tutta armadi. Qui c’è la porta del bagno, per cui tu devi andare a letto, vieni fuori, vieni in bagno, qui, poi cammini qui. E cosa fai? Metterai un comodino qui che stenterà a passarci, poi vediamo di mettere due comodini qui, così. Poi? Non so. Mettiamo una poltrona qui e una poltrona qui. Finito? Questa parete inagibile, parete inagibile, e questa è la camera da letto, una delle due camere da letto. Su 380 metri. Io qui [mostra il progetto per La Punt] sui 200 metri, sui 130 metri, ho: uno, due, tre, quattro, cinque, sei letti. E però, però, l’armadio che è qui. Qui ho una scrivania. Qui c’è una poltrona. Qui c’è una bella parete così. Qui ci possono stare. Qui c’è il mio bel gabinetto. Qui c’è una scrivania, così. Qui c’è il suo armadio, ce l’ha qui. Il bagno è qui. Ci si cambia e ci si veste in bagno. Eh, insomma! 

Ad esempio quando ho fatto il grattacielo a Montecarlo, ho fatto una pianta che adesso non ho qui, dovrei cercarla. Avevo una scala sola, però una dentro nell'altra, cioè, una sotto l’altra, in maniera che occupavo uno spazio solo di scala e avevo due scale. E arrivando al piano, avevo undici appartamenti. Cioè, io servivo con una scala undici appartamenti. È un record, eh, mondiale. Eh, perché normalmente si riesce a servire tre, quattro, cinque appartamenti, non so, questo qui non so, questo qui è una casa che ho fatto, delle case che ho fatto a Como. Sempre basate su piante che devono essere più perfette possibile di dentro, e che però non consumassero spazio di fuori. Capisci? Eh, il trucco è lì, insomma, il trucco, eh, la serietà professionale, è lì. Ecco, per esempio, questo, è un esempio di casa, questa qui è una casa, quella là io ne avevo undici, qui però ho una scala, un ascensore, e tre appartamenti: rosa, verde, celeste. Io ho cercato di risolvere, poi dopo ho studiato le piante in modo perfetto, poi chi vende ha cambiato subito i disegnini dentro e mi ha voltato le spalle. Io avevo fatto lo studio di questi appartamenti, quindi avevo una finestra qui e una finestra qui, e un camino qui, sempre lì buttato fuori, come vedi. E questo qui faceva il leitmotiv dei tre appartamenti: uno, due e tre, eh. Cioè, avevano questa sala importante, e poi: uno, due, tre letti, ma sono appartamenti di cento metri, questi qui. Là trecentosessanta, quello là, eh. Questi qui sono di alta qualità, questi qui, insomma. In ogni modo, l’importante è di fare una cosa che funzioni bene e che consumi poco. Qui, lo spazio pubblico è questo qui e basta [si riferisce a scale, ascensori e pianerottoli]. Là avevo qualche andito, ma però relativamente avevo una scala sola, bensì che due, poi dopo si è messa a disposizione questa, insomma, insomma, è la serietà. 

Temo che questa gente, non so, io mi auguro che abbiano trovato dei professionisti che li istruiscano bene, che riescano poi. Ma a me fa paura, fa paura, fa paura che diventano. Tu fai un grattacielo, ma devi fare un grattacielo che funzioni, deve avere le porte di sicurezza, per uno, due, tre, quattro, cinque, sei appartamenti. Funzionale, no, insomma. Ora mi domando e dico: cosa succederà di Milano City se la progetteranno loro? 

Si può dire che a Milano c’è stato un decadimento culturale?

Io non lo so, non posso dire. Può darsi che siano più bravi di me. Può darsi che impegnati e stimolati da persone intelligenti. Tutto può darsi.

L’area di piazza Fontana è stata oggetto di molti progetti e richiede da anni una sistemazione. Lei cosa proporrebbe?

Piazza Fontana. Eh sì. Io posso raccontare di piazza S. Babila. Ecco, la fontana di piazza S. Babila, per dire [prende un foglio]. Io sono uno scrupoloso. Allora, cosa è stato il leitmotiv della fontana? Adesso non mi ricordo la pianta quale sia, neanche, bene. Però, quello che vi dico è questo: il leitmotiv di piazza S. Babila è stato fare in modo che un dottore chiamato d’urgenza, non perda neanche un secondo di tempo. Va bene? E vada dall'ammalato che magari salva, o magari lo uccide. Mettiamo che questo qui sia la piazza S. Babila [disegna]. Il perché della piazza S. Babila, se volete andare a vedere, prendete la pianta e la esaminate, vedrete che c’è una specie di coso fatto così e così [disegna], per così dire; questa diagonale che vien fuori qui, viene fuori perché in questo modo l’attraversamento più rapido è permesso malgrado la fontana. Capite? La fontana è qui, mettiamo, no, mettiamo che sia fatta così. Adesso non lo so come è fatta, è fatta così, cosà e cosà, insomma, va bè. È fatta in modo che da qui, da un coso o l’altro, uno attraversando, fa una scorciatoia. Ecco. Questo è il leitmotiv, è quella cosa sufficiente, come il vento, o l’arrivo della villa, o l’orientamento, è quello che m’ha dato la motivazione a dar la forma alla fontana. Quindi, è la stesso pensiero sui pittori che non sanno più fare niente. Perché? Non hanno, poveretti, non hanno più la base, la base d’appoggio su cui [batte con il pugno sul tavolo]. Io ho delle basi, cerco l’appoggio per fare il salto al trampolino, no? Ci vuole l’asse a sbalzo, qui, su cui fare il salto, il salto, presalto e poi far la capriola, e fare il trampolino, perché hai la base su cui fare il balzo. Il pittore, che una volta aveva la rappresentazione della realtà, adesso si trova col foglio vuoto, e non sa cosa fare, secondo me. Cioè, non hanno queste pulsioni dall’interno come ha Rothko, per cui riesce a fare cose magnifiche lo stesso. Insomma, è difficile, eh.

Nell'intervista che le ha fatto Irace1ha affermato che dopo la guerra il centro storico andava lasciato com'era, mentre bisognava fare un ring di parchi e grattacieli nella fascia compresa fra i navigli e i bastioni. Tuttavia l’area in questione era densamente edificata già allora. Crede che sarebbe stato giusto demolire gli edifici esistenti per fare spazio al verde e ai grattacieli? 

C’era un momento a Milano in cui si poteva tentare di tenere il centro com'era, circondandolo con i navigli e la circonvallazione. La grande demolizione che c’era nel dopoguerra, si poteva utilizzare per fare delle oasi di verde. Insomma, c’è stata la lotta contro i grattacieli, mentre il grattacielo andava premiato per farci attorno il verde. Tu hai lì la possibilità di far centomila metri cubi. Dagliene duecento, però obbliga a liberare le zone a terra, cioè fare tutto questo verde, e fare un ring in giro a Milano costellato di grattacieli. Fossi stato chiamato, avrei fatto così.

Condivide le trasformazioni urbanistiche del centro di Milano proposte negli anni cinquanta, ad esempio la Racchetta, gli Assi Attrezzati e il Centro Direzionale?

Il Centro Direzionale credo che sia abbastanza giusto. La Racchetta è stata un fallimento, no? Ma poi sono sempre state fatte purtroppo delle mezze misure, ecco. Anche del Centro Direzionale praticamente non si è fatto niente.


E gli Assi Attrezzati?

E gli Assi Attrezzati, cosa hanno fatto? Io non ho partecipato, purtroppo. Ho sbagliato. Bisognava partecipare di più e dare idee, e io non le ho date. Mi sono sbagliato. Bisognava essere più decisi nel salvare il centro di Milano, ma bisognava operare. Vi chiedo scusa per la mia debolezza. A me danno fastidio le chiesuole, le conventicole, questi gruppi. Allora pur di non entrare me ne tengo fuori.

In alcuni casi la realizzazione dei suoi edifici ha comportato la distruzione di parti del tessuto storico di Milano. Secondo lei sono giustificabili operazioni di questo tipo in un tessuto ormai così compromesso come quello di Milano?

Io mi son trovato con la strada che era già fatta, insomma. E i terreni erano liberi, mica li ho gettati giù io. Io ho fatto bene e male lì, non è che siano tanto delle gran cose, però non ho vergogna. Praticamente l’ho fatto quasi da solo, perché, tra una storia e l’altra, ce ne ho uno, due, tre da una parte, due in faccia, sono cinque case. Vercelloni li criticò chiamandoli gli 'armigeri neri' di Dominioni. Anche se di fianco c’è Magistretti, che ci sta bene.

Per diversi anni ha abitato e lavorato a Montecarlo. Quali sono stati i motivi di questo trasferimento e cosa pensa dello sviluppo di questa città? Vede delle analogie tra Milano e Montecarlo?

Sono andato a Montecarlo perché a Milano non c’era gran lavoro. Non solo: ma mia moglie stava bene al mare o in montagna e stava male a Milano. Quindi, la ragione era dovuta a ragioni familiari. Per cui o stavo a S. Moritz, o stavo al mare. A Milano non potevo stare. Per cui, mi è capitato un lavoro importante: un grattacielo di trentatre piani. E il mio cliente di Milano ha detto: “vuoi farlo? Però bisogna andare a stare a Montecarlo, perché in Francia è obbligatorio che la direzione lavori sia fatta dal professionista che progetta l’edificio. Io ho fatto il progetto e devo fare la direzione lavori, insieme ad altri architetti. Eh. Invece in Italia non si fa. Per cui cosa succede: che uno fa il progetto per un grattacielo, e progetta il soffitto. Rivestito di lastre di Carrara di due metri per quattro. L’ingegnere deve fare la cosa con le lastre due per quattro. Io sono andato a Montecarlo e ho fatto il rivestimento di due per due, piastrelline. E ho inventato io il colore, eccetera, eccetera; la forma, eccetera, eccetera; ho inventato il miscelamento, in maniera che non era continuo, insomma, ho fatto delle righe, che ci sono e non ci sono, ma si intravedono. E ho inventato la soluzione: perché avevo la direzione lavori. Cioè, la direzione lavori mi ha imposto, ecco le cose… mi ha imposto la soluzione di una facciata diversa da quella che avrei fatto normalmente con un rivestimento in marmo. Ho fatto diverso, ho dovuto inventare un tipo di piastrellina, e da una cosa nasce l’altra. Risultato: ho dovuto andare, c’era il motivo di mia moglie, ho dovuto prendere la residenza lì. Perché dovevo fare la direzione lavori. Ero obbligato. Dopo ho fatto cinque o sei case vicino a Montecarlo. Ero motivato. Quando ho finito questi lavori sono rientrato in Italia.

Il grattacielo di Parc Saint Roman, nel Principato di Monaco 


Cosa pensa dello sviluppo di Montecarlo?

Uno schifo. Eppure la soluzione per Montecarlo era così semplice: grattacieli. Il posto è bellissimo, è un anfiteatro naturale magnifico. Obbligate a fare dei grattacieli [batte il pugno sul tavolo], e proibite le costruzioni orizzontali! Loro, invece, hanno fatto tutte costruzioni orizzontali, e hanno tolto la vista a tutti. C’è un magnifico anfiteatro, fai diciotto bottiglie da vino, così: ta, ta, ta, ta, ta, ché la vista passa dappertutto, viene una cosa magnifica. Sono bravissimi nel fare le strade, nel fare gli svincoli. Adesso hanno fatto una nuova stazione di Montecarlo, è magnifica. E lì, bastava fare queste cose, con tutte queste bottiglie, in questo anfiteatro, e non fare le tavolette di cioccolata che portano via la vista, han rovinato tutti i boschi. È uno schifo. Si salva solo il mio grattacielo. Il quale è fatto bene, e ha una forma particolare, anche perché – nessuno lo sa – è tangente esattamente al confine col paese limitrofo, che è Fontvieille. Fontvieille è Francia. Se tu metti il piede fuori da quella linea lì, la casa vale, non so, due milioni al metro, mentre dentro vale dodici milioni al metro. E quindi la forma, in buona parte, è data dal perimetro della frontiera. 

Quando progetta i suoi edifici pensa che debbano durare per sempre o che abbiano una durata limitata nel tempo? 


Foto Stefano Suriano 

Bella domanda, perché devo dire che sono così superficiale che non ci penso, insomma. So benissimo che le cose durano relativamente nel tempo. Costruisco perché la costruzione sia valida nel tempo. Cerco. Il progetto è una cosa. La costruzione è un’altra. La costruzione è fatta di materiali che possono essere imperituri, e altri che sono perituri. Cerco di costruire con materiali piuttosto resistenti. Però succede quel che è successo per esempio lì in via Ippolito Nievo con la facciata celeste: ho dovuto rifare completamente la facciata. È caduto un pezzo di cinque metri quadri, senza far male a nessuno, per mia fortuna, anche se era dopo cinquant’anni, quindi la responsabilità non c’è più, ma insomma… resta sempre l’angoscia. Ho dato subito il consiglio di scender giù tutto, però ho chiamato prima il professor Finzi – non Leo Finzi, che è lo strutturista, ma l’altro Finzi – e a lui ho fatto fare uno studio stratigrafico, ed è risultato che c’era un distacco quasi del settanta per cento della facciata ed ho dovuto scender giù tutto. E rifare. Però era costruito in modo che dovesse resistere. Però era costruito in modo che dovesse resistere. 

E poi ha messo dei pezzi più piccoli?

No, li ho messi uguali. Perché lì il distacco non è stato del rivestimento dall'intonaco è stato il distacco dell’intonaco dal muro, che ha ceduto. Quindi non è colpa del clinker, o di chi ha fatto il rivestimento, è stato colpa dell’intonaco fatto sotto, che non ha tenuto. Però, sai, cinquant'anni. No, la risposta è la pianta la si fa perché deve andar bene per sempre, in un certo senso. Naturalmente, gli elementi che costituiscono poi la casa sono: la scala, l’ascensore, gli impianti, eccetera, eccetera. Tendo a costruire sempre con materiali piuttosto resistenti, oppure poveri, quindi le mie facciate sono fatte di clinker, di ceramica o di pietra: la Biblioteca Vanoni a Morbegnoè fatta di ciottoli di fiume, quindi quella non cadrà mai. Oppure sono fatte di intonaco. Va bene allora più o meno ho risposto.



Ripensando alle sue prime opere, le rifarebbe uguali o ce n’è qualcuna che cambierebbe? 



Direi di no. Certo che cambierei, non rifarei certe cose come le ho fatte in passato. Non è che mi sia pentito di aver fatto questa casa in Piazza Sant’Ambrogio, la rifarei lo stesso, credo. Magari i tempi sono cambiati e magari avrei cambiato certe piante, certi materiali, può darsi. Però, più o meno l’avrei rifatta uguale, credo.


Foto di Stefano Suriano

Dopo aver terminato i suoi edifici le capita di tornare a vederli per capire come vengono vissuti e se subiscono modifiche nel tempo? 

No. Direi di no. Però, quello che capita è che sempre mi accorgo di aver fatto degli errori, quello sì. Io li conto, gli errori. Però, sono abbastanza soddisfatto se ce ne sono pochi, o se non sono gravi. Però ci sono sempre, eh. 

Le farebbe piacere che le sue opere venissero tutelate o vincolate? 

Il soprintendente di Bologna mi ha chiesto di far vincolare questa casa qui, per esempio. Me l’ha chiesto lui quando mi ha conosciuto e visto lavorare, mi ha detto: "Lei deve farsi vincolare quella casa lì". Il farsi fare un vincolo può essere un vantaggio da un punto di vista anche fiscale. Non me ne importa niente, a me non importa niente, se la casa è vincolata o non vincolata. Io ho delle grane continue con la Soprintendenza: i progetti che faccio, continuamente, me li bocciano per le piante che faccio, vorrei sapere perché mi bocciano una mia pianta. cosa c’entra, non so, non riesco a capire. Quindi, è un vincolo pericolosissimo, perché se ti bloccano un lavoro, perché non te lo lasciano fare. Potrebbe essere giusto non lasciar fare i lavori su piante intelligenti, brillanti, per non rovinare quello che è un prodotto della mente, o un prodotto estetico, anche se è all'interno. Ma non è così, perché io ho dei casi di costruzioni che non valgono niente, e mi vengono impedite le modifiche per nessun motivo. È gravissimo, gravissimo, gravissimo, perché sono dei vincoli.


Insomma, in un caso che mi è capitato ultimamente, sono due appartamenti da duecento metri che dovevo unire, che non posso unire, e insomma, oggi duecento metri sono quindici milioni al metro, in questa zona di Sant'Ambrogio, quindici milioni al metro per duecento, cosa sono, sono sei miliardi. Allora, impedire a una persona di usare, di non poter usare sei miliardi di appartamento, insomma, è pazzesco. Per una cosa che non esiste. Perché una pianta fatta nel 1960, fosse una pianta brillante, intelligente: è una pianta orrenda, con l’ascensore cacciato dentro, si vede che è stato fatto pochi anni fa, insomma.

Quali sono gli elementi tipologici, di linguaggio e i materiali della tradizione milanese che ha fatto propri? 


L’intonaco, per esempio. Ma non ho usato mai il mattone. A me forse non piace tanto, mi piace Sant'Ambrogio, ma ogni cosa ha il suo tempo. Ho usato molto le materie locali, che sono l’intonaco, e la beola, e il granito. Il granito e la beola, sì, li uso molto. Le case dovrebbero sorgere sempre col materiale del sito, perché anche urbanisticamente l’aspetto estetico della città se nasce da un materiale locale, ne assume più o meno il colore. Insomma, se una casa è fatta in Toscana, ha quella terra ocra, sembra emergere dal suolo. Urbanisticamente, io vincolerei l’uso del materiale locale. E poi, proibirei l’uso del colore inventato. Cioè: bisognerebbe sempre usare il colore delle materie locali, quindi non so, lo stesso intonaco, col colore della terra locale. Insomma, fare una specie di vincolo cromatico. Un vincolo cromatico e di materiale. Questo sarebbe già abbastanza per dare una certa uniformità all’architettura, dei coefficienti di uniformità. 


E, ad esempio, ha ripreso un po’ la tipologia delle case tradizionali milanesi? 


No. Non ho mai ripreso. Io sono uno che segue la richiesta del cliente e della famiglia. Da cui ne deriva automaticamente un legame alle abitudini, al modo di vivere milanese o lombardo. Ma in ogni modo, seguo caso per caso, quando vado a Genova lavoro con i genovesi, quando vado a Montecarlo lavoro con quelli là, se sono in Svizzera lavoro per gli svizzeri. Insomma, seguo la richiesta e l’esigenza. 


Nelle sue prime opere si nota una compresenza tra elementi cartesiani ed elementi organici, mentre nei suoi progetti più recenti tendono a prevalere le forme organiche. Ci può spiegare le ragioni di questa evoluzione?


Sì, evoluzione nel senso che ho imparato di più il mestiere, secondo me. Questo, più si impara più ci si adegua, magari che sono le vere esigenze del cliente, e i doveri dell’architetto, insomma. L’architetto deve adattarsi al cliente, deve lavorare per il cliente, quindi c’è una maggior finezza. Queste forme che voi chiamate organiche, sono dovute a un modo di muoversi degli utenti nell'edificio. 


Ma certi elementi formali, ad esempio certe forme bombate o curve, negli elementi, che si notano di più nelle sue ultime opere. 


Sì, mi vengono volta a volta. Non so come vi ho raccontato per piazza S. Babila era dovuto al percorso del dottore dall'impossibilità delle persone che comprano la Coca Cola di appoggiare la lattina nei bordi, ché gli cade, insomma. Quindi, la bombatura del paracarro è dovuta alla Coca Cola, cioè ad impedire a questo signore che vuol bere la Coca Cola di lasciarla lì, sul paracarro. Cosa che invece la Gae Aulenti, in piazza Cadorna, gli ha fatto i tavoli da mangiare, addirittura, per cui lì ci resta il pane, vi restano le briciole, vi resta tutto. Io sono fatto diverso, cerco di impedire questo disordine che è spontaneo, insomma. 


Nel momento in cui affronta un progetto che importanza ha il suo linguaggio personale e quanto invece il contesto? 


Non so se io sia persuasivo, o meno, non so; certo che io cerco di insegnare al cliente come può vivere, non lo so bene, perché non so se precede prima il progetto, o se precede prima l’esigenza. Capite cosa voglio dire? A seconda dei casi, c’è la possibilità di fare una sala in un posto e la sala da pranzo in un altro. Ché se mi viene la sala da pranzo vicino alla cucina, io sono soddisfatto e cerco di tenere la sala da pranzo vicino alla cucina, ché se non mi viene, allora trovo il modo, così, trovo modo che una sala, che è lontana dalla sala da pranzo, ha un significato di passeggiata e di escursione da un punto all'altro della casa, così mi valorizza, in un certo senso, la casa, anche la passeggiata, insomma. Quello che era la galleria di Versailles, che era lunga, non so, trecento metri, che permetteva lo svolgersi di un percorso, in un appartamento moderno è una cosa ridotta normalmente a quindici metri. Se io metto la sala all’opposto, e la camera da pranzo all'altro opposto, per quanto faccio quindici, quindici, trenta metri, quindici a tornare, quaranta. Insomma, in un certo senso obbligo un movimento che, in un certo senso, dà qualità alla casa. Però, sono io che lo faccio, o è la pianta che mi riesce e riesco a fare la pianta, depistata, dislocata una qui e una là, insomma. Certe volte è la possibilità che la pianta mi offre di fare questo gioco.





Ecco, il vincolo.



Il vincolo. Allora io lo indico al proprietario e dico: guarda che è una qualità, non è un difetto. Quello che potrebbe essere un difetto può diventare una qualità. Basta decorare il corridoio, che è lungo, in modo tale che ci sia una successione di emozioni, e quindi si crea questa emozione, che è dovuta. Ma viene prima la pianta o vien prima l’idea? Non lo so. Certe volte può darsi che sia la pianta che mi imponga la soluzione, la trovata dell’idea.



Lei insiste sulla necessità di usare intonaci e ceramiche naturalmente colorati dalle terre che contengono. Terre e ossidi hanno tuttavia molti colori diversi, come mai allora la predilezione per tinte scure, come il bruno e il prugna, che inoltre difficilmente si ritrovano nella tradizione milanese?



No, vi spiego, ad esempio la casa di via Ippolito Nievo è celeste. Però è l’unica cosa che ho fatto di celeste, è l’unica. Perché? Perché ho inventato, ho cercato di inventare, un tipo di casa che fosse, direi, complanare coi serramenti; cioè: il rivestimento complanare col serramento. Quindi non gioco con lo scuro ma con la complanarità. Cioè: ho creato una specie di pane di ghiaccio, diciamo così. Pane di ghiaccio sarebbe, che cos’è, un parallelepipedo di ghiaccio. Cioè: allora, celeste e piano, senza dentro e fuori, capisci? Ed io ho fatto il celeste. Però il celeste, io sono contrario in genere all'uso del colore. E allora passo al crème caramel, perché il crème caramel non è un colore, è un sale. È una salatura del grès. Salare il grès diventa crème caramel. Allora non è un colore, è una materia: che è diverso. Cioè, delle mie case, tipo Ippolito Nievo, quella celeste è un colore, l’altra è una materia. E fatto di materia perché è vetro, ceramica, e non colore. 



In realtà la nostra domanda era più sulla preferenza per il colore scuro rispetto al colore chiaro.



Io faccio anche il bianco. Le case di via Tolstoj, di quelle vie là, quelle case per uffici che ho fatto, sono belle case, sono bianchissime. Sono delle case con la gronda un po’ arrotondata, ma qui il bianco non è un colore; il nero non è un colore, se vuoi; negazione del colore, insomma. Sono contrario all’uso del colore. Mentre invece gli intonaci che uso sono sempre di un colore che va dal terra di Siena, al terra d’Ombra. I colori delle terre, sempre. Cioè tutta la serie delle terre la posso fare: rosse, terra rossa, terra gialla. Le terre vanno dal giallo al marrone scuro, e attraverso il rosso. Sono colori per così dire naturali che vanno dal rosso, al giallo, al rosso, al nero.


Molte volte lei si è trovato a ristrutturare abitazioni all’interno di edifici preesistenti, di cui non poteva modificare la facciata. Generalmente modifica radicalmente le suddivisioni interne, senza conservare tracce dell’assetto preesistente. Pensa che questo approccio della tabula rasa possa essere applicato ovunque, oppure ci sono casi in cui è giusto mantenere e valorizzare l’assetto spaziale precedente?

Certo, se è valido sì. Tabula rasa la faccio se non c’è niente, se no non lo faccio assolutamente. È questo che critico della Soprintendenza: se dentro queste piante ci fosse l’aspetto di qualche cosa che lì c’era un monastero, dove c’erano delle celle dei frati, piuttosto che laboratori, lascio tutto. Ma dove non c’è niente non posso lasciare queste costruzioni fatiscenti, fatte dodici, quindici, vent’anni fa. Non mi interessa.

Ma se trova, non so, un parquet decorato, un soffitto affrescato…

Se posso lo lascio, se posso lo tengo. Se c’è appena appena la possibilità, lo tengo, per carità. Però, quando queste cose sono fatte da gente che ha ripreso una cosa precedente, che è stata fatta vent’anni fa da un allievo di quello che ha già fatto i miei pavimenti, quando io avevo trent’anni, no. Questo che non sa neanche fare quello che faceva il mio mosaicista, lo butto via tranquillamente, insomma.

Ci sono critici che hanno visto un parallelismo fra alcune sue opere degli anni cinquanta e quelle coeve di Ignazio Gardella. Lei si sentiva davvero vicino a Gardella in quegli anni, oppure avvertiva maggiori affinità con altri architetti?

Gardella è stato mio grande amico, abbiamo lavorato insieme una quantità di volte, e sono un suo grande ammiratore. È stato un grandissimo architetto, però non è che abbia fanatismi.

Spesso sui libri si vede accostata questa casa di piazza Sant’Ambrogio con quella di Gardella al Parco Sempione.

Sì, forse una certa uniformità di modo di pensare c’è, però lui non era un piantista come me, non moriva sulla pianta. Era un fine esteta. Avevamo una certa affinità di ambiente e di educazione, per cui arrivavamo a certi modi di pensare o di vivere simili. Lui ha sposato una mia cugina, insomma eravamo vicini. Di famiglie, di educazione, di cose così; però eravamo del tutto diversi. Comunque i grandi sono stati Albini e Gardella.

Ci sono elementi delle sue opere milanesi che richiamano caratteri dell’architettura tradizionale engadinese, che lei conosce bene. Come mai ha sentito la necessità di usare questi elementi regionali in un contesto così diverso come quello milanese?

Penso che la facciata tradizionale, come quella engadinese, sia più utile per difendersi dalla luce che non una facciata in vetro. La facciata engadinese è molto intelligente: nel senso che ha piccole aperture, ma gli squarci gli permettono di andare a prendere le viste e il sole. Però, il tipo di architettura è interessante, insomma, è un’architettura intelligente. Mentre le architetture tutte vetro sono sciocche, queste architetture di difesa dall’agente atmosferico sono più serie. Non è che io porti un elemento di colore locale. Ho notato la serietà e la funzionalità vera di questa architettura: l’andare a prendere la vista, l’andare a prendere il sole in modo diverso.

La sua famiglia abitava da secoli nel palazzo di piazza Sant’Ambrogio. Quale rapporto la legava a questo palazzo?

La mia famiglia abita in questo palazzo da cinquecento anni. Noi siamo venuti qui nel 1492. Mentre Cristoforo Colombo scopriva le Americhe, nel 1492, noi siamo venuti da Novara a Milano, quindi abbiamo passato il Ticino [ride]. Un po’ di differenza: lui ha fatto l’Atlantico, noi il Ticino. Quindi si capisce perché io non volo, né navigo molto. Io sono nato il giorno di Sant’Ambrogio, e per di più mio papà si chiamava Ambrogio. Non è facile, insomma. Non sono interista, che si chiamava Ambrosiano, però ho fatto l’Ambrosiana, che mi hanno disfatto: l’Ambrosiana era una pinacoteca perfetta, era diventata un classico, l’hanno distrutta. Tutto perché sono arrivati i soldi della Cassa di Risparmio, e si sono dimenticati di un lavoro museografico perfetto, secondo me.
E non le hanno chiesto niente?
Niente. Non una parola. Tra l’altro credo di averlo fatto gratis, quel lavoro. Poi sono arrivati i soldi, e con i soldi hanno tolto il pavimento in veneziana, con il bordo di pietra, o di lavagna, o di beola consumata, e hanno fatto il parquet di rovere, con il bordo in giro: insomma, degno di una birreria tedesca.

Il fatto di vivere in un palazzo storico, a diretto contatto con la basilica di S. Ambrogio, è stato determinante nella sua scelta di diventare architetto, oppure i motivi sono stati altri?

No. Non ci ho pensato, non avevo dubbi di fare l’architetto perché mi divertiva disegnare, mi divertiva mettere a posto i mobili. Non era una scelta, ero come predestinato, non so perché. Mi sentivo la voglia di fare, di costruire.
Nel progettare la casa di Piazza S. Ambrogio quali sono i caratteri dell’antico palazzo che ha voluto riproporre?
Niente. Non ho riproposto niente. È venuto spontaneo l’adeguarsi all’andamento, al fiato, all’atmosfera della piazza, a questa pacatezza direi di ritmo. È una specie di assonanza, di questo passo calmo, queste poche finestre… Ho cercato di rifare una costruzione da piazza Sant’Ambrogio, e da Sant’Ambrogio. Questa calma, questa serenità, questa pacatezza, ha influenzato la scelta. Ma era abbastanza difficile la ricostruzione da fare, perché questa, la bella casa, era bruciata. La brutta, che era stata fatta nel 1928, è rimasta su tutta. Quindi sono rimaste su le costruzioni di via San Vittore, di via Carducci, e l’interno, con le scale già messe lì. Quindi dovevo collegare questa parte davanti agli appartamenti e alle scale precedenti, era abbastanza difficile.

Come ci ha raccontato, non è raro trovare registi di cinema che hanno fatto studi di architettura, oppure architetti cinefili, dimostrando l’affinità tra le due discipline. Crede che il cinema abbia qualcosa da insegnare agli architetti?

Non lo so. Non è che nelle scuole di architettura sia pieno di registi. Per caso, io ero compagno di scuola di Renato Castellani, che è stato un grandissimo regista, il più grande. Era mio compagno di scuola, studiavamo insieme, sempre. E poi, indietro di un anno, c’erano Comencini e Lattuada. Ma è un caso.

Nei condomini di via Ippolito Nievo la posizione e il dimensionamento delle finestre dipende maggiormente dalla suddivisione interna dei locali o da criteri geometrici che regolano la composizione delle facciate?


No, più dalle piante, sono veramente piante diverse una dall'altra. Però qualche volta, qualche aggiustamento lo si può anche fare [ride], anche dal punto di vista compositivo. Però la libertà è venuta da questa sovrapposizione di piante diverse. La libertà mi è nata da quello, dalla necessità. Cioè, è l’impianto che conta, insomma. Cioè, fai un progetto e vedi che le esigenze sono diverse un pochettino, c’è uno che ha due/tre figli, un altro che ne ha sei, uno che non ne ha nessuno; uno che prende un appartamento grande, uno che prende un appartamento piccolo, eccetera. E da lì, la necessità di esser liberi di poter fare una facciata che aderisca a piante diversificate. Qualche volta la pianta diversificata la posso fare anche per mettere a posto la facciata. Solo per necessità. Normalmente cosa si fa: una facciata è dal pian terreno fino in alto tutto uguale, più o meno. È un vantaggio dal punto di vista costruttivo, è chiaramente un vantaggio. Però non è fatto per fare la Portofino, è fatto per fare una adesione alle richieste.

Ma lei ha studiato proprio ogni pianta per tutti i clienti?

Eh. Non che abbia studiato ogni pianta, ho fatto delle piante diversificate, era una casa fatta per soci di una cooperativa, praticamente. Erano già diversi. Però, per dirvi, non so, gli appartamenti sono venti; dieci sono aderenti alle piante richieste, e dieci sono inventate. Però sono inventate su una diversificazione di pianta, e di metratura, insomma.


E quella scelta degli ascensori nella facciata, da dove nasce?

Nasce dalla necessità di servire con l’ascensore anche i servizi. L’ascensore c’è anche nel centro della casa. Poi c’è quello di servizio. Quello di servizio è chiaro che se è lì in mezzo serve i due. La casa è piuttosto comoda, insomma. Che poi è anche bello, questa movimentazione della facciata.

E come mai invece l’ascensore in mezzo alle scale, non sarebbe stato più bello lasciare libera la tromba?

È un vantaggio di costo inferiore. La scala crea un vuoto, che nel centro non è goduto. Se metti l’ascensore è fruito; costa molto meno. Poi è una formula mia.

7 dicembre 2016


Intersezioni ---> SPECULAZIONE


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Note:

Pierfrancesco Sacerdoti (Milano, 1979) è architetto e svolge attività didattica e di ricerca presso il Politecnico di Milano, dove ha conseguito il dottorato in Composizione Architettonica. È intervenuto come relatore in convegni internazionali ed è autore di saggi dedicati all’architettura e all’urbanistica di Milano. I suoi campi di ricerca spaziano dall’architettura di fine Ottocento, al Liberty, all’architettura del XX secolo, ai rapporti tra cinema e architettura. Dal 2003 organizza e conduce visite guidate sull’arte e l’architettura di Milano.

Tommaso Cigarini (Milano, 1977) è architetto con esperienze di ricerca e lavoro sia all’estero che in Italia. Nel 2001, grazie al progetto Erasmus, lavora per Laurent ed Emmanuelle Beaudouin in Francia. In Italia lavora presso gli studi Caneva-Conca e Mauro Galantino. Nel 2013 si trasferisce a Lima: lavora inizialmente presso lo studio Barclay&Crousse, nel 2015 apre il proprio studio di architettura e inizia a insegnare in un laboratorio di progettazione e museografia presso l’università UPC di architettura degli interni. Ha pubblicato saggi sull’architettura in riviste italiane ed estere. Attualmente sta svolgendo, presso l’URP di Lima, un master in Museografia presso l’Universidad Ricardo Palma.

1 Luigi Caccia Dominioni. Case e cose da abitare. Stile di Caccia, a cura di F. Irace e P. Marini, fotografie di G. Basilico, catalogo della mostra (Museo di Castelvecchio, Verona, 7 dicembre 2002 - 9 marzo 2003), Marsilio, Venezia, 2002.

Wilfing Architettura compie 10 anni

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Salvatore D’Agostino
Dieci anni fa il 20 aprile del 2008 nasceva Wilfing Architettura con la pubblicazione di quella che sarebbe stata una lunga indagine sul mondo dell’architettura e la scrittura in rete. Vorrei ricordare questo decennale pubblicando, in versione integrale, un’intervista che mi è stata fatta da Rocco Rossitto per il magazine I love Sicilia nel novembre 2010, al di là delle risposte, che mi ricordano il fervore di quegli anni, Wilfing Architettura non vive più nel centro della Sicilia ma da due anni vive a Milano ai margini del naviglio Martesana, questo slittamento di luogo ha causato anche uno slittamento temporale che non mi permette più di essere assiduo nelle pubblicazioni. Dopo questa ricorrenza, spero di riprendere a presto.
Intervista pubblicata su I love Sicilia nel novembre 2010
Quando nasce Wilfing Architettura e se ci scrive qualcun altro oltre lei?
Nasce nello spazio dedicato agli status di Skype nel novembre 2007, mi piaceva discutere con i miei amici, dei temi inerenti l’architettura che trovavo sul Web. Nel febbraio 2008 WILFING diventa una rubrica pubblicata sul mail-magazine presS/Tletter di Luigi Prestinenza Puglisi. Il blog nasce grazie ad un suggerimento di un mio amico Daniele Diana che vive a Londra il 20 aprile 2008. La piattaforma blog mi ha offerto subito delle potenzialità nuove, l’interazione con i lettori e lo spazio informale, non redazionale, mi hanno fatto capire che c’era tanto da inventare. Trasformando la mia idea d’archivio link in creazione di contenuti originali attraverso colloqui, inchieste, pubblicazioni di articoli non accessibili sul Web, articoli personali o di altri utenti. Al momento, per Wilfing Architettura, hanno scritto più di ottanta persone.
Può spiegarci il "sottotitolo" del blog e in poche parole di cosa si occupa il blog?
Sintetizza la stasi, l’estasi e l’e-stasi delle interazioni via Web. La stasi (ovvero lo stare fermo): Wilfing è l'acronimo di What Was I Looking For (WILF) “che cosa stavo cercando” e definisce la sindrome di chi inizia una ricerca su internet e si perde nei vari link. L’estasi (ovvero oltre la stasi o fuori di sé): la possibilità di estendere le nostre capacità cognitive attraverso il Web. L’e-stasi (ovvero e- contrazione di electronic e stasi), che fa sì, che Wilfing Architettura sia in transito (non essendo redazionale è aperiodico), una scialuppa di salvataggio (un punto quasi invisibile nel mare Web) in navigazione precaria (può decidere in qualsiasi momento di approdare e prendere una boccata d’aria).Wilfing Architettura, con la sua scialuppa, ama navigare nelle cattive acque dell’architettura.
Header Wilfing Architettura nel 2008
Quanti anni ha e in quale città vive?
Due anni e mezzo, ma devi considerare che un anno nel Web equivale a 16 anni (una stima molto personale). Più che in una città vivo in un paese sui monti Erei: Leonforte.
Quanto tempo dedica al blog?
Il blog è un’estensione del mio lavoro come la matita o il software di disegno assistito.
Immagino che Wilfing Architettura non produca ricchezza, di che si occupa nella vita?
Si sbaglia, mi arricchisce molto più del lavoro che svolgo nel mio studio. Ma forse, dobbiamo stabilire che cosa s’intenda per ricchezza.
20 aprile 2018
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